Due giorni fa è stato pubblicato dal Directorate-General for Climate Action della UE il comunicato stampa congiunto che elenca i risultati del Fourth EU-China High Level Environment and Climate Dialogue, tenutosi a inizio mese. Il 4 luglio si è chiusa la due giorni di dibattito, con conclusioni che presentano interessanti indicazioni sul quadro della competizione globale.
La discussione ha visto coinvolti Frans Timmermans, che ha guidato il lavoro sul Green Deal per la Commissione UE e ora si è candidato alle elezioni olandesi, il primo vice-premier della Cina Ding Xuexiang, l’inviato speciale per il cambiamento climatico Xie Zhenhua e il suo ministro dell’ambiente Huang Runqiu. Un incontro di altissimo livello, che segue la visita della Von der Leyen dello scorso aprile.
Le parti in campo hanno mostrato comune volontà di raggiungere traguardi concreti sul tema di quella che Timmermans ha definito “la triplice crisi del cambiamento climatico, dell’inquinamento e della perdita di biodiversità”. Ma rimangono punti di frizione importanti, su cui lavoreranno nei prossimi mesi.
Entrambe le parti si vogliono impegnare nell’attuare pienamente l’Accordo di Parigi sui cambiamenti climatici e nella buona riuscita della COP28, che sarà presieduta dagli Emirati Arabi Uniti. Lo stesso vale per il Global Biodiversity Framework (GBF) e la COP16 sulla biodiversità.
L’economia circolare e l’inquinamento da plastica sono due settori centrali di cooperazione tra Cina e UE, che lavorano all’adozione “di uno strumento globale giuridicamente vincolante sull’inquinamento da plastica entro la fine del 2023”.
L’impegno preso è, inoltre, nel “proseguire la discussione sull’istituzione di un sistema rappresentativo di aree marine protette nelle acque circostanti l’Antartide”.
Impegni di governance globale non indifferenti, presi autonomamente da Pechino e Bruxelles sul terreno della transizione verde, che i diplomatici hanno convenuto essere “il colore distintivo della cooperazione UE-Cina”. Ma quando si getta uno sguardo sulle politiche concrete, permangono diversi problemi.
In particolare, il nodo principale è l’approvazione da parte delle autorità europee, neanche due mesi fa, del Carbon Border Adjustment Mechanism (CBAM). Si tratta in sostanza di dazi su importazioni ad alta intensità di carbonio emesso (acciaio, cemento, elettricità, alluminio e fertilizzanti), con un periodo di piena attuazione tra il 2026 e il 2034.
La preoccupazione cinese è che ciò porti a un vantaggio competitivo per le aziende europee, mentre Timmermans ha affermato che l’unica ragione di questa scelta è per prevenire la rilocalizzazione delle emissioni, spostando la produzione in luoghi con normative più indulgenti. Ed entrambe le posizioni hanno un fondo di verità.
La UE vuole giocarsi il proprio ruolo nell’arena internazionale sull’obiettivo di diventare il primo continente a neutralità climatica entro il 2050, che letto con la lente dell’economia significa competere sulle nuove tecnologie per la produzione energetica e il trasporto elettrico. Il CBAM si inserisce in questa cornice, fatta anche di altri provvedimenti.
Il Net-Zero Industry Act proposto a marzo dalla Commissione UE prevede di raggiungere il 40% del fabbisogno energetico attraverso la promozione di otto tecnologie a zero emissioni entro il 2030. A giugno è stato invece approvato un insieme di regolamenti su batterie e celle elettriche, che impongono livelli minimi di contenuto riciclato e dichiarazioni sull’impronta di carbonio alle aziende.
Quasi tutti i moduli fotovoltaici e un quarto dei veicoli elettrici e delle loro batterie sono importate dalla Cina. Timmermans a riguardo di ciò ha detto che “l’industria automobilistica europea è un settore critico [...] e faremo di tutto per dare a tale industria l’opportunità di trasformarsi anche in una produzione di successo di veicoli elettrici”.
Evidentemente il CBAM è stato ideato con la logica protezionistica oggi usata dell’imperialismo euroatlantico, per proteggersi dalla competizione e garantire alle multinazionali su base continentale un mercato che assicuri il ritorno degli investimenti nel settore. Ma non ci sono ancora le condizioni per una lotta senza quartiere.
Il diplomatico olandese non ha nascosto che, in quanto all’energia solare che il Dragone ha installato nei primi quattro mesi dell’anno – 48 gigawatt – “non ci sia paese sul pianeta che possa avvicinarsi a farlo su base annuale”. Timmermans ha affermato esplicitamente che “il derisking è per gli altri settori, non è per il settore verde”.
Sul CBAM ci sarà un dialogo aperto, e a settembre Gerassimos Thomas, a capo dell’unione fiscale e doganale europea, dovrebbe recarsi in Cina per questo. Il comunicato si conclude dicendo che si vuole “rafforzare la comunicazione e il coordinamento tra le due parti e approfondire la cooperazione in settori chiave”.
Sarà in una complessa dialettica tra legame imprescindibile con la produzione del Dragone e tentativo di assumere un profilo autonomo nella competizione internazionale che la UE svilupperà la sua transizione verde. Ma intanto, i due attori sembrano condividere la volontà di assumere un ruolo guida nella governance globale della crisi climatica.
Per un salto di qualità nel confronto con Pechino sarà preliminare la costruzione di un «giardino di casa», confermata anche da studi italiani, attraverso cui dare slancio all’industria europea. E su questo punto Bruxelles sta accelerando in maniera preoccupante.
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