Mentre le cronache politiche ci narrano della crisi di Governo,
qualcuno inizia a preparare il terreno per una nuova ondata di
austerità. La crisi da Covid-19 ha indotto i governi a intervenire in
maniera più decisa nell’economia, al fine di evitare che la crisi
economica derivante dalle chiusure di molte attività produttive fosse
ancora più profonda. Per fare ciò, è stato inevitabile il ricorso a un maggior deficit.
Ma attenzione, ci fanno notare i soliti noti, la pacchia è finita:
stiamo vivendo al di sopra delle nostre possibilità e servono nuovi
sacrifici.
Tra i sommi sacerdoti del culto dell’austerità non poteva mancare
Mario Monti, il quale, com’è noto, ha votato la fiducia al Governo Conte
al Senato. Sulle pagine del Corriere della Sera, l’ex Presidente del
Consiglio lo dice senza mezzi termini.
Ok, sottolinea, fin qui l’Europa ha tollerato, ma presto «verrà
reintrodotta una disciplina di disavanzi e debiti pubblici, e noi più di
altri arriveremo a quell’appuntamento dopo l’impennata di questi anni;
inoltre, la “revisione strategica” della politica della Bce, che
Christine Lagarde ha avviato, difficilmente permetterà di fare
affidamento a lungo sulla possibilità di finanziare a costo zero il
disavanzo italiano». In parole povere, vi abbiamo lasciato fare, ma è stato un caso eccezionale.
Occorre tornare a mettere paletti al ricorso al debito pubblico e
accelerare sulle riforme. E tra queste riforme, secondo il senatore a
vita, spicca la riforma del fisco. Occorre andare a
toccare, ci dice Monti, fonti di reddito e ricchezza che i “pavidi”
politici italiani hanno troppa paura di toccare.
Quando si parla di fisco, si sa, il pensiero corre immediatamente al
portafoglio. Oggi, assai più di ieri, il prelievo fiscale è visto come
un rilevante fardello che pesa intensamente sulle tasche già vuote di chi vive del proprio lavoro. Eppure, le imposte,
nel servire come fonte di finanziamento della spesa collettiva,
potrebbero e dovrebbero, in un sistema strutturalmente segnato da una
fortissima sperequazione dei redditi qual è il capitalismo, operare una
significativa spinta verso la redistribuzione progressiva delle risorse.
Togliere ai pochi che hanno di più per restituire sotto forma di spesa
sociale ai molti che hanno di meno, ovvero alla stragrande maggioranza
della popolazione.
Malgrado questo, sulla riduzione delle tasse in quanto tali, come
fossero un tutt’uno indistinguibile indipendentemente da chi le paga,
sono ormai molti anni che si giocano le promesse elettorali, vere o
false, di gran parte dei partiti politici e dei governi in carica. La
visione delle tasse come entità generica che peserebbe sull’economia
fuori da dinamiche distributive, viene miseramente riproposta non solo
da politicanti in mala fede, ma anche dalla gran parte degli studi e
delle analisi economiche oggi circolanti sul tema. Pochi giorni fa ci ha
pensato la Banca d’Italia a dire la sua durante l’audizione nell’ambito
dell’indagine conoscitiva delle Commissioni congiunte Finanze di Camera
e Senato sulla riforma dell’Irpef. L’analisi proposta (citata, non a
caso, da Monti nel suo editoriale) è la perfetta incarnazione della
solita impostazione liberista che in tema fiscale parte da questo
presupposto: le tasse sono uno strumento aclassista, neutrale rispetto
alla distribuzione del reddito, e bisognerebbe calibrarle al meglio ai
fini di un generico sostegno al sistema economico.
Per spiegare questo concetto si parte anzitutto da una preliminare
professione sincera di cieca adesione all’austerità: a parità di spesa,
si dice, se si vuole ridurre la pressione fiscale da una parte occorre
caricarla maggiormente da un’altra. Questa presunta necessità si basa su
un assunto fallace, quello della scarsità delle risorse. Minori entrate
come quelle che deriverebbero da una riduzione della pressione fiscale
possono essere finanziate in due modi. Da un lato, attraverso l’aumento
di altre entrate, quindi spostando il carico fiscale su altre fonti.
Dall’altro, attraverso il ricorso al deficit, ovvero prendendo in
prestito il denaro da soggetti che sono disposti a prestare soldi allo
Stato. Quest’ultima eventualità, però, è vista, dalla Banca d’Italia
così come dalla gran parte delle istituzioni finanziarie internazionali
e, soprattutto, dalle istituzioni europee, come fumo negli occhi. I
trattati europei limitano fortemente il ricorso all’indebitamento. In
altri termini, se la coperta, come si usa dire, è corta, non è per via
della natura malvagia dell’economia o di una qualche legge naturale. La
coperta è corta perché è così che è stata progettata. E la ragione di
questa progettazione risiede nel fatto che il deficit è stato ed è
tuttora uno dei principali strumenti in grado di creare domanda
aggregata, investimenti, consumi e, quindi, perseguire la piena
occupazione. Questo, però, creerebbe un problema non di poco conto per
il capitale e per le istituzioni che ne curano gli interessi: renderebbe i lavoratori meno ricattabili e,
dunque, meno disposti ad accettare salari da fame e condizioni di
lavoro sempre più precarie. Un’eventualità che non può che spaventare i
padroni.
Ma soffermiamoci sulle ricette di via Nazionale. Nelle memorie
presentate alle Commissioni parlamentari congiunte si suggerisce, in
particolare, di ridurre la pressione fiscale sui fattori produttivi,
quindi sui redditi da capitale e da lavoro, e di aumentarla, per
recuperare il gettito perduto, sui consumi e sulla ricchezza. «La
riforma – si scrive – dovrebbe evitare di aumentare il livello del
prelievo complessivo, già alto; per favorire la crescita occorrerà
muovere verso una ricomposizione del prelievo fiscale a beneficio dei
fattori produttivi».
In queste brevi frasi si nascondono molte insidie. In primo luogo,
l’espressione “fattori produttivi” già di per sé lascia intendere che si
ragiona come se redditi da lavoro e da capitale, fossero un unico
aggregato da trattare come un blocco unitario indistinguibile, a
rimarcare la visione ostentatamente aclassista insita nei presupposti
dell’analisi. Nulla di più falso. L’accomunamento di
queste due fonti di reddito nasconde, per l’appunto, la natura
estremamente diversa, e conflittuale, dei salari e dei profitti. Il
capitale ha tutto l’interesse a pagare salari che siano il più possibile
bassi, in modo da poter incrementare i propri margini di profitto. I
lavoratori hanno, invece, tutto da guadagnare dal veder aumentata le
proprie retribuzioni. Il voler mettere nello stesso calderone,
attraverso l’utilizzo di un’espressione volutamente neutrale e vuota
come “fattori produttivi”, queste due forze contrapposte è il risultato
di una visione volutamente e ipocritamente pacificatoria. Anche perché
se da un lato la riduzione della pressione fiscale sui redditi da
lavoro, soprattutto quelli medio-bassi, ha indubbi effetti dal punto di
vista dell’aumento dei consumi, la riduzione dell’imposizione sui
profitti ha effetti molto meno marcati sui consumi dei percettori di
profitto e sugli investimenti.
Se, dunque, come detto, la visione della Banca d’Italia è aclassista, iperclassista è,
e in modo lampante, la soluzione proposta: per ridurre le imposte su
redditi di lavoro e capitale si propone infatti di aumentarle su fasce
ben determinate di popolazione attraverso la crescita delle imposte sui
consumi e attraverso una specifica forma di tassazione della proprietà
immobiliare. Come noto, e come già accennato, le imposte sui consumi
hanno carattere fortemente regressivo poiché i più poveri consumano una
fetta del loro reddito assai maggiore rispetto a quanto facciano i più
ricchi. Elevare imposte sui consumi quali l’IVA, oltre ad avere un
effetto depressivo sui consumi, significa incidere ulteriormente sui
redditi bassi e da lavoro a favore dei redditi alti e da capitale.
Potrebbe lasciare qualche speranza la proposta di colpire almeno la ricchezza, la celebre patrimoniale nella
sua parte immobiliare, ma purtroppo le cattive intenzioni anche qui
vengono subito chiarite per non lasciar adito a dubbi. Si tratterebbe, a
detta della Banca d’Italia, di tassare anche la prima casa che (per
fortuna) da diversi anni era stata esentata dal pagamento dell’IMU.
Tassare l’abitazione principale, senza prevedere fasce di esenzione per
reddito, categoria di immobile e valore dello stesso, significa, di
nuovo, colpire i redditi bassi o al più medi, ovvero tutti coloro che
con fatica mettendo da parte risparmi di una vita hanno potuto
acquistare l’immobile in cui vivono.
L’analisi sulla riforma delle imposte viene infine condita di dati
sull’enorme evasione fiscale di impresa e lavoro autonomo, senza però
offrire alcuna soluzione al riguardo e, al margine, di qualche proposito
sulle politiche di sostegno alle famiglie e di maggior trasparenza e
semplificazione fiscale.
Fuori dai fronzoli, insomma, il senso della disamina della Banca d’Italia è netto e chiaro: detassare
le imprese e i lavoratori, per poi ritassare i lavoratori tramite le
imposte sui consumi e le imposte sulla piccola ricchezza immobiliare,
aumentando così il peso della tassazione indiretta e inasprendo quella
diretta sui piccoli patrimoni. L’ennesima virata regressiva che andrebbe
a colpire lavoratori, poveri e ceto medio, in piena continuità con
l’involuzione continua che il sistema tributario conosce ormai da tre
decenni. Il tutto in una totale compatibilità con il quadro
dell’austerità di bilancio.
Ancora non si intravede la luce in fondo al tunnel della crisi
sanitaria, dunque, che già si iniziano a delineare i contorni di quello
che ci aspetta nei prossimi chilometri. Sta tornando fortemente in voga
un ritornello che era stato soltanto temporaneamente messo a tacere
dalle pressanti contingenze della più pesante crisi sanitaria ed
economica del dopoguerra. È il ritornello dell’austerità, delle risorse
scarse, dei sacrifici e del non poter vivere al di sopra delle nostre
possibilità. Una melodia che nasconde un messaggio molto chiaro: presto
sarà il momento di fare i conti e si tornerà alle austere politiche
economiche dei tempi “di pace”. Monti e la Banca d’Italia dicono:
“iniziamo con il fisco”. Ma l’austerità è insaziabile. Dopo il fisco
sarà l’ora delle pensioni e dopo le pensioni bisognerà tagliare altre
voci di spesa, ad esempio il reddito di cittadinanza. Mai come in questo
momento occorre annusare i pericoli nell’aria e non farsi abbindolare
dai profeti dell’austerità.
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