Siamo nella torrida estate del 2053. Un turista indonesiano in visita a Firenze si affretta a rientrare al fresco del suo appartamento affittato per 500 euro a notte. Giunto in prossimità dell’ingresso, inciampa su una buca del marciapiede e si ferisce a una gamba. Non è grave, ma non può camminare e ha bisogno di cure mediche. Due turisti italiani di passaggio, originari di Palermo ma emigrati in Germania, accolgono il malcapitato a bordo della loro Volkswagen elettrica appena uscita dallo stabilimento di Zwickau e lo portano all’ospedale di Careggi, da anni proprietà del gruppo sanitario privato UnitedHealthcare. Al costo di 1000 euro, la ferita dell’infortunato viene guarita con dei punti applicati tramite un cobot progettato e costruito in Giappone.
Questa sembra la trama di un romanzo distopico, ma anche uno spaccato plausibile di ciò che potrebbe essere il nostro Paese fra 30+1 anni se si prosegue con le politiche di austerità e di finanziarizzazione dell’economia, con l’assenza di una politica industriale, con il prevalere degli interessi particolari su quelli generali. L’Italia distopica del 2053 è quella in cui il reddito pro capite rispetto alla principale economia mondiale si è ridotto a meno della metà (era circa di tre quarti nel 1991), in cui il tasso di disoccupazione giovanile si attesta sistematicamente al 50%, in cui ogni anno emigrano 250 mila persone (come avveniva negli anni ’50 del secolo precedente) e in cui oltre la metà della popolazione ha più di 65 anni.
Questo come risultato di una profonda trasformazione del sistema socio-economico. Da quella che sarebbe potuta essere una moderna economia della conoscenza trainata dall’investimento, dalla ricerca e dai saperi tecnico-scientifici impiegati nella produzione di beni e servizi innovativi, a una stagnante economia della rendita, concentrata sull’estrazione di valore da patrimoni finanziari e immobiliari (a loro volta la causa e l’effetto della recrudescenza delle disuguaglianze).
Il decantato Made in Italy rimane confinato alla manifattura a basso valore aggiunto (quindi a bassi salari) o a nicchie di produzione nei settori dell’abbigliamento e del cibo, che tuttavia non sono capaci di indurre effetti sistemici positivi per l’economia nel suo complesso. L’Italia che negli anni ’90 smise di produrre computer Olivetti e che negli anni ’10 cominciò a dismettere la produzione automobilistica della Fiat, nel 2053 ha perso anche tutto ciò che rimane. Come avvenuto nel trentennio precedente, nei successivi 31 anni la privatizzazione delle rimanenti grandi imprese a controllo pubblico, unita all’assenza di una strategia nazionale di politica industriale, ha comportato la sparizione completa delle produzioni aerospaziali, della cantieristica e dei semiconduttori.
Nel frattempo, il turismo internazionale ha stravolto la vita nei principali centri urbani: i prezzi degli affitti e delle case hanno raggiunto livelli insostenibili. Gli abitanti originari sono spinti fuori città, dove rientrano per lavorare nella ristorazione dopo ore di viaggio, poiché il trasporto pubblico è scarso a causa di decenni di sottofinanziamento. I proprietari delle abitazioni invece vedono accrescere il proprio patrimonio, mentre si è azzerato l’incentivo a investire il capitale disponibile in attività imprenditoriali di rischio.
Chi non può lavorare nei settori ancillari al turismo emigra, per cercare migliori prospettive di lavoro e di reddito, anche per il venir meno dello stato sociale universalistico che potrebbe garantire una pensione dignitosa ai genitori anziani e una scuola pubblica di qualità per i propri figli. I pochi cittadini italiani rimasti sono obbligati a sottoscrivere un’assicurazione privata per la salute, mentre l’università pubblica è stata completamente soppiantata da una gestione privata con rette così alte da obbligare gli studenti a indebitarsi per pagare il costo degli studi.
L’Italia del 2022, che abbiamo cercato di dipingere nel libro 30+1 cifre che raccontano l’Italia, presenta già tutti gli elementi della futura traiettoria di declino del Paese. Sono molte le scelte politiche che andrebbero prese per invertire la rotta. Visto dal 2022, raddrizzare lo scenario distopico si scontra con un oggettivo pessimismo della ragione. Non rimane che ripartire dall’ottimismo della volontà di un noto personaggio italiano che nel 1961 sosteneva come “noi italiani dobbiamo toglierci di dosso questo complesso di inferiorità che ci hanno insegnato”, aggiungendo che “per fare questo è necessario studiare, imparare e conoscere i problemi”. Il nostro libro è anche un modesto tentativo di seguire la strada indicata da Enrico Mattei.
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