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31/01/2021

Il Silenzio (1963) di Ingmar Bergman - Minirece

Lettera aperta di piena solidarietà agli studenti del Kant (prima parte)

Come docente ritengo doveroso esprimere piena solidarietà agli studenti del Liceo Kant, vittime di una vergognosa repressione poliziesca nel corso di un’assemblea d’istituto, regolarmente autorizzata dalla Preside, che solo chiedeva di ripristinare nella sua pienezza il diritto costituzionale all’istruzione pubblica, fondamento essenziale di un ordinamento politico democratico, ormai da un intero anno gravemente menomato e dimezzato, almeno per quanto riguarda la scuola statale.

Per comprendere appieno la dinamica dell’incresciosa vicenda di un nutrito drappello di forze di polizia inviate all’interno di un Liceo ad intimidire e malmenare giovani si deve mettere in rilievo che, pochi giorni prima, gli studenti del Kant avevano fatto pubblicare una loro lettera sul “Corriere della Sera” in cui lamentavano la noncuranza e la gestione improvvisata ed approssimativa della scuola pubblica nella crisi pandemica da parte di una classe politica che, pronta a sbraitare contro i cittadini che escono di casa a fare due passi, in mesi e mesi non ha mosso un dito per reperire ed organizzare nuovi spazi per la didattica, rinforzare il sistema dei trasporti nelle ore d’entrata e d’uscita degli studenti, provvedere servizi di refezione (tanto più con bar e ristori interdetti per COVID!) per docenti e studenti (vittime comuni) costretti alla fascia oraria h10 – h16 proprio per l’inadeguatezza dell’edilizia, dei trasporti etc.

Peraltro le stesse critiche sono state espresse nell’appello della “Rete degli studenti medi” ed in quello dei docenti del Dante Alighieri ma, a quanto sembra, parole al vento visto che proprio oggi, 27 gennaio, i Presidi ed i Genitori Democratici hanno protestato poiché il Ministero ha appena confermato per il prossimo anno scolastico 2021-22 i consueti criteri numerici di formazione delle classi, ben sintetizzati dalla formula “classi-pollaio”.

Dunque il Governo, pur proclamando senza tregua l’infuriare della mortifera pandemia, niente ritiene di fare per rendere possibili ai giovani lezioni in presenza in condizioni di sicurezza. Niente investimenti aggiuntivi ma solo provvedimenti restrittivi che costringono alla protrazione “sine die” del DAD.

Ebbene, ciò che trovo particolarmente apprezzabile nella lettera degli studenti del Kant è di aver chiaramente denunciato che l’incuria (per non dire il menefreghismo) attualmente mostrata dai nostri dirigenti politici nella situazione contingente della crisi-COVID va contestualizzata in un generale e perseverante indirizzo governativo, condiviso indifferentemente dal Centrodestra e Centrosinistra (da tempo due facce della stessa medaglia), che ormai da decenni “la relega al secondo o terzo o quarto posto”, dedicandole robusti tagli stile Gelmini ed una percentuale del PIL che pone l’Italia al fanalino di coda di tutti gli Stati UE (idem per l’irrisoria retribuzione dei docenti e la ricerca universitaria).

Di conseguenza, visto il costante ed inamovibile atteggiamento di scarsissima considerazione della scuola pubblica, ben si deve soppesare l’ipotesi che vi sia un deliberato intento politico di far leva sull’emergenza per assestarle il colpo definitivo ed impacchettarla in “formato minore DAD”, infliggendo così l’ultimo robusto “taglio” che spazzerebbe via una volta per tutte l’indubbiamente oneroso problema di un’edilizia scolastica fatiscente, insufficiente (vedi le classi-pollaio) e in gran parte da regolarizzare rispetto alle normative di sicurezza – risparmio cui peraltro si sommerebbe anche quello della consistente riduzione del personale ATA.

Del resto non si può certo dire che la DAD sia apparsa come fulmine a ciel sereno, tutt’uno con l’irruzione del Virus Fatale (fatale per la scuola statale e la democrazia costituzionale).

Di fatto è già a partire dal 2015 che in tutte le scuole è stato via via introdotto al posto del registro cartaceo quello elettronico (sostituzione provvidenziale perchè, quando s’è diffusa la pestifera pandemia, ha reso possibile ai docenti d’effettuare da casa tutte le registrazioni dell’appello, il che sarebbe stato impraticabile col cartaceo), quindi sono stati organizzati corsi obbligatori per istruire i docenti all’uso didattico del computer, poi dispensati loro tablet in comodato e in ultimo sono giunti i “bonus” annuali di Renzi per l’acquisto di hardware o software.

Notiamo che pure attività scolastiche che, per il ridotto numero dei componenti, potrebbero ben continuare a svolgersi in presenza, come i consigli di classe, quelli di dipartimento, gli scrutini ed il ricevimento genitori, sono attualmente comunque relegate in DAD (sebbene l’inviso assembramento riguarderebbe solo il collegio docenti).

In definitiva, visto che non mancano del tutto indizi per sospettare ci si voglia abituare gradualmente alla scuola pubblica in DAD, va indubbiamente approvata la fermezza con cui gli studenti del Kant s’oppongono a tale eventualità scrivendo sul Corriere della Sera: “Vogliamo tornare tra i banchi di scuola, non ci accontentiamo di esser lasciati con uno schermo nelle nostre case” o “Asseriamo fortemente che la DAD non è scuola”.

Riguardo tali recise affermazioni pubblicate dagli studenti del Kant, che evidentemente sono apparse a qualcuno talmente intollerabili e vandaliche da meritare una sana reprimenda poliziesca, faccio appello a tutti i miei colleghi affinché le sottoscrivano appieno, visto che è dottrina assodata nella scienza pedagogica che la scuola non sia solo luogo di ISTRUZIONE ma anche di SOCIALIZZAZIONE.

Del resto basta evocare il concetto di “Paideia”, radice etimologica della stessa scienza dell’educazione (Pedagogia), per sapere che nell’antica Grecia essa era intesa innanzitutto come “educazione alla cittadinanza”, valore magistralmente illustrato da Platone nella “Repubblica”.

È d’uopo citare anche l’analisi condotta da Hegel nell’Etica (articolata nella triade dialettica “Famiglia-Società civile-Stato politico”) secondo cui la famiglia è, sì, la prima agenzia educativa e luogo di formazione del giovane, ma in funzione propedeutica al suo inserimento nella società civile, di cui proprio la scuola è primo passo.

POST SCRIPTUM: Cari studenti del Kant per valutare in tutti i suoi aspetti ed implicazioni il problema del progressivo degrado della scuola pubblica è indispensabile inquadrarlo nel più ampio contesto politico e sociale degli ultimi decenni, specie a partire dalla riforma varata nel 2000 dal ministro dell’istruzione Berlinguer che promosse la scuola privata cattolica ad uno status paritario con la scuola statale.

Vi invierò pertanto a breve una SECONDA PARTE della lettera ove si esamineranno le idee sul ruolo della scuola pubblica ed il suo rapporto con quella privata sostenute dal noto giurista e padre costituente Piero Calamandrei, rapportandole con la situazione attuale. Seguirà una terza parte sul tema da me trattato nell’insegnamento di educaz.civica “Stato d’emergenza e diritti costituzionali”.

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Contrordine neoliberisti. Il debito non è il problema!

Punto e a capo. Il decano degli economisti mainstream, in realtà ingegnere, Francesco Giavazzi ha scoperto l’acqua calda. Due volte.

La prima: “il problema del nostro Paese non è il debito, ma l’assenza di crescita“. Se l’Italia crescesse il debito si ripagherebbe, perché il rapporto debito pil avrebbe al denominatore un numero maggiore. Ci è arrivato dopo decenni, lui, assieme all’altro campione, Alberto Alesina, teorici dell'”austerità espansiva”.

Il secondo, Giavazzi sostiene che il Recovery Fund non è un “regalo” dell’Europa, ma sono soldi per lo più nostri. Anzi, ma questo non lo dice, il nostro Paese è contributore netto (dà più di quanto riceve), come da decenni.

Occorre secondo lui fare investimenti in sanità, cambiamento climatico, ecc. accompagnati da “riforme strutturali” nella Pubblica amministrazione e nella giustizia.

Tutto vero, per quanto molto parziale. Ma sorprendente per uno che ha costruito la sua carriera raccontando esattamente l’opposto. Che su quei falsi clamorosi ha costruito decine di giornalisti economici e persino qualche pessimo direttore (uno per tutti: Massimo Giannini, ideologo senza fantasia che ripete sempre le stesse quattro frasi copiate dal Giavazzi old style).

Il lupo perde il pelo, ma non il vizio. Non è insomma possibile che un rovesciamento politico-economico del genere avvenga senza presentarsi in pubblico per confessare, a là Clenda, “ho detto tutte cazzate per 30 anni”.

Evidentemente da oltreoceano è arrivato l’ordine: il debito non è un problema con banche centrali e tassi a zero, secondo quanto spiegato dall’ex sottosegretario al Tesoro di Bill Clinton, Lawrence Summers. Ci siamo sbagliati, sembrano dire, incuranti dei disastri che hanno combinato.

Il convitato di pietra è la Cina, in piena crescita nonostante tutto.

Evidentemente non riescono più a tenerle testa, ma Giavazzi, che non ha letto Marx – e si vede – non riesce a capire perché quel Paese è l’unico, assieme a Taiwan e Vietnam, ad esser cresciuto.

Generazioni intere di studenti hanno bevuto da questo personaggio, e dunque – altrettanto – non possono capire perché questo modo di produzione non funziona più. Anche questo un disastro immane.

Ovviamente non si prenderà responsabilità storiche che toccano anche a lui. Né smette (anche nell’articolo qui riportato integralmente), di continuare a raccontare alcune palesi “bufale”, come “Consentire alle persone di andare in pensione a 62 anni non significa affatto sostituirle con altrettanti giovani, significa solo ridurre ulteriormente la partecipazione al mercato del lavoro che in Italia è già esigua“.

Perché lui è il “decano”. E affonderà con la nave su cui ha viaggiato in prima classe.

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Gli errori sul debito e l’assenza di crescita

Francesco Giavazzi – Corriere della Sera

Una prospettiva scorretta nel mezzo di una crisi sanitaria, sociale ed economica può indurre a dare risposte sbagliate all’emergenza

È un errore continuare a ripetere che il nostro problema maggiore è il debito pubblico: il nostro problema maggiore sta nell’assenza di crescita. Se la nostra economia crescesse più rapidamente del nostro debito, ripagarlo non sarebbe necessario. Certo, i titoli quando scadono devono essere rimborsati, ma siccome l’unica variabile che davvero conta è il rapporto fra il debito e il Prodotto interno lordo, il problema si risolverebbe da sé.

Infatti, se il denominatore di questo rapporto, cioè il Pil, cresce più rapidamente del numeratore, il debito, il rapporto tende naturalmente a zero e cioè il debito, in rapporto al Pil, pur molto lentamente, scompare da solo. Questo purtroppo non significa che se l’instabilità politica fa salire il costo del debito la crescita basti, come tante volte Alberto Alesina ed io abbiamo cercato di spiegare ai lettori.

Insistere sull’equivoco che il nostro problema maggiore è il debito pubblico significa concentrarsi su un obiettivo di politica economica errato. Significa compiere un errore di prospettiva che nel mezzo di una crisi sanitaria, sociale ed economica, come ben sottolineato dal presidente Mattarella, può indurre a dare all’emergenza risposte sbagliate.

E se invece fosse proprio il debito la causa della nostra assenza di crescita? In parte è vero, ma allora il problema non è il livello del debito, bensì i motivi per cui il debito è stato creato, cioè come lo Stato spende le sue risorse.

Consideriamo due esempi: se il governo, come sembra, prorogherà fino alla fine dell’anno «Quota 100», il debito che ne consegue non aiuta la crescita. Consentire alle persone di andare in pensione a 62 anni non significa affatto sostituirle con altrettanti giovani, significa solo ridurre ulteriormente la partecipazione al mercato del lavoro che in Italia è già esigua.

Molto diverso è invece il debito che si crea, ad esempio, per migliorare la sicurezza e la qualità degli edifici scolastici. La scuola rappresenta la prima occasione di incontro di bambini e adolescenti con lo Stato: l’immagine di uno Stato trascurato e fatiscente non li invoglia a diventare cittadini onesti, requisito indispensabile affinché un Paese cresca. Anche il debito che si viene a creare allungando l’orario di lavoro degli insegnanti, così che le scuole non chiudano all’inizio di giugno e riaprano attorno al 10 settembre, è un aiuto alla crescita.

Quando si parla del progetto Next Generation Eu, il primo aspetto che viene sottolineato è che si tratta di risorse «regalate» dall’Europa. Innanzitutto questo non è vero perché l’Italia contribuirà comunque a finanziare anche questi sussidi, che peraltro sono una quota limitata del programma. La questione centrale rimane il modo in cui le risorse verranno spese. Quand’anche i progetti li finanziassimo tutti noi a debito, se le risorse sono spese bene non farebbe gran differenza. Che significa spenderle bene?

Il piano che sottoporremo all’Europa deve consistere di due parti: un elenco di progetti che soddisfino i criteri indicati (sanità, salvaguardia dell’ambiente, cambiamento climatico) e alcune riforme senza le quali è difficile pensare che qualunque piano si traduca in crescita. Evidentemente è il secondo aspetto — quasi del tutto assente nelle bozze finora prodotte — quello cruciale.

L’approccio al Next Generation Eu va quindi rovesciato. Dimentichiamoci che sia un «regalo», perché come ho detto lo è solo in piccolissima parte, e dimentichiamoci per ora l’elenco dei progetti, sul quale invece si è accesa l’attenzione della politica. Partiamo dalle riforme, il cui elenco è chiaramente indicato nello schema redatto dall’Europa: innanzitutto giustizia e pubblica amministrazione.

Dall’attenzione che il programma del nuovo governo assegnerà a queste riforme, dalla precisione e dal realismo degli impegni che assumerà, dalla qualità dei ministri che verranno incaricati di occuparsene si capirà la serietà del governo sul Next Generation Eu.

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Da Lugansk: «Il Donbass è il cuore della Russia!»

Ancora intensi combattimenti in Donbass tra le milizie popolari e le forze ucraine, in particolare nell’area di Gorlovka, in prossimità dei villaggi minerari Gagarin e Komarov. E se al momento le truppe di Kiev si “limitano” ancora all’impiego di mortai e artiglierie, si fa sempre più frequente l’uso di droni, tanto che in Donbass si manifesta il timore che stiano per entrare in servizio effettivo i 6 droni “Bayraktar TB2” che l’Ucraina ha acquistato dalla Turchia (altri 5 lo saranno quest’anno) dato che specialisti turchi sarebbero già all’opera per istruire i soldati ucraini al loro impiego.

Su questo sfondo, il 28 e 29 gennaio si è tenuto a Donetsk il Forum “Donbass russo”, cui hanno preso parte anche deputati della Duma russa. All’esame, i principi fondativi delle Repubbliche popolari, la fine della guerra, l’integrazione del potenziale scientifico, culturale e industriale di Donbass e Russia.

Non si può escludere che, con l’elezione di Biden e il timore che ciò induca Kiev a un’escalation dell’aggressione, L-DNR intendano stimolare Mosca a fornir loro un aiuto più “stretto”.

Come che sia, al Forum, particolare risonanza ha avuto, tra gli altri, l’intervento della direttrice di Russia Today, Margarita Simon’jan che, in modo esplicito – sottolineando comunque di parlare a puro titolo personale – ha esortato a includere DNR e LNR nella compagine russa.

La gente del Donbass, ha detto Simon’jan, «vuol parlare russo e noi abbiamo l’obbligo di garantire loro questa possibilità. Le persone del Donbass vogliono avere la possibilità di essere russe e noi abbiamo l’obbligo di garantire loro questa possibilità».

Da Mosca, è arrivata l’immediata precisazione del Ministero degli esteri, che la posizione della Simon’jan costituisce solo il «suo punto di vista, la sua posizione» personale. Il Cremlino continua infatti a manifestare particolare riserbo e cautela sulla questione, tanto che, in diverse occasioni, anche di recente, ha parlato del territorio del Donbass come “ucraino” e si limita per ora alla concessione di passaporti russi agli abitanti del Donbass che li richiedano.

Ad ogni modo, «siamo russi, e vogliamo stare nel mondo russo», ha dichiarato al Forum, ad esempio il rettore dell’Università di Lugansk, Viktor Rjabičev. E se Simon’jan ha precisato di parlare a titolo personale, ecco che da Lugansk proclamano apertamente la «oggettività dell’integrazione del Donbass con la Russia», che «Il Donbass è il cuore della Russia!».

Lo ha fatto Oleg Akimov, presidente dell’Unione interregionale delle Comunità della regione di Lugansk, di cui riportiamo l’intervento.

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Il Donbass è indissolubilmente legato alla Russia

Oleg Akimov

Il forum di integrazione “Donbass russo”, che si è svolto nella Repubblica popolare di Donetsk il 28 gennaio, ha mostrato ancora una volta, al mondo intero, che la strada delle Repubbliche, scelta nel 2014 dai loro abitanti, resta immutata: integrazione e futuro comune con la Federazione Russa.

È universalmente risaputo come il Donbass, nella sua ricca storia, sia indissolubilmente legato alla Russia da una comunità di destini, tradizioni, cultura. La Repubblica popolare di Lugansk, così come tutto il Donbass, è parte del grande mondo russo. La storia del territorio di Lugansk è legata all’imperatrice russa Caterina II, che creò una fonderia sul fiume Lugan’, il che diede avvio allo sviluppo industriale nella regione del Donbass. Questi e altri fatti ci legano al popolo fraterno, multinazionale, della Russia.

Condividiamo l’opinione del deputato della Duma russa Andrej Kozenko, coordinatore del Comitato di integrazione “Russia-Donbass”, secondo cui il Donbass è, di fatto, uno dei soggetti della Federazione Russa. Ciò è confermato dal riconoscimento, in territorio russo, dei documenti rilasciati nelle Repubbliche del Donbass e dalla decisione del Presidente russo Vladimir Vladimirovič Putin sul rilascio di passaporti della Federazione Russa e la semplificazione delle procedure per l’acquisizione della cittadinanza da parte degli abitanti di LNR e DNR, così che, a oggi, più di 400.000 abitanti delle Repubbliche hanno usufruito di questa opportunità.

Ciò è testimoniato anche dal fatto che i russi non abbandonano la propria gente e, per tutti coloro che si considerano russi, vengono create le condizioni per l’ottenimento dello status ufficiale di cittadino della Federazione Russa. Gli abitanti delle Repubbliche vivono secondo l’ora di Mosca. Il sistema dell’istruzione è già sincronizzato con quello russo. Il quadro legislativo, pressoché in tutte le sfere, è orientato sull’esperienza russa. L’unica lingua di stato sul territorio delle Repubbliche è il russo e la valuta ufficiale è il rublo russo.

Tutto questo parla dell’oggettività dell’integrazione del Donbass con la Russia.

L’Ucraina sabota costantemente l’adempimento degli accordi di Minsk. I neofascisti ucraini, impossessatisi del potere con un colpo di stato, hanno fatto di tutto perché il Donbass si separasse dall’Ucraina. È stata proprio la junta di Kiev a dar l’ordine per l’inizio delle operazioni di guerra in Donbass, a dare avvio al blocco e a ogni possibile sanzione contro le Repubbliche: tutte azioni volte al genocidio della popolazione civile del Donbass. E, malgrado tutto ciò, nonostante tutte le enormi difficoltà, le Repubbliche continuano a svilupparsi.

«Con la Russia per sempre!»: è questa la prospettiva e la scelta cosciente fatta dalla gente per il nostro futuro comune con la Russia! È questa l’unica vera strada: così è stato storicamente, così è e così sarà.

Il Donbass è il cuore della Russia!

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“Il Sud degli oppressi”. Un viaggio tra Martí, Marx, Gramsci, Bolívar, Chávez e Fidel

In occasione dell’anniversario della nascita di José Martí, Luciano Vasapollo interviene per sottolineare come il suo pensiero sia in sintonia con quello non solo di Marx ma anche di Bolivar, Gramsci, Guevara.

Innanzitutto lo studioso parte dal considerare la Weltanschauung nella quale Marx era immerso: “Non si può assolutamente esulare – inizia – dalla peculiarità del periodo storico concreto nel quale si sono sviluppate le sue opere, le sue idee e la sua azione rivoluzionaria. Siamo nella seconda metà del diciannovesimo secolo caratterizzato da importanti trasformazioni economiche e sociali in tutto il mondo”.

Se però la storia ricorda sempre la Rivoluzione industriale, “altre colonie, come quelle spagnole, vivevano in schiavitù. Lo sviluppo era legato completamente a Cuba con la produzione dello zucchero. La messa a produzione del profitto di questo prodotto, se da un lato ha sviluppato il sistema schiavista, ha anche creato le contraddizioni che hanno accelerato il processo di autodeterminazione e di indipendenza in questi anni”.

Ed è qui che José Martí fa la sua comparsa: “egli vive e partecipa ai movimenti delle lotte patriottiche. Inizia a scrivere dei suoi anni vissuti da deportato politico a Madrid, e grazie allo studio, fonda la struttura del suo pensiero socio-economico”.

Le sue categorie di studio trattano “temi come quello del lavoro, della proprietà, della ricchezza e non trascurando neppure la vita spirituale e materiale dei popoli. Così riesce a criticare tutta la struttura della società nordamericana, finendo per valutare e affermare l’anti-colonialismo spagnolo fino a realizzare l’ascesa dell’imperialismo nordamericano”.

Il suo pensiero era dunque storico, sociale e politico ma non solo: anche economico, sempre in un’ottica democratica partecipativa, contrario sia all’imperialismo americano, sia al colonialismo spagnolo.

Martí anelava a creare “una società libera, giusta, di uguaglianza sociale. Una società cubana nella quale vi sia l’autodeterminazione e l’indipendenza politica a partire dalla sovranità sulle risorse nazionali, il che significa anche avere una propria economia nazionale”.

Luciano Vasapollo però sottolinea come “le rivoluzioni di indipendenza in quella che lui chiamerà la Nuestra America – che noi, per meglio definirla, spesso chiamiamo la Nostra America indo africana – non attivano una vera trasformazione dell’era coloniale fino in fondo. La sua aspirazione era di portare Cuba all’indipendenza, alla realizzazione di una repubblica diversa da quella che lui aveva conosciuto”.

La Cuba che sogna è una società ove a regnare è “l’uguaglianza, la giustizia sociale per le grandi masse popolari. Si pone a favore dei poveri, a favore degli umili in cui la distribuzione dei beni naturali non sia più fortemente diseguale, come accadeva non solo a Cuba, ma anche negli stessi Stati Uniti”.

A proposito delle risorse naturali infatti, “Martí sosteneva che la terra era un bene pubblico e quindi doveva appartenere al popolo, alla nazione. L’espropriazione della terra era uno dei problemi fondamentali che doveva risolvere la nuova Repubblica che quindi si può definire dei lavoratori, dei piccoli produttori. Sono loro che devono rompere la concentrazione della proprietà terriera e devono garantire la redistribuzione della ricchezza della proprietà. Se non è Socialismo questo, ditemi voi che cosa è!”

José Martí dunque sviluppa un programma a favore dell’indipendenza economica: “sia grazie alla piccola produzione agricola, sia alla creazione di industrie nazionali capaci di competere con le straniere”.

Lo Stato ha un compito ben preciso: “deve essere innanzitutto garante dell’educazione. Al centro del pensiero di Martí vi è l’educazione, l’istruzione”.

Famosissima è una frase da lui stesso pronunciata: “essere colti per essere liberi”.

L’istruzione del popolo dunque, continua Vasapollo, “deve essere al centro del processo di libertà, del progresso tecnico e scientifico”.

Ciò non doveva però avvenire “solo a Cuba, ma in tutti i paesi dell’America Latina. La Repubblica per Martí si realizza solo con l’inclusione degli altri paesi sudamericani”.

Principio cardine era sempre il trasmettere: “l’amore rivoluzionario, l’amore per la sincerità verso verso il proprio popolo, verso gli amici, verso i fratelli e verso l’umanità”.

Perché “senza amore e sincerità non si muove nessun processo rivoluzionario”.

Vasapollo ha scritto molti articoli in cui ha messo in rapporto il pensiero di Martí con quello di Gramsci. “Non per creare dei cortocircuiti teorici o cronologici – mette in evidenza l’economista – ma perché secondo me ci sono delle confluenze oggettive sul discorso della cultura popolare e sulla rivoluzione come atto profondo d’amore verso il popolo, verso chi ti dà fiducia, verso i compagni”.

Un esempio è “il rifiuto della dittatura culturale ovvero l’ideologia del capitale. Che nel pensiero gramsciano e martiano possiamo vedere porre in essere la contrapposizione con un Internazionalismo, ove si riconosce universalmente la classe degli esclusi, dei figli degli sfruttati come popolo della nuova umanità. Oggi a questi due grandi nomi, Martí e Gramsci, aggiungerei sicuramente Bolívar e i due comandanti eterni Fidel Castro e Chavez”.

Recuperare oggi il loro pensiero è importante, in quanto “battaglia per la liberazione anti imperialista. Ora si è ancora sottoposti al dominio dell’Imperialismo, come la resistenza eroica del popolo del Venezuela e del popolo cubano dimostra, cercando di combattere contro l’infame blocco e l’aggressione che ricevono tutti i giorni”.

Martí aveva teorizzato la Nueva America, così come contro l’Imperialismo e il Colonialismo, così come Gramsci si era posto il problema del riscatto di classe del Meridione che, afferma Vasapollo, non è mera prospettiva “geografica, ma è una dimensione più generale che Gramsci riferisce al nostro Sud”.

“Coniugando le idee di Martí e di Gramsci possiamo pensare al Meridione come il Sud degli oppressi che lotta contro il Nord imperialista, sia esso degli Stati Uniti, sia esso italiano o europeo. La questione del Sud è una questione sovranazionale che si coniuga al concetto di sovranità nazionale e di sovranità di classe dai Quaderni di Gramsci ed è passato tutto attraverso la creazione del PCI, il Partito Comunista, di cui qualche giorno fa si sono ricordati i cento anni dalla nascita.

I comunisti, i rivoluzionari martiani e gramsciani hanno guidato e guidano tutt’oggi le azioni degli uomini e delle donne che credono fortemente nell’idea, non solo anti imperialista di autodeterminazione, ma di Patria libera da qualsiasi dominio”
.

L’ideale di Martí “di miglioramento dell’individuo, di cultura, di amore, di rispetto forma i diritti fondamentali dell’uomo e rimane nella pratica rivoluzionaria non solo di Cuba”. Questo si vede anche tuttora, se si pensa “ai medici cubani in tutto il mondo, ai maestri cubani in tutto il mondo, alla brigata medica per la quale stiamo chiedendo il premio Nobel per la Pace”.

“Le differenze – aggiunge Vasapollo – tra il pensiero di Martí e quello di Marx sono soprattutto nello spazio geografico e nella tradizione culturale nelle quali i due sono vissuti. Marx è l’espressione del movimento di classe europeo, dove il capitalismo era arrivato al suo massimo sviluppo e alle contraddizioni di classe. Martí invece rappresenta la tradizione emancipata dalla schiavitù dell’oppressione coloniale”.

Lo studioso Vasapollo incita i giovani “anche in Occidente, di abbandonare una impostazione da l’Occidentalcentrismo della visione marxista dei nord e approdare anche alla lettura e applicazione del dire e fare di Martí, un grande rivoluzionario, un grande intellettuale militante.

L’opera scritta e l’opera pratica di Martí – si rammarica – non è conosciuta purtroppo in Italia e in Europa in generale. Perlomeno non lo è abbastanza in relazione all’importanza storica, teorica e pratica di questo grande rivoluzionario”.

Lo studioso marxista che collabora autorevolmente a FarodiRoma è convinto infatti che “le discipline, così come i processi rivoluzionari, non possono essere vissute in compartimenti stagni, non possono essere vissute in chiave pedagogica pura, ma in chiave di pedagogia rivoluzionaria. Io non voglio entrare in polemica con altri partiti, con altre strutture, ma la Rete dei Comunisti ha sempre rappresentato un punto di vista diverso non solo nell’analisi economica e politica della crisi capitalista, ma anche nel coordinare il pensiero teorico di Marx a Lenin, fino a Fidel a Chavez passando per Gramsci e Guevara”.

Il nostro compito è “attualizzare questo pensiero come una continuazione del pensiero marxista, martinano e gramsciano. Questi non sono assolutamente ferri vecchi. Basta usare l’intelligenza, la capacità di attualizzazione, il coraggio e il riconoscimento popolare per riproporre come materia viva l’analisi concreta di questi nella formazione dei nostri giovani, così da formare soggettività in grado di mettere in discussione l’ordine esistente, l’ordine imperialista e capitalista”.

Per Vasapollo il riconoscimento popolare significa “fare i conti con i sentimenti di appartenenza nazionale e di autodeterminazione attraverso una cultura di rottura ma che porta al suo interno un profondo senso per l’amore rivoluzionario”.

Afferma a gran voce: “Io penso che bisogna riportare questo pensiero a quello che oggi sta avvenendo per esempio a Cuba, in Venezuela, nei Paesi dell’ALBA che con le loro differenze sono comunque vive transizioni al Socialismo che camminano in una diversa modalità applicativa e con culture diverse da quella di noi comunisti occidentali, ma alle quali siamo uniti nella speranza di poter trasformare non solo il nostro Paese ma di costruire una nuova umanità ricca di amore rivoluzionario. Noi comunisti che viviamo in Europa non esisteremmo senza Martí, non solo, e non tanto, per ragioni teoriche, ma anche per la capacità di tener vivo un faro rivoluzionario anti imperialista che unisce tutti i Sud e a tutte le latitudini dei Sud.

Io sono estremamente convinto, come facevo notare anche in vari scritti, che si può oggi dare un contributo, ai giovani, ai meno giovani, agli studiosi affinché pongano dei confronti non solo all’interno dell’ambito accademico ma investano in forme di sperimentazione, di attivazione del divenire storico”
. La Rivoluzione infatti “deve avere un ruolo intellettuale collettivo e militante che lavori per l’emancipazione”.

Si deve dar vita a una riattivazione e rielaborazione delle posizioni culturali e di azione di Martí “perché le colonne portanti del suo pensiero e dei suoi scritti sono essenzialmente tre: l’etica, il sentimento, la presa di posizione a favore delle classi popolari. L’etica deriva dalla sua cultura familiare e dal concetto di amore anche di stampo cristiano a favore delle classi popolari. Martí intendeva realizzare un canale di resistenza per l’autodeterminazione aperto per Cuba a tutta l’America Latina”.

Egli studiò molto “le scienze economiche e questo è importante. Perché attraverso la conoscenza della realtà economica e politica di un paese si possono proporre soluzioni adeguate per concentrare e centralizzare ma non alla maniera capitalista-monopolistica. Quando Martí arriva negli Stati Uniti è affascinato dal movimento operaio e dalle sue idee di eguaglianza tra gli uomini. Uguaglianza data dal lavoro che arricchisce l’uomo e dona vantaggi fisici, materiali ma soprattutto morali”.

Il problema era “l’appropriazione della ricchezza non ottenuta col proprio lavoro ma con quello altrui, cosa che genera contraddizione fra proprietà e ricchezza”.

Per questo Martí era solito dire: “Guardate che il monopolio è un gigante alla porta dei poveri. Tutto quello che si può intraprendere economicamente è nelle mani delle grandi aziende e delle corporazioni formate da associazioni di capitale. Non ci si può opporre senza partito con una capacità rivoluzionaria. Idea fondamentale anche per tutti quei giovani occidentali che vogliono mettere in discussione lo stato presente delle cose. Per questo devono rivolgere lo sguardo al pensiero di Bolívar, di Gramsci, di Fidel Castro e di Chavez al fine di studiare concretamente dei percorsi di emancipazione collettiva”.

Conclude Vasapollo: “Oggi, in questa fase di crisi sistemica economica aggravata dalla crisi sociale della pandemia, il respiro di chi vuole una diversa umanità deve essere più ampio. Dobbiamo ricominciare a ragionare sulle fasi storiche della politica di trasformazione, sui cicli rivoluzionari. Bisogna mettere in relazione la strategia del cambiamento con dei passaggi tattici. Il senso della rivoluzione, della spiritualità nell'amore per chi ti ama, amor con amor si paga, per il fare politica rivoluzionaria, della capacità di fare cultura di classe, dell’agire quotidiano in senso rivoluzionario che si legge in Martí e che è punto di riferimento per un attuale studio e pratica del cambiamento”.

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I leader indipendentisti catalani in semi-libertà per le elezioni di febbraio

I leader politici indipendentisti catalani sono usciti venerdì dalle carceri in cui stanno scontando la pena inflittagli dalle autorità di Madrid a seguito dell’insubordinazione del 2017 in occasione del referendum sull’indipendenza della Catalogna vietato e represso dallo Stato Spagnolo.

La Generalitat de Cataluya ha concesso l’uscita ai leader indipendentisti e in coincidenza proprio con il primo giorno della campagna elettorale.

Il primo a uscire dal carcere è stato l’ex consigliere Dolors Bassa, che uscendo dalla prigione di Puig de les Basses a Figueres (Girona) ha chiesto la mobilitazione per “vincere di nuovo” il 14 febbraio. Poi sono usciti dalla prigione di Lledoners (Barcellona), Jordis (Sánchez e Cuixart) e gli ex consiglieri Oriol Junqueras, Raül Romeva, Jordi Turull, Joaquim Forn e Josep Rull.

All’uscita hanno esposto uno striscione che chiedeva l’amnistia. L’unico che, per il momento, non uscirà invece di prigione l’ex presidente del Parlamento Carme Forcadell, ancora in attesa di risoluzione.

La Generalitat ha approvato giovedì la concessione alla scarcerazione, alla vigilia della campagna elettorale del 14 febbraio, ai leader indipendentisti condannati in quello che è stato il procés (ossia “Il processo” per antonomasia, ndr).

Il Dipartimento di Giustizia ha approvato la proposta delle carceri di concedere un regime di semi-libertà ai membri del governo e ai leader delle organizzazioni indipendentiste come ANC e Òmnium, che sono stati condannati dalla Corte Suprema a pene da 9 a 13 anni di reclusione. Anche il presidente dell’ERC, Oriol Junqueras, ha salutato i giornalisti all’uscita dalla prigione venerdì.

La decisione consente ai condannati di rimanere liberi durante il giorno e tornare in carcere solo per dormire, in modo che possano partecipare, se lo desiderano, agli eventi della campagna elettorale dei loro partiti.

Albert Garcia ha già annunciato la partecipazione alla campagna elettorale dei politici incarcerati. Junqueras dovrebbe partecipare al raduno repubblicano a Badalona, mentre Rull e Turull saranno all’evento che Junts terrà a Reus.

La partecipazione dei leader incarcerati dà respiro alla campagna degli indipendentisti, soprattutto a quella di Esquerra Repubblicana. Sebbene nessuno sia candidato, la loro autorità morale rafforza il messaggio della campagna contro la repressione dello Stato.

La decisione di conferimento della semi-libertà verrà però impugnata dalla Procura. Un passo che gioverebbe anche ai secessionisti, che ne approfitteranno per usarlo contro il candidato socialista, l’ex ministro Salvador Illa. Gli indipendentisti sostengono che la pubblica accusa del Tribunale agisca per ordine del governo.

Al suo rilascio dalla prigione di Puig de les Basses, l’ex consigliere Dolors Basses ha chiesto la mobilitazione nel voto per l’indipendenza il 14 febbraio, perché “ogni persona che rimane a casa è un voto per il 155”, ha detto in riferimento all’applicazione di questo articolo della Costituzione spagnola ancora di forte ispirazione monarchica e reazionaria.

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Perché Boeri sputa ancora sul popolo?

Il 22 giugno scorso l’ANSA dava notizia che il Guardian di Londra aveva dato notizia che il comune di Campli – 6.833 anime in provincia di Teramo – si era messo al lavoro mentre il resto d’Italia era in regime di segregazione legale. La missione era chiara: finire sulle guide turistiche.

A sua volta, il Guardian citava Il Foglio, il quale, in un rapporto sullo stato della Montagna, pubblicato il 12 aprile 2020, aveva sentito – perché informato sui fatti – l’ideatore del Bosco sul balcone, del boschetto ideale – della boschività parcellizzata – ovvero l’architetto Stefano Boeri.

L’architetto milanese aveva affidato al Foglio la seguente direttiva: “La città policentrica ha ucciso il suo mood (Kcussì!). L’orizzontalità multipolare è scaduta – bisogna ristabilire la verticalità moderna. Dunque, contrordine: Popòl, tutti in montagna!”

Ora che non dipendiamo più dall’ufficio in centro, aveva detto Boeri, e che Venezia e Firenze hanno subito un’emorragia di residenti, bisogna fuggire in montagna, o, perlomeno, in collina. Fuggire, per esempio, a Campli – l’obscure Village – dove possiamo ammirare le meraviglie di Giotto e Raffaello (in verità dei loro discepoli) e partecipare alla più antica sagra della porchetta.

Si chiama, dice Boeri, “turismo di prossimità“. Se hai l’ufficio a Garbagnate milanese o a Bariola puoi andare in trasmutanza al Mottarone o al Piano di Rancio, sopra Merone. Si tratta di luoghi, dice Boeri, in cui puoi interagire con la gente del posto. Vedere il pomodoro diventare conserva e la pecora arrosticino.

Secoli di fenomenologia buttati nel cesso. Spremute di meningi Critiche date in pasto ai porci.

L’Abruzzo deve stare davvero a cuore al Guardian. Il 29 agosto 2018, il giornale di Londra aveva trattato la materia per informarci che (virgolette) con 25 sterline per un volo Ryanair da Londra Stansted si può arrivare a Pescara, e che con un’altra oretta di macchina, si può pascolare tra i filari delle vigne piantate a Cococciola, accompagnati da Jono e sua moglie Fern Green, scrittrice e stilista del cibo, per poi riparare in una comoda iurta – la famosa iurta abruzzese.

Popòl di Harlow, commesse di Chelmsford, imbianchini di Basildon, postini di Stevenage, ragionieri di Braintree, pensionati di Aylesbury... ecco per voi un vero foodie weekend, alla modica cifra di 25 sterline per i primi 30 che prenotano senza possibilità di recesso.

Con i voli economici di Ryanair potete raggiungere l’Abruzzo in un’ora e mezza, e scofanarvi di arrosticini, ntuja, spaghetti alla chitarra, scrippelle, ndurciulline e morzellu. Per i più fortunati un corso rapido di sommelier d’olio, impartito direttamente in un frantoio del XVII secolo.

Il Guardian aveva già trattato l’argomento il 1 dicembre 2013. Molto prima della fuga dalla città reclamizzata dall’architetto forestale milanese. Non aveva mancato di segnalare le rocche e i merli del XIV secolo, le trazzere che salgono dai Ripari di Giobbe, Tollo, Crecchio, Sant’Amato Nasuti, verso Guardiagrele, Cepagatti, su fino a Lama dei Peligni, dove si viene accolti da una schiera di danzatori bulgari a piedi nudi sui bracieri ardenti.

Non c’è bisogno di dire che per smuovere il Popòl, e fargli scucire 25 sterline di volo e 550 di iurta all inclusive, c’è bisogno che un rispettabile e papabile compasso d’oro dia il là, e che uno o più giornali portino a turno la croce e cantino.

Poi c’è bisogno di far credere che Venezia e Firenze si stiano svuotando, che le persone che se ne intendono andranno a vivere in Montagna, e panzane un tanto al chilo.

P.S: ma che ci frega se tutta questa cattiva pubblicità è infarcita di luogo-comunismo d’accatto, come hanno registrato gli architetti Giulia De Cunto e Francesco Pasta qui; o che, per esempio, Firenze, nel 2020 – anno della pandemia – rispetto al 2019 (dati ISTAT), si è svuotata di un misero 0,79%, mentre nel 2019 (su 2018) si è svuotata di 2,9%, e l’anno precedente di uno 0,34%, e che dunque questo svuotamento – ammesso che ci sia stato – non è dovuto né alla segregazione legale, né tanto meno al telelavoro e alla voglia di montagna; che ce frega, bastano Fish and chips e merli medievali, meglio se carolingi, e tutto fila liscio e Ryanair riempie i suoi aerei.

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Volti nuovi in Lombardia: dopo Moratti ricompare Bertolaso

Da lunedì 1 febbraio quasi tutta l’Italia passerà in zona gialla. Questa decisione si fonda, sostanzialmente, sull’abbassamento dell’indice Rt, contestato da molti scienziati per la sua scarsa affidabilità e trasparenza. È invece chiaro che al 30 gennaio in Italia ci sono stati ancora 12.715 contagiati (rilevati, non si sa ovviamente quanti siano i non rilevati) e 421 decessi.

Cifre ancora una volta spaventose che dimostrano l’inefficacia dei provvedimenti governativi basati sulle zone a colori, dato che da mesi non si percepisce un vero calo dei positivi, ma solo una sostanziale stabilità della pandemia, con un migliaio di morti ogni due giorni.

Tra le regioni che scaleranno in zona gialla, la Lombardia è titolare del record di essere passata in due settimane dal rosso al giallo. È evidente che non si può sapere realmente se tale cambio di colore sia sensato, visto che è noto che i numeri della pandemia, in Lombardia, sono come quelli del lotto, del tutto casuali, vista l’incapacità della Regione di accertare alcunché.

Incapacità che ha provocato una settimana di zona rossa forse evitabile perché la Regione ha comunicato dati errati al governo, mentre ora Fontana si arrabbia perché la zona gialla arriverà lunedì invece di domenica e secondo lui questo provocherà danno alle attività produttive.

In realtà non è dato sapere quale sia la reale situazione in Lombardia, dove sulla sanità è il caos dall’inizio dell’epidemia.

A destare ulteriore inquietudine sono le scelte della nuova assessora al welfare Letizia Moratti, riportata alla ribalta politica dopo gli anni seguiti alla sua fallimentare gestione del Comune di Milano (fu tra l’altro condannata a un forte risarcimento per danno erariale all’amministrazione).

Infatti, in questo momento di ripescaggio di vecchi personaggi che vorremmo dimenticare, Letizia Moratti ha deciso di affidare la campagna vaccinale in Lombardia a... Guido Bertolaso, il commissario berlusconiano di tutte le stagioni che non diede certo una brillante prova di sé lo scorso anno con l’invenzione del costoso, inutile e inadeguato ospedale della Fiera e che in seguito ripeté la fallimentare esperienza nelle Marche.

Il caos provocato dalla demenziale gestione della regione provoca anche scontri istituzionali, poiché molti sindaci hanno protestato per l'inaffidabilità dei dati comunicati. La sfiducia che si respira è testimoniata anche dalla scelta dell’assessore alla cultura del comune di Milano, Filippo Del Corno, di non riaprire i musei, poiché, come ha dichiarato, teme che tra pochi giorni si tornerà alla zona arancione e si dovrà richiudere tutto. Se ne riparlerà, probabilmente, a marzo.

In questa situazione estremamente preoccupante desta sconcerto la notizia che in Lombardia quasi la metà delle poche persone sinora vaccinate non fanno parte delle categorie che ufficialmente ne avrebbero avuto diritto, cioè coloro che lavorano in situazioni sanitarie a rischio. Ci si chiede cosa sia accaduto e chi siano costoro.

Tuttavia, la Regione non finisce di stupire poiché ha promosso un’iniziativa stupida sino alla provocazione: in alcuni ospedali, alle persone vaccinate è stata consegnata una leggiadra spilletta con la scritta multicolore “Mi sono vaccinato”.

Una sorta di irrisione per tutti gli anziani e i fragili che, se e quando le consegne ci saranno e la campagna verrà organizzata, saranno vaccinate, forse, tra diversi mesi.

Intanto, per martedì 2 febbraio è annunciata la presentazione in consiglio regionale di una nuova mozione di sfiducia alla giunta, dopo che le ultime sedute si sono trasformate in happening con cartelli, urla, consiglieri in ginocchio, espulsione e interventi della Polizia.

Tale mozione, come tutte le altre, sarà sicuramente respinta dalla maggioranza blindata di destra. È quindi l’ennesima manovra elettorale di PD e 5 Stelle, che continuano a riproporre la sfiducia in maniera demagogica, ben sapendo che ciò che si dovrebbe chiedere è il commissariamento immediato della Regione.

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30/01/2021

Giulia (1977) di Fred Zinnemann - Minirece

La giustizia è diventata roba da ricchi. “Abolire il Decreto55/2014”

In un assordante silenzio, da anni e ogni giorno, nelle aule di giustizia si perpetra la negazione dei diritti dei più deboli. È l’effetto devastante del decreto ministeriale 55 del 2014. Il provvedimento ha stabilito con tabelle spese legali e di (in)giustizia a carico della cosiddetta parte soccombente. Con il risultato che chi perde la causa si vede presentare dai giudici un conto mostruoso per migliaia di euro, spesso decine e decine di migliaia di euro.

Il più delle volte la “parte soccombente” è, guarda caso, la parte più debole del processo. Sono lavoratori, inquilini, cittadini, sindacalisti fuori dal coro, soggetti piegati dalla crisi che ricorrono alla giustizia come ultima spiaggia. Invece, non solo non si vedono riconoscere le proprie ragioni, ma sono puniti con la condanna a pagare cifre insostenibili. Così imparano...

Il “merito” è del governo Renzi e del ministro Orlando, ma i governi successivi hanno confermato questa nuova interpretazione del diritto alla difesa: bastonare, bastonare, bastonare. In questo modo si è certamente ridotto l’“arretrato” nei tribunali. Ma ad un prezzo inaccettabile per chiunque ritenga che la giustizia in Italia non sia quella amata dai marchesi del Grillo di turno (“Io so’ io e voi...”) ma “è amministrata nel nome del popolo” come prevede la Costituzione.

In un colpo solo con un decreto ministeriale:

– è stato di fatto abolito o fortemente indebolito il diritto alla difesa, che prevede la parità tra le parti;

– è stato di fatto largamente vanificato, se non affossato del tutto, il principio del giusto processo;

– sono stati di fatto aboliti i tre gradi di giudizio sanciti dalla Costituzione (chi osa promuovere appello se in primo grado oltre ad aver torto è stato condannato a spese-monstre?).

Di fronte al silenzio e all’indifferenza, è ora di alzare la testa perché al più presto il Parlamento cancelli questa vergogna.

– Per il diritto alla difesa;

– Per la tutela dei diritti;

– Per la difesa della Costituzione.

– No alla (in)giustizia a pagamento;

– No alla (in)giustizia al servizio dei poteri e dell’arroganza.

CAMPAGNA PER L’ABOLIZIONE DEL DM 55/2014

RIVENDICHIAMO IL DIRITTO COSTITUZIONALE ALLA DIFESA!

Per adesione e-mail: asia@usb.it

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I vaccini sono una battaglia di civiltà

La vicenda vaccini offre uno spaccato della società, non solo nostra ma del mondo, prona alle logiche di mercato. Dopo un anno di pandemia contiamo i morti a milioni; paese più, paese meno, nell’area capitalista i contagiati e i morti si moltiplicano grazie a cosiddette misure di prevenzione che, in ossequio al principio secondo cui la produzione viene prima della salute, non contrastano minimamente il proliferare del virus e dei contagi.

È in questo scenario che la vicenda dei vaccini straccia i veli e l’ipocrisia del modello di società che si vuole continuare a mantenere, nonostante l’evidenza dei fatti e dei risultati che produce. Non c’è, alla base dei criteri adottati nella distribuzione dei vaccini, quello di fare il massimo sforzo per garantire tutte e tutti dalla pandemia e di arrivare nel minor tempo possibile a sconfiggere il proliferare del contagio e quindi dei morti.

C’è invece l’interesse commerciale, la volontà, esplicita, di approfittare della pandemia per accumulare denaro e potere, di favorire una guerra commerciale senza esclusione di colpi per accaparrarsi le maggiori quantità possibili di vaccino, partecipando ad un’asta che inevitabilmente favorisce i paesi economicamente o politicamente più forti.

Nessuna disponibilità a rendere disponibili gratuitamente i vaccini per le popolazioni di quei paesi che politicamente ed economicamente forti non sono e in cui il Covid-19 miete ugualmente vittime. Il brevetto è sacro, non si può derogare in alcun modo alle feroci leggi del mercato e della concorrenza, neanche quando a farne le spese è la salute della gente. “È il capitalismo bellezza!”, verrebbe da dire.

Ma i governi cosa ci stanno a fare? Non dovrebbero avere al primo posto della propria mission la tutela della salute dei propri cittadini? Non dovrebbero adoperarsi in ogni modo per assicurarla?

Non dovrebbero prendere ogni provvedimento necessario a garantirla? E allora perché in Italia il governo, anche attraverso tutte le proprie strutture, non ha ingaggiato per tempo una battaglia di civiltà e di garanzia pretendendo di avere le forniture di vaccini necessarie a un paese che ha già dato un tributo enorme alla pandemia?

Perché non ha assicurato per tempo una produzione pubblica dei vaccini? Perché non utilizza a tal fine tutte le armi che la Costituzione italiana mette a disposizione, tra cui ovviamente la nazionalizzazione delle imprese necessarie a garantire la sicurezza nazionale di fronte ad un evento drammatico come quello in corso?

Le risposte a queste domande dobbiamo pretenderle, anche se già sappiamo che non potranno essere convincenti. La litania dell’inviolabilità del mercato, della libertà di impresa tornerà a risuonare con parole altisonanti per coprire una semplice, inaccettabile verità: della salute della gente ci si occupa solo se questa nell’immediato mette in pericolo gli affari, la produzione, gli utili di impresa.

Già, perché i padroni e i capitalisti sono anche stupidi e non vedono più in là del proprio naso e dei loro interessi immanenti, per cui niente programmazione, niente pianificazione, nulla che faccia capire che non si ha a cuore solo il proprio portafoglio ma il futuro dell’umanità. La vicenda vaccini sta assumendo i contorni di una battaglia di civiltà e di trasformazione sociale a cui USB vuole e deve partecipare.

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Il segreto di Guido Rossa

L’appartenenza all’apparato riservato del Pci, il lavoro di controllo e schedatura delle maestranze di fabbrica e degli operai “estremisti”


Il 24 gennaio 1979 Guido Rossa, militante del Pci e sindacalista della Fiom-Cgil all’interno degli stabilimenti dell’Italsider di Genova-Cornigliano, rimase ucciso in un’azione della colonna genovese delle Brigate rosse che inizialmente prevedeva soltanto il suo ferimento. Tre mesi prima della sua uccisione, il 25 ottobre 1978, Rossa aveva denunciato un operaio dell’Italsider, Francesco Berardi, scoperto mentre diffondeva all’interno della fabbrica volantini della Brigate rosse (leggi qui il verbale della denuncia).

Rossa era una figura importante all’interno della fabbrica, portavoce della linea ufficiale del Pci all’interno dell’azienda, svolgeva per conto del suo partito anche un incarico molto speciale. Ecco il ritratto che ne fece un suo compagno di lavoro:
«In fabbrica rappresentava il potere sindacale. Di indole schiva e modesta, non voleva apparire uomo di comando, pur esercitandolo con molta fermezza e autorità. Era conosciuto molto dagli addetti ai lavori, i dipendenti politicizzati e sindacalizzati, ma non dalla massa delle maestranze, stando poco in mostra. Non prendeva mai la parola nelle assemblee generali. Ma dentro il Consiglio di fabbrica, tra i delegati, era un numero Uno; dettava legge, incuteva quasi soggezione ai delegati che lo consideravano portatore del verbo di Enrico Berlinguer e Luciano Lama. Il reparto dove Rossa svolgeva il suo lavoro, l’officina di manutenzione, era la Stalingrado dello stabilimento. Il reparto più rosso, dominato dagli attivisti del Pci. Come una nicchia protetta, nel suo seno, in un sottoscala stava il piccolo laboratorio di riparazione degli strumenti di precisione. Lì, Guido Rossa operava con molta libertà».1

I taccuini

Nel libro che ricostruisce la storia di suo padre, Sabina Rossa racconta una scoperta importante: il ritrovamento di alcuni taccuini che un suo compagno di lavoro e di sindacato aveva conservato per anni: «Ecco, sono tutte cose di Guido. Ero presente nello spogliatoio della fabbrica il giorno in cui, subito dopo l’attentato, la polizia aprì il suo armadietto. Trovarono questi documenti, avevo paura che andassero perduti e li presi in custodia. Li ho conservati fino ad oggi, per quasi trent’anni. Ma adesso è giusto che li abbia tu».2

I notes erano cinque, enormi – scrive Sabina Rossa – «E sulla copertina di ognuno era segnato un anno: sul primo il 1974, sull’ultimo 1978. Per cinque anni, anno per anno, con la sua grafia pulita e ordinata, papà aveva annotato con estrema precisione tutti i fatti sindacali dell’Italsider, con tanto di tabelle zeppe di dati ed elenchi di nomi... [...] Per cinque anni aveva annotato, quasi giorno per giorno, con maniacale pignoleria, ogni cosa che avesse a che fare con l’attività sindacale all’interno della fabbrica. Organici. Livelli di avanzamento e anzianità. Qualifiche. Mansioni. Orari di lavoro. Paga. Nuovi assunti, loro provenienza e inquadramento. Ferie. Assenze giornaliere e richieste di rimpiazzo… In cinque anni papà aveva ricostruito il quadro della situazione, dipendente per dipendente. E di ognuno conosceva anche numeri di matricola e di patente, e di alcuni persino l’esito di «visite psicoterapeutiche». Non c’era nulla che fosse sfuggito alla sua attenzione. Ho pensato – prosegue ancora Sabina Rossa – che forse quei notes potevano essere riletti anche da un altro punto di vista. Non dovevo cercare grandi rivelazioni che sarebbe stato impossibile trovare fra quegli appunti. Ma dovevo capire perché mio padre aveva fatto quel lavoro, per cinque anni, con pazienza certosina e metodo scientifico».3

Intelligence di fabbrica, Guido Rossa la struttura riservata del Pci

Proseguendo il suo coraggioso lavoro di scoperta della attività riservate del padre, Sabina Rossa incontra prima il generale dei Carabinieri Nicolò Bozzo che ebbe un ruolo importante nei nuclei speciali creati dal generale Alberto Dalla Chiesa di cui fu uno stretto collaboratore:

«Dalla Chiesa – spiega il generale Bozzo – mi aveva incaricato di tenere i rapporti con il Pci. Dal Pci abbiamo avuto tutta la collaborazione possibile e immaginabile. Su questo non può esserci nemmeno un’ombra di dubbio. Io avevo rapporti con Lovrano Bisso, allora segretario provinciale del Pci: ci aiutò in ogni modo».4

La successiva testimonianza di Bisso, raccolta sempre da Sabina Rossa, è rivelatrice sulla speciale missione che Guido Rossa conduceva in fabbrica:

«[…] Quell’esperienza si rivelò utile anche di fronte alla minaccia brigatista. Fu un lavoro particolarmente difficile e pericoloso. Per diverse ragioni. Innanzitutto le Brigate rosse avevano una struttura fortemente centralizzata e compartimentata, con una base di sostegno non particolarmente ampia. Quindi non erano facilmente penetrabili. Inoltre, i loro gruppi di fuoco, che applicavano la tattica del “mordi e fuggi”, erano assai efficaci; mentre le forze dell’ordine, pur disponendo di personale di livello, per tutta una fase diedero l’impressione di brancolare nel buio. Tutto questo rendeva assai spregiudicata l’azione delle Br. Per la natura delle difficoltà, quindi decidemmo di concentrare l’attenzione piuttosto su ciò che stava dietro alla produzione del materiale di propaganda brigatista. Vale a dire: chi scriveva volantini e documenti, dove si stampavano, chi li trasportava, come entravano in fabbrica, chi li distribuiva. E poi, su un piano più strettamente politico, dovevamo capire quale grado di consenso quei documenti fossero in grado di suscitare fra i lavoratori. Posso dire questo, che il lavoro di Guido Rossa ci portò assai vicino all’individuazione di gran parte della catena di produzione della propaganda brigatista. Il contributo di tuo padre fu davvero eccellente. Mi aveva parlato di Berardi già alcuni mesi prima di quel 25 ottobre 1978. Lo aveva già individuato e lo teneva d’occhio».5

Note
1 Intervento di Pierluigi Baglioni, impiegato dell’Italsider, in Guido Rossa mio padre, Giovanni Fasanella e Sabina Rossa, Bur, pp.149-150, 2006.
2 Ivi, p. 145.
3 Ivi, pp. 145-148.
4 Ivi, p. 141.
5 Ivi, pp. 158-159.

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2020: l’anno in cui gli USA sono falliti

Due dati messi a confronto spiegano perché gli Stati Uniti siano uno stato fallito.

Il primo dato è quello dei decessi totali statunitensi durante il Secondo Conflitto Mondiale, pari a 416.837, come riporta il volume Infografica della Seconda Guerra Mondiale.

Il secondo è il numero di morti per Covid in poco più di anno, pari a 433.195 il 28 gennaio, secondo il tracker del New York Times.

Gli Stati Uniti hanno avuto quindi più morti per Covid-19 in un anno che nel periodo compreso tra l’attacco all’isola di Pearl Harbour, nel Pacifico, nel dicembre del 1941, quando entrarono nella Seconda Guerra Mondiale e le due settimane successive dalla resa del Giappone nell’agosto del 1945, cioè poco meno di quattro anni di combattimenti.

La soglia psicologica dei morti totali nord-americani nella quasi ventennale guerra del Vietnam, terminata nel 1975 – poco sotto i 60 mila – era stata superata a fine aprile. Ed ancora prima quella del conflitto “dimenticato” in Corea (1950-1953), che costò la vita a più di 36 mila statunitensi.

Mentre il “sacrificio” dei militari statunitensi, insieme agli Alleati – soprattutto sovietici e cinesi – e alle singole Resistenze nazionali, permise agli USA di iniziare il lungo periodo di egemonia che ha caratterizzato la storia mondiale fino ad oggi, l’ecatombe di morti civili attuali probabilmente ne segna inesorabilmente la fine, così come la presidenza Biden sarà l’inizio dell’era post-americana.

Siamo di fronte alla tappa finale di un piano inclinato in cui la globalizzazione neo-liberista a guida statunitense era entrata strutturalmente in crisi, dalla seconda metà del primo decennio di questo secolo, facendo via via affiorare i nodi della crisi sistemica del modo di produzione capitalistico a cominciare dal 2007/2008.

Sia detto per inciso, le morti giornaliere negli USA continuano ad essere ben più di 4.000; rispetto a 2 settimane fa sono in calo solo i contagiati, comunque ben più di 150mila al giorno, ed i ricoverati che sfiorano i 110mila.

Questo vuol dire, continuando l'esercizio macabro di contabilità comparata, che tra meno di un mese il numero totale delle vittime per la pandemia potrebbe essere la somma dei tre maggiori conflitti che hanno impegnato gli Stati Uniti da settanta anni a questa parte (Iraq e Afghanistan esclusi).

La situazione è ancora abbondantemente “fuori controllo”, e per quanto Biden voglia segnare un cambio di passo rispetto alla disastrosa gestione Trump, i fatti hanno la testa dura. E disastri di questa dimensione non si risolvono firmando un “ordine esecutivo”.

“L’America ora costituisce il 4 per cento della popolazione mondiale, ma rappresenta circa il 20 per cento delle morti globali”, riporta la lunga inchiesta del New York Times che abbiamo tradotto e che mette in luce alcuni aspetti centrali del fallimento statunitense nella gestione della pandemia che abbiamo più volte segnalato fin dai primi mesi dello scorso anno.

Se ci aggiungiamo il previsto fallimento di questa fase di vaccinazione, caratterizzata tra l’altro dalla sempre più aspra competizione per assicurarsi la fornitura vaccinale, tipica del “furto tra ladri” che regola i rapporti tra competitor internazionali, nonché la diffusione di varianti più contagiose, il quadro è completo.

È l’attuale modo di produzione, gli interessi in esso dominanti, la forma istituzionale che ha modellato, la rappresentanza politica che ha forgiato e, non da ultimo, la cultura che ha sfornato, a garantire al virus una vita lunga ed un prospero avvenire.

Ed è proprio il centro di questo sistema, gli USA, ad aver suggerito un modus operandi grazie al quale una parte dell’umanità sembra sia destinata a sviluppare una “immunità di gregge senza vaccini”, attraverso una sorta di selezione eugenetica da far impallidire il più fanatico medico nazista. Si ha un poco più di possibilità di cavarsela con la vaccinazione – al netto di tutti i limiti di efficacia – a seconda da ruolo rivestito dal proprio Stato nella gerarchia internazionale.

Sembrano fare eccezione, in questo schema, tutti quegli Stati appartenenti al variegato mondo socialista, che hanno deciso di adoperare per la vaccinazione i prodotti sviluppati fin qui dalla Repubblica Popolare e dalla Federazione Russa.

Ultima arrivata alle nostre latitudini, la Serbia.

Tornando agli USA, per non cadere nella falsa dicotomia repubblicani/democratici rispetto alla gestione del virus, occorre ricordare la corresponsabilità dei due partiti a livello locale.

Affermano giustamente gli autori dell’inchiesta del NYT: “i governatori e i funzionari locali che sono stati lasciati a governare la crisi hanno sprecato le poche possibilità che il Paese ha avuto quando hanno messo da parte gli esperti sanitari, ignorato gli avvertimenti dei propri consulenti e, in alcuni casi, fornito ai loro comitati consultivi più rappresentanti delle imprese che medici".

Il grassetto è nostro, e sorge spontanea la domanda: forse tale scelta è stata presa per far lievitare i profitti delle corporation?

La scienza è stata messa da parte a tutti i livelli di governo, inaugurando una era dove manager incapaci di gestire la crisi del modello di produzione si sono sostituiti alla scienza. Lì dove sarebbe stata necessaria la sofocrazia – o “la dittatura sanitaria”, come dicono i più cretini in alcune piazze – si è inaugurato il governo della post-razionalità, dove le uniche ragioni a dettar legge erano e sono gli interessi economici delle aziende, supportati dall’ignoranza armata della galassia negazionista alt-right, che ha sempre minacciato le uniche voci sensate provenienti dal mondo medico-scientifico.

Dall’altra parte è emersa la fragilità istituzionale di un sistema politico frutto di due guerre civili – la “guerra d’indipendenza” dalla Gran Bretagna è stata innanzitutto una guerra infra-americana – e che ha retto a due conflitti mondiali, oltre alla crisi del 1929, ma che esce con le ossa rotte dalla prova pandemica e da una transizione politica tutt’altro che indolore, dentro una catastrofe sociale peggiore di quella di 90 anni fa.

Di fronte a questo fatto epocale, gli organi d’informazione nostrani rimangono silenti. Per la quasi totalità del corpo politico la “fede atlantica” è quasi più indiscutibile della verginità della Madonna.

E se qualcuno pensa che le schegge appuntite dell’estesa galassia delle milizie pro-Trump siano “acqua passata”, dopo l’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio, dovrebbe guardare con attenzione il meticoloso lavoro di ricognizione che sta compiendo l’intelligence statunitense su “gli estremisti violenti ideologicamente motivati”, come vengono chiamati.

Non sono solo una minaccia all’establishment ma, come hanno già dimostrato, sono un pericolo alla possibilità di adottare anche minime misure di profilassi sanitaria come portare una mascherina, o mantenere il distanziamento sociale, per non parlare di misure più restrittive o avviare una vera campagna di vaccinazione di massa. Come ben illustra l’articolo qui tradotto.

Buona lettura

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Un anno, 400.000 morti: come gli Usa hanno ottenuto il proprio fallimento

La via per sconfiggere il coronavirus era chiara, ma Kelley Vollmar non si era mai sentita così abbattuta.

Come direttore sanitario della contea di Jefferson, in Missouri, Vollmar sapeva che l’obbligo di indossare le mascherine avrebbe aiutato a salvare delle vite. Fece pressioni nei confronti dell’ufficio del governatore perché emettesse un’ordinanza per tutto lo stato e i dirigenti degli ospedali spingevano nella stessa direzione. Persino la Casa Bianca, nello stesso momento in cui Trump scherniva le persone con la mascherina, ufficiosamente sollecitava i governatori repubblicani ad emettere l’ordinanza.

Nonostante tutto, il governatore Mike Parson ha resistito e nei quartieri di St. Louis Vollmar si è trovata sotto attacco. Un membro della commissione salute della contea l’ha chiamata “bugiarda”. Lo sceriffo annunciò che non avrebbe fatto rispettare un obbligo imposto a livello locale. Dopo che attivisti contro le mascherine diffusero online il suo indirizzo, Vollmar dovette installare un sistema di sicurezza in casa propria.

“Durante l’anno appena trascorso qualunque cosa noi facessimo veniva problematizzata”, dice Vollmar, la cui madre di 77 anni è morta per complicazioni dovute al coronavirus a dicembre. “Sembrava di essere Lorax della vecchia storia del dott. Seuss: io sto qui a salvare gli alberi e nessuno ascolta”.

Per quasi tutto il tempo della pandemia, la polarizzazione politica e il rigetto per la scienza hanno minato la capacità degli USA di controllare il covid. Questo è stato chiaro e più dannoso a livello federale, dove Trump sosteneva che il virus sarebbe scomparso, scontrandosi con i suoi scienziati e con un fallimento enorme, ha abdicato alla responsabilità di una pandemia che necessitava dello sforzo nazionale per sconfiggerla, imponendo decisioni chiave agli stati secondo l’assunto che avrebbero preso il volo e fatto andare avanti la nazione.

Ma i governatori e i funzionari locali che sono stati lasciati a governare la crisi hanno sprecato le poche possibilità che il Paese ha avuto quando hanno messo da parte gli esperti sanitari, ignorato gli avvertimenti dei propri consulenti e, in alcuni casi, fornito ai loro comitati consultivi più rappresentanti delle imprese che medici.

A quasi un anno da quando il primo caso noto di coronavirus negli Stati Uniti è stato annunciato a nord di Seattle il 21 gennaio 2020, la portata del fallimento della nazione è diventata chiara: il paese sta precipitando verso 400.000 morti totali e i casi, i ricoveri e i morti hanno raggiunto livelli record, mentre la nazione sta affrontando il suo capitolo più oscuro della pandemia.

La situazione è diventata disastrosa proprio quando l’amministrazione Trump, nei suoi ultimi giorni, ha iniziato a vedere i frutti del suo forse più grande successo sul coronavirus, il programma di vaccinazione Operation Warp Speed. Ma la mancanza di coordinamento federale nella distribuzione delle dosi è già emersa come un ostacolo preoccupante.

Il presidente entrante, Joseph R. Biden Jr., ha detto che lancerà una strategia federale per tenere sotto controllo il virus, incluso un invito a tutti a indossare mascherine nei prossimi 100 giorni e un piano coordinato per ampliare la consegna dei vaccini. “Riusciremo a gestire questa operazione”, ha detto venerdì Biden. “La nostra amministrazione collaborerà con la scienza e gli scienziati“.

La strategia segnala un cambiamento rispetto all’anno scorso, durante il quale l’amministrazione Trump ha ampiamente delegato la responsabilità del controllo del virus e della riapertura dell’economia a 50 governatori, parcellizzando la risposta della nazione. Le interviste con oltre 100 dirigenti sanitari, politici e della comunità in tutto il paese e una revisione delle e-mail e di altri documenti del governo federale offrono un quadro più completo di tutto ciò che è andato storto.

La gravità dell’attuale epidemia può essere fatta risalire alla fretta di riaprire la scorsa primavera. Molti governatori si sono mossi rapidamente, a volte bypassando le obiezioni dei loro consiglieri. Le riaperture a livello nazionale hanno portato a un’ondata di nuove infezioni che è cresciuta nel tempo: mai più la media del Paese sarebbe scesa sotto i 20.000 nuovi casi al giorno.

La scienza è stata messa da parte a tutti i livelli di governo. Più di 100 funzionari sanitari statali e locali sono stati licenziati o si sono dimessi dall’inizio della pandemia. In Florida, gli scienziati hanno offerto la loro esperienza all’ufficio del governatore ma sono stati emarginati, mentre il governatore Ron DeSantis si è rivolto al dottor Scott W. Atlas, un consigliere di Trump, e ad altri le cui opinioni sono state accolte in circoli conservatori ma rifiutate da decine di scienziati.

Mentre il presidente ha pubblicamente minimizzato la necessità di mascherine, i funzionari della Casa Bianca raccomandavano ufficiosamente che alcuni stati con dati in peggioramento imponessero l’uso di dispositivi di protezione negli spazi pubblici. Ma i dati mostrano che almeno 26 stati hanno ignorato le raccomandazioni della Casa Bianca su mascherine e altri problemi di salute. Nel South Dakota, il governatore Kristi Noem si è vantato con gli alleati politici di non richiedere mascherine anche se il suo stato era nel mezzo di un’epidemia che è diventata una delle peggiori della nazione.

Il governatore Jared Polis del Colorado ha affermato che gli stati hanno dovuto affrontare scelte difficili per bilanciare il virus – spesso ascoltando voci in contrasto su come farlo al meglio – e ha detto che Trump li aveva lasciati senza il sostegno politico di cui avevano bisogno mentre esortavano il pubblico ad accettare le mascherine e il distanziamento sociale. “La cosa che avrebbe fatto la differenza sarebbe stata la chiarezza del messaggio dalla persona in alto“, ha detto Polis in un’intervista.

La pandemia, infatti, ha portato con sé sfide significative, tra cui una disoccupazione record e una malattia dinamica che ha continuato a fare il giro del mondo. Senza una strategia nazionale della Casa Bianca è improbabile che qualsiasi Stato avrebbe potuto fermare completamente la diffusione della pandemia.

Ma la maggior parte dei decessi negli Stati Uniti è avvenuta da quando le strategie necessarie per contenere il virus erano chiare ai leader statali, che avevano una gamma di opzioni, dall’obbligo delle mascherine a chiusure mirate e test. Sono emerse disparità tra gli stati che hanno preso sul serio le restrizioni e quelli che non lo hanno fatto.

L’America oggi costituisce il 4 per cento della popolazione mondiale, ma rappresenta circa il 20 per cento delle morti globali. Mentre l’Australia, il Giappone e la Corea del Sud hanno dimostrato che era possibile mantenere bassi i decessi, gli Stati Uniti – armati di ricchezza, abilità scientifiche e potere globale – sono diventati il leader mondiale: ora hanno una delle più alte concentrazioni di morti, con quasi il doppio delle vittime di ogni altro paese.

Primavera

La fretta di riaprire è stata “il momento opportuno che si è perso“.

Il paese una volta ha avuto la possibilità di mettersi sulla buona strada per sconfiggere il virus.

C’erano stati molti passi falsi. Gli Stati Uniti non sono riusciti a creare una vasta rete di test e di tracciamento dei contatti a gennaio e febbraio, che avrebbe potuto identificare i primi casi e forse frenare la crisi. Poi, i casi sono esplosi silenziosamente a New York, mentre il governatore Andrew M. Cuomo e il sindaco Bill de Blasio aspettavano giorni cruciali per chiudere scuole e imprese.

Migliaia di vite avrebbero potuto essere salvate, nella sola area metropolitana di New York, se le misure fossero state messe in atto anche una settimana prima, hanno scoperto i ricercatori. Spinti dall’impennata primaverile, New York e il New Jersey hanno ancora oggi i peggiori tassi di mortalità della nazione.

Altrove, però, la maggior parte del paese ha avuto l’opportunità di andare avanti.

A metà aprile, la maggior parte degli stati aveva fatto ricorso a obblighi storici di restare a casa per evitare l’orrore visto nel nord-est. All’epoca erano morte circa 30.000 persone e la parte peggiore dell’epidemia era ancora concentrata nel nord-est.

È stato durante questo periodo che gli esperti affermarono che il paese aveva avuto l’opportunità di gestire la crisi: ha investito in test e tracciamento dei contatti e ha subito un arresto prolungato, anche se doloroso, fino a quando i casi non sono stati identificati e posti sotto controllo. In questo periodo, gli Stati Uniti eseguivano solo circa un terzo dei test che i ricercatori ritenevano necessari.

Ma la Casa Bianca si è rifiutata di applicare le proprie linee guida e Trump ha apertamente incoraggiato gli stati a riaprire. Ha ceduto il controllo ai governatori il 16 aprile. “Avete la possibilità di prendere le vostre decisioni”, ha detto loro.

Guardando indietro, gli esperti della sanità rintracciano l’inizio della maggior parte dei casi del paese, che ora si riflettono in un numero record di vittime, in questo punto di svolta alla fine di aprile.

“Quello era il momento critico“, ha detto Jeffrey Shaman, esperto di malattie infettive presso la Columbia University. “Quello era il momento opportuno che si è perso“.

Nella fretta di tornare al lavoro, molti governatori si sono mossi rapidamente per riaprire e si sono rifiutati di ordinare nuove chiusure, a volte ignorando le richieste dei consigli sanitari e dei sindaci, secondo quello che emerge dalle interviste con i funzionari sanitari e una revisione di migliaia di rapporti ottenuti da registri pubblici consultati del New York Times e da altri gruppi, come Accountable.US e il progetto di documentazione pubblica Covid-19 Documenting.

In Colorado, un funzionario sanitario locale ha avvertito che il piano di riapertura del suo stato rischiava di ribaltare i risultati positivi ottenuti durante dolorose chiusure. Nella Carolina del Sud, i funzionari sanitari non sono riusciti a convincere il governatore a ritardare l’apertura dei ristoranti e l’epidemiologa statale, la dottoressa Linda Bell, ha suggerito, nelle e-mail riportate per la prima volta dal quotidiano The State, che i funzionari sanitari dovevano farsi avanti e fornire messaggi diversi al pubblico.

“Non ‘starò accanto al governatore’ senza riportare ciò che la scienza ci dice che è la cosa giusta da fare“, ha digitato una domenica mattina dal suo iPhone.

In Iowa, la direttrice sanitaria della contea di Black Hawk, la dottoressa Nafissa Cisse Egbuonye, ​​è rimasta sbalordita quando ad aprile ha trovato dipendenti che lavoravano gomito a gomito in uno stabilimento di confezionamento di carne di Tyson, e solo alcuni di loro indossavano una mascherina.

Per settimane, ha detto, le sue chiamate all’ufficio del governatore per la chiusura dell’impianto non hanno avuto riscontro, poiché le infezioni sono aumentate così rapidamente che l’ospedale locale è stato invaso. “Non sapevamo dove si stesse verificando la resistenza, se fosse Tyson o a livello di governo statale“, ha detto il dottor Egbuonye “le richieste cadevano nel vuoto“.

Il governatore Kim Reynolds ha detto all’epoca che era essenziale mantenere attiva e funzionante la catena di approvvigionamento alimentare della nazione. L’impianto è stato chiuso solo dopo che il virus aveva messo KO gran parte della sua forza lavoro: più di mille dipendenti sono stati infettati, molti dei quali immigrati, e almeno cinque lavoratori sono morti.

Forse da nessuna parte le conseguenze della riapertura furono più chiare che in Texas.

Con 29 milioni di residenti e un’identità conservatrice costruita sull’essere ben disposti verso gli affari, il Texas è stato tra gli stati che in seguito hanno emanato ordini di rimanere a casa. Entro due settimane, i manifestanti hanno gridato a gran voce davanti alla villa del governatore, sventolando bandiere decorate con il motto “Non calpestarmi” (la bandiera di Gadsden, NDT) e chiedendo di poter tornare al lavoro.

Il governatore Greg Abbott si stava rapidamente orientando verso la riapertura. Un giorno dopo la chiamata di Trump che ha conferito l’autorità ai governatori, Abbott ha annunciato una “squadra speciale per aprire il Texas“. Più della metà dei suoi membri aveva effettuato domazioni alle campagna elettorale di Abbott, tra cui l’imprenditore immobiliare Ross Perot Jr. e Drayton McLane Jr., un ex proprietario degli Houston Astros.

In una serie di telefonate e riunioni nel corso di diverse settimane, la squadra speciale ha espresso le proprie idee. La Texas Restaurant Association ha presentato un piano per riaprire i ristoranti. In ogni fase del percorso, le idee venivano convogliate attraverso un gruppo di quattro esperti medici, ai quali era stato conferito il potere di porre il veto alle idee.

Ma il compito principale era chiaro: come rimettere in piedi l’economia del Texas da 1800 miliardi di dollari.

Alla fine di aprile, Abbott stava valutando la possibilità di riaprire l’economia in più fasi.

“Il mio consiglio era di andare un po’ più piano”, ha detto un membro della squadra del governatore, il dottor Mark McClellan, ex commissario della Food and Drug Administration degli Stati Uniti. Temeva che lo stato non considerasse il tempo tra le fasi per misurare eventuali aumenti di infezione prima di progredire attraverso ulteriori riaperture, e temeva un’ondata di nuove infezioni.

Ma il 1° maggio il Texas ha riaperto, iniziando con i ristoranti, i negozi e i cinema. Al Memorial Day, il Texas era effettivamente attivo e funzionante.

Un portavoce di Abbott ha indicato stati come la California e New York, che hanno mantenuto le restrizioni in vigore più a lungo, ma hanno recentemente assistito a recrudescenza del virus, come prova del fatto che i “blocchi per mesi dopo mesi” non funzionano. Ha detto che Abbott aveva equilibrato il “salvare vite, preservando i mezzi di sussistenza“.

Da fine maggio a fine luglio, le nuove infezioni in Texas sono decuplicate, da circa 1.000 nuovi casi al giorno a 10.000.

“È stato come un incendio nella boscaglia“, ha detto il dottor Jose Vazquez, che ha servito come autorità sanitaria nella contea di Starr, in Texas, e che ha contratto il virus qiuando la regione nel confine meridionale dello stato è stata duramente colpita durante l’estate.

Entro la fine di giugno, Abbott convocò un’altra riunione dei suoi consulenti medici. Invertendo la rotta, chiuse tutto. Giorni dopo ha emesso un’ordinanza che obbligava all’uso della mascherina e che si è dimostrato aver salvato vite nei mesi a venire.

I decessi hanno continuato a salire fino ad agosto e per settimane questa estate il dottor Vazquez ha assistito agli elicotteri che piombavano nella contea di Starr per raccogliere i pazienti, portandoli in ospedali fino all’Oklahoma e al New Mexico.

Pochi sono tornati vivi.

Estate

“È stato semplicemente orribile“: gli esperti sanitari erano esausti, minacciati e messi da parte.

L’estate avrebbe dovuto portare una tregua dall’orrore.

In tutto il nord-est, le morti stavano diminuendo. Il clima si stava facendo caldo, un’occasione per trascorrere più tempo all’aperto, dove il virus si diffonde meno facilmente. I funzionari sanitari speravano che la stagione sarebbe stata il ponte di cui avevano bisogno per prepararsi all’autunno, quando si prevedeva che le infezioni sarebbero peggiorate.

Invece, mentre i funzionari in Nuova Zelanda registravano 100 giorni consecutivi senza una sola nuova infezione e paesi come la Germania registravano solo pochi nuovi decessi al giorno, gli Stati Uniti hanno quasi battuto il record di ospedalizzazione primaverile per coronavirus.

In tutto il paese, i rappresentanti della sanità, alla guida delle loro comunità attraverso la crisi, hanno affrontato un tormento sempre più grande, l’esaurimento delle risorse e dibattiti politici da cui sono usciti esausti. La reazione è nata come un riflesso alla linea imposta da Trump, che ha chiesto il supporto degli alleati Repubblicani, la cui retorica riguardo alle mascherine e all’economia è diventata un’invitante appello in molte comunità. Nonostante il caos che ha caratterizzato quest’anno, dozzine di sanitari sono stati licenziati o riassegnati.

Amber Elliott, ex direttrice sanitaria del St. Francois Country, in Missouri, ha dichiarato di aver ricevuto delle telefonate da persone che imprecavano, dicendo: “Devi fare attenzione”, ed una fotografia della sua famiglia ad un incontro di basket di suo figlio, fatta senza che lei ne fosse a conoscenza, postata anche online. Ha iniziato a controllare le telecamere di sicurezza prima di lasciare, la sera, il suo ufficio, ed ha chiesto un trasferimento. “Non vale la loro sicurezza”, dice, riferendosi al rischio che corrono i suoi due figli. “Non si può aspettare finché diventa troppo tardi”.

Nel Wisconsin, la dottoressa Jeanette Kowalik, commissaria della sanità a Milwaukee, è stata demolita dall’assenza di risorse. I suoi colleghi hanno lavorato venti ore al giorno, cercando di resistere all’incremento del numero dei casi e dovendo usare delle apparecchiature inadeguate, riflesso di un sistema sanitario pubblico sotto-finanziato per anni.

“È stato orribile”, dice la Kowalik. “Resistere è stato difficile”.

Ad un certo punto, la Kowalik ha lanciato una richiesta di aiuto ai Centri per il Controllo e la Prevenzione delle malattie. I centri hanno impiegato 6 settimane a rispondere.

Nel Kansas, il dottor Gianfranco Pezzino, funzionario sanitario per lo Shawnee County è stato messo ancor più sotto pressione a seguito della decisione dei commissari di rilassare le restrizioni sulle mascherine per i mercati degli agricoltori; sono stati in seguito allungati gli orari di apertura dei bar e sono state permesse le pratiche sportive, contrariamente al suo consiglio.

Scocciato e frustrato, il Dr. Pezzino si è seduto alla sua scrivania ed ha scritto la sua lettera di dimissioni.

“Non si può mettere il personale sanitario nella condizione di compiere queste difficili scelte, per poi ribaltare le loro decisioni, senza alcuna base scientifica”, ha concluso Pezzino, che in un momento particolare della pandemia, ha letto ad alta voce la lettera, durante una videoconferenza lo scorso mese, ed ha spento la videocamera come ulteriore rappresentazione delle sue dimissioni.

All’inizio della pandemia, il Dipartimento della Salute della Florida ha riunito i maggiori esperti per un’urgente videoconferenza del sabato mattina, con il chirurgo Scott A. Rivkees.

“Abbiamo avuto questa scoppiettante riunione”, ha dichiarato il Dr. Aileen M. Marty, professore di malattie infettive alla Florida International University, credendo che quella riunione sarebbe stata la prima di molte.

Si è tenuta, invece, una sola riunione.

Il Dr. Rivkee è stato successivamente “messo da parte”, per essere poco in vista dopo aver suggerito, correttamente, ad un a conferenza che il distanziamento sociale, come anche altre misure, dovevano essere imposte per almeno un anno. Un altro gruppo di scienziati, che si erano incontrati all’interno del Dipartimento della Salute, è stato ugualmente eclissato.

Il governatore DeSantis, vincitore delle elezioni del 2018, in gran parte grazie all’appoggio di Trump, si è attenuto alla linea della Casa Bianca, circondandosi di imprenditori e consiglieri di sua scelta.

Delle 22 persone della commissione esecutiva nella task force del governatore per la riapertura della Florida, solo una, il presidente del Tampa General Hospital, poteva vantare un background medico-sanitario.

L’unica persona a cui DeSantis si è rivolto era il Dr. Atlas, in quel periodo un alto consigliere di Donald Trump, le cui idee sono state ritenute pericolose dai membri della comunità medica. Radiologo, la cui apparizione su Fox News ha catturato l’attenzione di Trump, il dr. Atlas si è scontrato di frequente con gli esperti, dicendo ad esempio che l’efficacia delle mascherine non era confermata e che i bambini non potevano trasmettere il virus.

DeSantis ed il Dr. Atlas si sono mostrati insieme a diversi eventi ad agosto, promettendo didattica in presenza per scuole e università, oltre al ritorno degli sport autunnali.

Una portavoce di DeSantis si riferiva a lui come ad un innovatore, in grado di comprendere che il lockdown sarebbe stato “inefficace”, che ha avuto un approccio basato sui dati e si è concentrato unicamente sulla protezione dei residenti più anziani e delle altre persone più a rischio.

A settembre, l’ufficio di DeSantis ha mandato una richiesta al Dr. Bhattachary, professore di Stanford, che ha classificato i lockdown per il coronavirus come dannosi. In un’intervista il Dr. Bhattacharya ha detto che la richiesta è arrivata in modo inaspettato, e di essere compiaciuto dal fatto che il governatore avesse letto le sue pubblicazioni.

Il governatore ha chiesto a Bhattacharya di presentarsi ad un comitato insieme al dr. Martin Kulldorf di Havard, che ha aiutato nella stesura della Great Barrington Declaration, studio mirato a proteggere al meglio i più vulnerabili, mentre le persone “conducono una vita normale”, approccio fortemente criticato dalla comunità scientifica.

Il giorno seguente DeSantis ha proseguito con il piano per tenere la Florida aperta. Ha autorizzato i bar ed i ristoranti a proseguire l’attività al massimo delle capacità dei locali, proibendo alle autorità locali di rinforzare le misure sulle mascherine, sul coprifuoco e su altre restrizioni.

Il paese aveva appena superato i 200.000 morti, di cui più di 14.000 in Florida.

I dati sulle mascherine erano ben documentati, ma i governatori hanno resistito

In autunno la notizia del contagio di Trump era su tutte le prime pagine e, nonostante ciò, il presidente continuava a sostenere che il paese stesse per “svoltare l’angolo” e che il coronavirus sarebbe presto sparito.

All’interno della Casa Bianca però i funzionari sapevano che la crisi aveva bisogno di maggiore controllo.

In una serie di poco pubblicizzate note settimanali, create su misura per ogni stato, la task force della Casa Bianca ha segretamente fatto pressione sugli stati affinché prendessero misure più restrittive. I comunicati incoraggiavano stati come Alaska, Georgia e Wyoming ad imporre l’utilizzo delle mascherine. Ad altri stati come Alabama, Louisiana e Mississippi è stato consigliato di porre dei limiti più stringenti sugli incontri al chiuso.

Tuttavia, questi stati, come altri – almeno 26 in tutto – hanno ignorato le esortazioni della Casa Bianca, nonostante si contassero nuovi casi ogni giorno.

Secondo la governatrice del South Dakota, Kristi Noem, il laissez-faire era un motivo di orgoglio. Probabilmente, più di ogni stato, il South Dakota ha tenuto le sue porte aperte, ospitando Trump per un evento al Monte Rushmore e spendendo 5 milioni di dollari del fondo federale di sostegno per il coronavirus per attirare turisti.

In autunno, Noem ha viaggiato in tutto il paese con l’aiuto di un ex manager della campagna di Trump, Corey Lewandowski, impaziente di dimostrare che il suo modello di governo liberale era quello giusto.

Nel New Hampshire, ha detto ad un gruppo di Repubblicani che una delle sue strategie era quella di “non parlare mai del numero di casi di infezioni da Covid-19 che abbiamo”.

Nel Maine, invece, la Noem ha criticato le restrizioni imposte dallo stato, sostenendo che nel suo stato il numero dei contagi era uno dei più bassi. “La leadership ha delle conseguenza, e voi vivete con una leadership che è fuori dall’ufficio del vostro governatore”, ha detto, riferendosi alla folla.

Di fatto, i nuovi casi e il numero di morti stavano crescendo nel South Dakota. Probabilmente ha contribuito molto un raduno dopo l’estate, che ha richiamato centinaia di migliaia di motociclisti a Sturgis, South Dakota, in aggiunta alla stagione più fredda che ha spinto molti in posti al chiuso. La Noem ha inoltre continuato a rifiutare il consiglio della Casa Bianca ad imporre l’uso della mascherina.

Il South Dakota ha concluso l’anno con uno dei più alti numeri di contagio del paese – quattro volte quello del Maine – sebbene abbia anche preparato uno delle più imponenti campagne di vaccinazione del paese.

Anche il governatore dell’Idaho, Brad Little, si è opposto all’invito sulle mascherine, ma era consapevole della necessità di misure più stringenti. Bryan Elliott, a capo del comitato per la salute di una regione fortemente colpita nel sud del Idaho, ha riferito di un consigliere di Little che ha preso parte ad una conferenza con due addetti del comitato per chiedere l’impiego di ulteriori misure, compreso l’uso delle mascherine.

La richiesta, ha detto Elliot, includeva una minaccia. Ogni tipo di misura era volta a scatenare una resistenza della popolazione, e l’intenzione sembrava essere quella di farla assorbire dal comitato di Elliot. Se non ci fosse stata un’ordinanza per imporre l’utilizzo della mascherina, il governatore avrebbe pubblicamente umiliato Elliot, indicandolo come unico responsabile del numero crescente di casi, almeno così avrebbe riferito un consigliere di stato ad Elliot, che ha concluso “non era corretto”.

La decisione di dare un’ulteriore responsabilità alle autorità locali ha aperto la porta, come accaduto in molti stati, a politica e disinformazione.

La dottoressa Vicki Wooll, invitata a testimoniare ad un incontro del comitato, ha suggerito che fosse la tecnologia 5G a mettere in pericolo la salute delle persone.

Il Dr. Ed Zimmerman, il responsabile sanitario nella contea di Washakie, Wyoming, ha visto la sua comunità infiammata da altre teorie cospirative sui social media, tra cui suggerimenti che le preoccupazioni legate al virus fossero state esagerate nel tentativo di danneggiare la campagna per la rielezione di Trump.

“È una completa retrocessione della scienza nel dimenticatoio“, ha detto il Dr. Zimmerman, che si è schierato come conservatore.

Una settimana dopo aver emesso un mandato per l’uso delle mascherine, è stato licenziato.

Inverno

Un buio inverno porta con sé un numero di morti record.

Contro ogni previsione, alcuni stati sono riusciti a tenere il virus sotto controllo.

Lo Stato di Washington, che ha registrato 37 dei primi 50 decessi per coronavirus della nazione, ha mantenuto in atto una serie di misure di mitigazione in costante adattamento e ora si colloca al quarantaquattresimo posto per i decessi pro capite. Se la nazione avesse raggiunto un tasso paragonabile a quello di Washington, sarebbero morte circa 220.000 persone in meno. Anche il Vermont è stato tra gli Stati con il minor numero di morti, grazie in parte a una cauta riapertura, test significativi e un’ordinanza sulle mascherine.

Tuttavia, in un anno di divisione politica e mancato controllo, la diffusione del coronavirus ha raggiunto la maggior parte del paese.

Negli ultimi giorni, il virus ha accelerato in quasi tutti gli stati, e le morti stavano salendo dall’Arizona al Connecticut. Persino a New York, diventata un modello nazionale per le restrizioni e i test, dopo la crisi primaverile si sta assistendo ad una recrudescenza del contagio.

L’inverno è sempre stata la stagione in cui il virus ha rappresentato la minaccia più grande, ma in molti stati, i residenti sono anche diventati vittime di stanchezza pandemica, rendendo meno efficaci i controlli esistenti.

È stato così in California, che ora sta vivendo uno dei peggiori focolai della nazione.

Lo stato più popoloso della nazione è stato il primo a emettere l’ordine “restate a casa” la scorsa primavera, ed è riuscito a tenere sotto controllo il virus per la maggior parte dell’anno. Ma mentre l’inverno si avvicinava, l’irrequietezza si diffondeva velocemente.

I giornalisti locali hanno riportato che i leader democratici, il governatore Gavin Newsom e il sindaco di San Francisco London Breed – schietti sostenitori delle precauzioni contro il virus – hanno partecipato a feste di compleanno al ristorante French Laundry nella Napa Valley, ignorando le loro migliori indicazioni. Il disprezzo per le mascherine e le chiusure di varie attività risuonavano nelle parti più conservatrici della California meridionale, e i funzionari sanitari hanno indicato come determinante il comportamento di coloro che non hanno vigilato durante la festa del Ringraziamento.

Ora i funzionari sanitari federali stanno avvertendo che una variante molto più contagiosa del virus potrebbe diventare la fonte principale di infezione entro marzo, minacciando di accelerare l’epidemia del paese.

L’arrivo dei vaccini potrebbe rallentare la crescita, ma la mancanza di una strategia nazionale unificata è riemersa come un difetto fondamentale. Il governo federale ha scaricato la responsabilità della somministrazione dei vaccini ai governi statali e locali, che sono a corto di finanziamenti e si occupano ancora della scoraggiante crescita di casi di infezione. Alcuni stati hanno avuto difficoltà nella rapida consegna del vaccino e le regole variano ampiamente da stato a stato.

Biden, che si è insediato questa settimana, ha detto che chiederà alla Federal Emergency Management Agency di istituire 100 centri di vaccinazione sostenuti a livello federale in tutto il paese e spingerà anche per migliaia di siti di vaccinazione comunitaria e mobile.

Ma aiuti limitati rallenteranno il processo con cui tali piani possano essere implementati, e già ci sono divisioni politiche sul fidarsi del vaccino e su quali gruppi sociali dovrebbero ottenerlo per primi.

La dott.ssa Marissa J. Levine, direttrice del Center for Leadership in Public Health Practice dell’Università della Florida meridionale, ha detto che un fallimento della leadership – prima dalla Casa Bianca e poi dagli stati – ha polarizzato l’intera risposta alla pandemia e dato al virus una vita prolungata. “La situazione indica un colossale fallimento a tutti i livelli di governo”, ha detto.

I primi cinque giorni peggiori per i nuovi morti negli Stati Uniti sono arrivati a gennaio. Mentre la pagina del calendario si girava per un nuovo anno, il virus era peggiore di quanto non fosse mai stato.

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