Secondo i dati ufficiali dell’Istat, pubblicati pochi giorni fa, i salari italiani sono 3700 euro al di sotto della media europea, con il nostro Paese che si conferma essere tra i peggiori in Europa per redistribuzione della ricchezza.
L’inflazione ha toccato il 12%, la più alta dal 1984, anno segnato dal varo del primo decreto (quello Craxi) che mise per la prima volta in discussione la scala mobile, col taglio di 3 dei 12 punti di contingenza previsti per quell’anno. Dopo la sconfitta del movimento operaio in Fiat, per il padronato italiano si aprivano numerosi spazi per mettere completamente sotto attacco il modello rivendicativo e gli automatismi di recupero salariale di allora.
Per la prima volta la controparte padronale si trovava di fronte ad organizzazioni sindacali disponibili ad auto-imporsi una vera e propria limitazione sulle proprie rivendicazioni ed è proprio li, dentro a quella sconfitta, che emerse il modello concertativo che impose un accentramento delle regole contrattuali e di rivendicazione salariale e dava in cambio al sindacato tradizionale il diritto di esistenza.
I cosiddetti “Patti Sociali” e gli accordi interconfederali di allora trovarono suggello negli accordi del 31 luglio del 1992 e del 23 luglio del 1993. Esattamente trent’anni fa fu sancito il modello che impose il crollo inarrestabile dei salari dei lavoratori e delle lavoratrici del nostro Paese.
Gli accordi di luglio, vanno visti assieme: il primo, che impose il taglio della scala mobile, sancì che i salari non potevano più essere adeguati al costo della vita. Il secondo, quello del 23 luglio 1993, stabilì l’impossibilità per la contrattazione di attaccare la ricchezza reale e stabilire aumenti contrattuali basati esclusivamente sulla base dell’inflazione programmata, ovvero predeterminata.
Oggi, il dibattito politico e sindacale in corso, in particolare quello sul salario minimo, mette in evidenza la necessità di recuperare memoria di quegli accordi. Comprendere appieno il fallimento di quel modello dovrebbe permetterci di affrontare questa discussione con lo sguardo più attento.
Gli accordi di luglio '92-'93 avevano promesso ai lavoratori di allora che la riduzione dei diritti esistenti sarebbe stata controbilanciata dalla possibilità di recuperare o addirittura di accrescere questi diritti attraverso altre sedi. Parole d’ordine che appaiono molto simili a quelle di oggi che attaccano il salario minimo.
Sappiamo però che la storia è stata ben diversa: dicevano “togliere la scala mobile per rafforzare la contrattazione nazionale”, poi sono arrivati a svuotare il contratto nazionale per rafforzare il contratto aziendale, poi non serve più nemmeno quello, perché il modello di oggi è un modello dove la contrattazione è possibile anche individualmente, dove emergono modelli come quello della precarietà lavorativa in cui lo scambio dei diritti avviene sulla base delle libertà e delle disponibilità individuali.
Introdurre il salario minimo per legge a 10 euro l’ora, ridiscutere i contratti al di fuori dei modelli contrattuali figli degli accordi di luglio ‘93, significherebbe rompere la gabbia che ha costretto milioni di lavoratori e lavoratrici dentro la più grande ingiustizia di questo paese: lavorare per essere poveri.
Unione Sindacale di Base
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