Il 21 gennaio – una data cara – è arrivato nelle librerie un lavoro editoriale di un giovane compagno di Quarto (un comune dell’area metropolitana napoletana) dedicato alla figura di Raniero Panzieri.
Il libro, scritto da Marco Cerotto, si chiama “Raniero Panzieri e i “Quaderni Rossi”. Alla radice del neomarxismo italiano”. La casa editrice è “Derive Approdi” che, da sempre, cura la pubblicazione di testi e raccolte afferenti al variegato filone teorico ed analitico che – a vario titolo – è ascrivibile alla corrente del cosiddetto Operaismo.
Diciamo subito che il testo di M. Cerotto è un utile compendio – mai didascalico ma sempre con l’accuratezza di rilevare, di volta in volta, gli snodi culturali e politici salienti – dell’opera di Raniero Panzieri. Un libro che aiuta la riscoperta delle elaborazioni di una figura che molti vorrebbero collocata o nell’oblio o in una sorta di richiamo mitologico ad una fase eroica e irripetibile dello scontro di classe nel nostro paese.
Panzieri è stato un pensatore/militante – sicuramente un compagno dotato di grande qualità – che viene ancora oggi continuamente citato e richiamato. Un esponente importante attorno cui si alimenta un dibattito, anche fuori dall’Italia, che continua ad appassionare ma che alimenta anche scontri circa il metodo e lo stile di lavoro che Panzieri ha innervato nella cultura politica del movimento operaio del nostro paese.
Ben vengano, dunque, contributi come quello condensato in questo libro particolarmente se gli autori sono giovani e se – magari – hanno incrociato la figura di Panzieri discutendo ai margini di un episodio di conflitto metropolitano oppure in un aula universitaria dove, fortunatamente, ancora esercita qualche professore che riesce a sottrarsi al rullo compressore di una produzione del sapere totalmente omologata e priva di quei contenuti di critica radicale che sono il fondamento scientifico del vero progresso e di qualsivoglia dispositivo di emancipazione.
Marco Cerotto, in questo suo lavoro, passa in rassegna la biografia politica ed intellettuale di Panzieri, ricostruisce il dibattito politico e culturale in Italia di quegli anni riguardante il marxismo e le sue diversificate interpretazioni, riprende la nascita dei “Quaderni Rossi” e la loro significativa azione non solo nel “cielo della teoria” ma anche in alcune importanti vertenze sindacali e sociali ed – infine – dettaglia un “punto di vista” circa le divergenze teoriche tra Raniero Panzieri e l’altro maitre a penser, sempre di scuola Operaista, Antonio Negri.
Questa mia segnalazione del libro di Marco Cerotto – che invito ad acquistare e leggere – non intende entrare nel merito della lettura fenomenologica o, addirittura, filologica che l’autore avanza ma vuole essere una sorta di considerazione a posteriori a proposito di alcuni aspetti del dibattito politico nel paese in quel periodo e di come “l’ambiente socialista e comunista” inteso nella accezione più larga possibile si sviluppava e si divaricava lungo traiettorie politiche ed organizzative diverse le quali – a distanza di più di 50 anni – ancora sono individuabili le scie e i segni concreti.
Del resto, se con il trascorrere di tanti decenni, ancora, nel dibattito collettivo torniamo a “dividerci ed accapigliarci” attorno ad alcuni nomi e filoni storici e politici è un sintomo che quelle elaborazioni (non solo l’Operaismo, naturalmente!) hanno determinato un imprinting che ha resistito nel tempo e negli avvenuti sconvolgimenti di questa fase storica del moderno capitalismo.
È fuori dubbio che la vicenda di Panzieri, del gruppo raccolto attorno i “Quaderni Rossi”, abbia segnato un inizio di un filone teorico – dentro cui occorre collocare la successiva esperienza di “Classe Operaia” solo per restare agli anni Sessanta – che, di fatto, si dislocava fuori la tradizione e l’azione del “movimento operaio ufficiale”.
Collocarsi “fuori” – per essere chiari – non è mai significato essere estranei alle lotte, alla vita delle persone o discutere, esclusivamente, di temi iper/uranici ma (a detta dei compagni di scuola Operaista) ha voluto rappresentato una cesura teorica e pratica con una storia che, schematicamente, veniva indicata come “ortodossa, continuista e, per taluni aspetti, ultra determinista”.
Panzieri e i compagni che hanno avuto modo di condividerlo e seguirlo hanno interpretato l’indubbio merito di saper arricchire ed innovare – specie sul versante delle pratiche conflittuali e dei “comportamenti operai” – l’analisi dei processi produttivi e dei vari salti di qualità delle forme dello sfruttamento, l’evolversi dell’involucro dello Stato e delle sue articolazioni e, soprattutto, attraverso lo strumento dell’Inchiesta la comprensione delle diverse figure operaie (e proletarie) che incubavano e maturavano nel dispiegarsi del nuovo ciclo dell’accumulazione capitalistica post bellica non solo in fabbrica ma anche nei territori e nella loro inedita morfologia produttiva.
Ma come spesso è accaduto (ed ancora accade!) per la corrente dell’Operaismo – specie per quella più recente che si autodefinisce Post/Operaista – nel ragionamento dei seguaci di Panzieri si è accentuata quella distorsione che, puntualmente, nell’analisi congiunturale della fase politica, scambia i fattori strutturali e fenomenologici che, al momento, si configurano come una tendenza in nuce ed ancora tutta da palesarsi come un dato compiutamente rivelatosi ed immanente.
Da tale convincimento è naturale, poi, che né seguano (e sono seguite) scelte politico/pratiche che si indirizzano in percorsi molto “caratterizzati”!
Insomma, a mio parere, emerge quel vizio di fondo – oggi come nel periodo dei “Quaderni Rossi” – che sollecita ed impulsa corto circuito teorici e politici che non si pongono il tema/rompicapo dell’egemonia sulla maggioranza del proletariato, che semplificano impressionisticamente i problemi afferenti alla necessità dei processi di ricomposizione e che ignorano la “specificità” che attiene alla dimensione sindacale (un tempo avremmo detto Tradeunionistica) la quale – dialetticamente – richiama alla relazione, “virtuosa ed originale”, tra Partito e Classe la quale, invece, è assente volutamente nei ragionamenti di questi compagni.
In tale cornice, ovviamente sintetizzata, si collocano gli spunti di Panzieri e la sua modalità di essere anticipatore di quell’altro movimento operaio il quale – e spiace dirlo – nel corso dei decenni successivi (con gli apporti di Tronti, Cacciari, Negri per restare agli autori maggiori) è spesso involuto in forme soggettiviste ed astratte dietro variegate suggestioni politiche le quali hanno favorito la perdita di quell’indispensabile legame/connessione con il resto della Classe e della società.
Una cesura – a volte quasi programmaticamente, quanto testardamente, ricercata – la quale ha agevolato l’azione del riformismo politico e sindacale (della Cgil, del vecchio PCI, del neocorporativismo delle aristocrazie operaie e di tutta la pletora del collaborazionismo) e il suo cedimento/integrazione nella logica delle compatibilità e della subordinazione alle leggi dell’azienda, del totem del mercato ed, infine, del proprio capitalismo/imperialismo.
Raccolgo – dunque – il lavoro e gli stimoli avanzati da Marco Cerotto attraverso la riscoperta delle fonti originali di quei filoni eretici del movimento operaio ma, nel contempo, l’auspicio affinché si apra – finalmente – una discussione su un enorme ciclo del conflitto nel nostro paese e sui limiti oggettivi e soggettivi che alcune “forzature” hanno determinato nel corso di questi lunghi anni.
Non sta scritto da nessuna parte che i deludenti esiti a cui è giunta la vicenda della lotta di classe non potevano avere un segno ed una significanza diversa da quella che oggi, purtroppo, siamo costretti a prenderne atto.
Per cui, senza ingessate nostalgie e senza diatribe presuntamente teoriche fuori tempo massimo è tempo di storicizzare i processi e i vari percorsi della liberazione proletaria che si sono verificati e consumati nelle dinamiche reali.
Che tornino, di nuovo, a gareggiare le cento scuole!
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