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23/01/2021

Neurosis - 1996 - Through Silver In Blood

Esistono esperienze artistiche che trascendono il contesto in cui vengono prodotte, finendo con l'illuminare la strada a tanti, misteriosi futuri possibili. Oppure a oscurarla per sempre, se quello è l'intento. Magari non raccoglieranno immediatamente i frutti del loro operato, ma è soltanto questione di tempo perché si finisca col sorprendersi che siano esistiti tempi in cui quel determinato sound, quella precisa attitudine, semplicemente non esistevano. Per tanto, tantissimo metal a venire, un album come “Through Silver In Blood” ha acquisito questa specifica valenza, fungendo da proverbiale grimaldello attraverso cui scassinare le convenzioni e i paradigmi di un contesto intero, ed evidenziare nuove, cupissime, traiettorie.

Monolite scurissimo, dalle dimensioni colossali, il quinto album dei Neurosis cementa un decennio di evoluzioni e coraggiose ridefinizioni, fissando fermamente sulla mappa il nome del sestetto californiano, presentandolo nella sua veste più sontuosa, soffocante, profonda. Per un progetto nato con tutt'altre premesse, giungere a una sintesi così imponente è probabilmente il traguardo più ambito: se questa riesce a diventare il punto di partenza per interi generi e sottogeneri, il posto negli annali è un fatto assicurato. La sua storia rivela un potere creativo ancora non del tutto decifrato.
 
In fondo è la stessa natura del gruppo, il suo costante desiderio di aggiornamento, ad avere funto da catalizzatore nello sviluppo di un percorso tra i più peculiari del metal anni Novanta (e non solo). Nata come formazione dedita a un hardcore fulmineo, grezzo, dall'assetto compositivo che ricorda molto quello dei conterranei Black Flag, già a partire da “The Word As Law”, secondo album, la band, che ai tre membri fondatori Scott Kelly, Dave Edwardson e Jason Roeder adesso ha affiancato Steve Von Till (seconda voce e penna finissima, tale da alterare le dinamiche espressive del gruppo per sempre), si muove già verso una direzione del tutto nuova, rompendo le barriere del genere di partenza. 

I brani si allungano, la furia si attenua, l'apparato strumentale si affina, elaborando una visione decisamente altra di quello che solo due anni fa era punk essenziale ed incendiario. È la prima di una serie vorticosa di trasformazioni, che scontenta gli ascoltatori della prima ora ma che calamita l'interesse di nuovi, attratti da un linguaggio non più docile, sicuramente però più inquieto, oscuro, a suo modo raffinato. È la rampa di lancio perché l'assetto dei Neurosis prenda una piega ancor più eterodossa, e dia avvio a una fase di acutissime sperimentazioni.
 
È l'avvio di un nuovo decennio, e dalle parti di Montesano, Washington, una band chiamata Melvins ha coniato un sound tutto suo: la base è nuovamente l'hardcore di casa Black Flag, ma la rabbia velenosa che lo contrassegna fa i conti con l'andamento oppressivo, lento, del doom metal, che trae le mosse dai primattori del metallo pesante tutto, i Black Sabbath. La combinazione di tali attitudini dà origine a un suono malsano, vischioso, feroce e allo stesso tempo pesante, denso di distorsioni e atmosfere mortifere. Melma pura, irrespirabile: ed è proprio così che sarà definito, sludge-metal, a fornire un'immagine inequivocabile attraverso cui richiamare un fitto manipolo di sensazioni. 

Proprio dai primi malatissimi dischi dei Melvins, “Gluey Porch Treatments” e “Ozma”, i Neurosis, nel mentre forti dell'aggiunta di Simon McIlroy alle tastiere e al sampler, e di Adam Kendall (visual-artist e batterista), firmeranno le prime pagine importanti della loro carriera, e tradurranno i codici del neoformato linguaggio sludge in un complesso prisma di direttrici e incroci. Dapprima “Souls At Zero” (che segna il passaggio alla Alternative Tentacles di Jello Biafra), e l'anno successivo “Enemy Of The Sun”, chiariscono la rapidissima evoluzione del gruppo, che nell'arco di un quinquennio ha saputo trarre spunto dalle proprie ricchissime influenze e individuare un approccio difforme, curioso. 
 
Il nuovo corso appare tanto legato al prog evoluto dei King Crimson (i commenti solisti di chitarra rimandano dritto a “Larks' Tongues In Aspic” e “Red”), quanto ai più efferati contesti industrial, per una sintesi che passa anche attraverso un drumming nuovo, articolato su scansioni dal tocco tribale, tali da aggiungere una dimensione di primigenia spiritualità con l'ambiente circostante. 

Lo sludge dei Neurosis sa essere appiccicoso e asfissiante, sa dilatarsi e uscire a suo piacimento dalle strutture della forma canzone, ma ormai possiede una finezza di tratto e una chiarezza di gesto che passano anche attraverso personali elaborazioni concettuali e oscuri inquadramenti tematici, avvalendosi anche di un composito comparto visivo. Si tratta ormai di una band perfettamente consapevole dei propri mezzi, capace di pubblicare un uno-due di proporzioni grandiose nell'arco di un solo biennio, gestendo concetti come ripetizione e progressione con l'agio di una formazione navigata. 

Tutto, insomma, lascerebbe intendere che si tratti di una band “arrivata”, che ha trovato la sua quadratura e uno stile consolidato, eventualmente da approfondire in tutti i suoi spazi. Eppure, questo è soltanto il preambolo: tre anni dopo, niente sarà lo stesso.

Nel triennio che intercorre tra “Enemy Of The Sun” e “Through Silver In Blood”, la band attua un riassestamento profondo, nelle priorità, nel desiderio di sperimentazione, nel potere concettuale della propria musica. Non che tutto sia facile in casa Neurosis, anzi la band attraversa uno dei momenti più difficili del suo percorso, con Scott Kelly privo di un tetto e nel pieno della sua dipendenza, e Steve Von Till nel bel mezzo del suo tormento personale. Tale oscurità non mancherà di riverberarsi nelle pieghe del futuro disco, diventerà anzi il fulcro centrale di un'arte mai così fosca e oppressiva. Citando le parole del gruppo, perché la “ferrovia nell'inferno” centrasse appieno il proprio viaggio nel vuoto erano comunque necessari ulteriori passaggi, che ne indirizzassero la traiettoria con la necessaria precisione.

Tre sono gli eventi pivotali che ridefiniscono nell'intimo il progetto, e danno al gruppo la spinta necessaria per compiere il balzo: la sostituzione di Simon McIlroy con Noah Landis, oscuro fantasista delle tastiere e del design elettronico, il varo del side-project Tribes Of Neurot, attraverso cui approfondire una tetra vena ambient, ma soprattutto il passaggio alla ancora giovane ma ambiziosissima Relapse, etichetta già nota nel settore per alcuni dei più efferati act metal in circolazione (Suffocation, Incantation, Disembowelment tra i vari), ma ancora in attesa del balzo di notorietà che la ponesse fermamente sotto i riflettori. Quasi come se si trattasse di un matrimonio scritto nel firmamento, l'inserimento della formazione californiana nel roster dell'etichetta si rivelerà la più grande fortuna per entrambe le parti in causa. Da un lato la label si trova tra le mani una band già matura, navigata, ma tutt'altro che seduta sugli allori, desiderosa di fornire un nuovo sostegno alla propria asfissiante poetica, dall'altro un gruppo inserito in un ambito discografico fin troppo stretto trova finalmente un contesto che ne comprende e ne supporta le intenzioni, dimostrandosi all'altezza di un disegno così ambizioso. 
 
Registrato sul chiudersi del 1995 (contestualmente alla pubblicazione di “Rebegin”, primo album a firma Tribes Of Neurot), con la direzione produttiva di Billy Anderson (già al lavoro su un disco seminale per la scena stoner quale “Sleep's Holy Mountain”), il quinto album della band lascia confluire tutto il dolore, la frustrazione, lo schifo vissuti nel triennio antecedente in un ricettacolo unico, nutrendo così un'arte diventata sempre più colossale, torbida, velenosa, non per questo priva di un suo perverso fascino, tanto elusivo quanto sottilmente penetrante. Nei negozi a partire dal 2 aprile del 1996, “Through Silver In Blood” è opera che sublima un percorso di grande reinvenzione artistica e concettuale, e lo scaraventa all'interno di un abisso scuro come la pece, tanto oppressivo e straziante quanto sanno esserlo le pieghe di un'anima ferita, spaventata, incapace di rialzarsi. 

Concepito a blocco unico, come esperienza da recepire senza interruzioni, il disco si rivela sin dal primo ascolto come un cammino nel bel mezzo dell'apocalisse, pesante come una processione funeraria e imponente come un monolite, in cui il nero interiore si confonde con quello esteriore. In uno scenario dominato dalle frange più melodiche del death-metal, dai narcotici linguaggi stoner e dalla rabbia iconoclasta della seconda ondata black, l'assalto progressivo ordito dai Neurosis sconquassa tutti i paradigmi. Il resto del mondo faticherà parecchio a introiettare questa lezione.
 
Per quanto la band non abbia mai rivelato apertamente il significato alla base del titolo scelto per l'album (così come per gli stessi brani), limitandosi soltanto a citare riflessioni scaturite durante le sessioni di scrittura e registrazione, è difficile non rilevare la forte impronta narrativa del disco, ancora tangibile malgrado il forte tratto simbolico dei testi e l'assoluto ripudio della forma canzone. In una sorta di accidentato e straziante percorso di redenzione, l'iter della voce narrante (anche se sarebbe meglio parlarne al plurale) si divincola tra scenari di assoluta devastazione, autentici cataclismi interiori, complesse accettazioni e infine un lento, arduo cammino di riscatto: come accogliere l'argento, insomma, e lasciarlo scorrere nel proprio sangue, farlo diventare parte di sé, come se in fondo avesse sempre circolato all'interno di arterie e vene.
 
Anche a fornire un'interpretazione diversa del disegno lirico dell'album, è impossibile non rilevarne le profonde caratteristiche allegoriche, in un gioco di astrazioni e collegamenti che la musica, ancor prima che le stesse parole, sa far proprie: nei suoi costanti, schiaccianti cambi di tono e fraseggio, nei momenti di distensione e nelle prepotenti scariche di dolore, tra i campionamenti e le prorompenti code strumentali, si annida il segreto di una storia antica, ma sempre degna di rilievo.
 
È col supporto di un tale contesto tematico che la trasformazione sludge si completa definitivamente: se nel sound perfezionato in casa Neurosis convivono tutte le anime che avevano ispirato le precedenti prove (e di certo non è un caso che i tratteggi di batteria della title track riprendano il tribalismo mistico della lunghissima “Cleanse”, la selvaggia chiusura etno-ambient-industrial di “Enemy Of The Sun”), ma sono amalgamate in una miscela che trascende di gran lunga le sue parti, spingendone l'essenza verso insondati territori atmosferici. 

In fondo, “atmosfera” è il termine chiave dell'avvenuta mutazione: non che i precedenti lavori ne difettassero, ma nelle pieghe di “Through Silver In Blood” è questa l'elemento collante, il raccordo che unisce, come un filo di perle nerissime, ciascuno dei (spesso lunghissimi) brani dell'album, segnandone riprese, ostinati, cambi di tono col fare di un orologio svizzero. La materia sonora in casa Neurosis si è fatta insomma più evocativa e suggestiva che mai, dilazionando e dosando ogni elemento con una cura che di lì a poco i maestri del soft/loud avrebbero reso paradigmatica. Il ruolo della dinamica si fa ancora più rilevante, segnando la carica oppressiva e disturbante delle esecuzioni con una sapiente alternanza di coloriture e diversivi stilistici, col fare di una colossale suite progressiva.

Ed è la title track, con un titolo diventato emblematico, a introdurre nel vischiosissimo scenario di questa immane cattedrale metallica. Il battito di Jason Roeder procede spedito, inarrestabile, accumulando nervosismo col passare dei secondi, senza mai accelerare il tempo, le tastiere di John Landis tratteggiano feroci ricami industriali (memori dei primi Swans, ma anche i contemporanei Godflesh sanno essere un valido riferimento), basso e chitarra si potenziano di battuta in battuta, intensificando il portato espressivo del riff. Passano tre minuti e mezzo, e un “Through silver in blood!!”, gridato con tutta l'energia a disposizione, risolve la tensione, scatenando l'inferno della mente. 

Pare quasi di vederli, i due serpenti alchemici della copertina (vero concentrato di “novantità” metal) mentre perforano la pelle, liberando tutto il sangue e il dolore rimasti fermi fin troppo a lungo. Lo scenario cambia, sono lontani echi sabbathiani a ispirare adesso il modus operandi della band, che sotto il più concitato fraseggiare della batteria individua desolati passaggi doom, insostenibili come una marcia funebre. Le voci, memori della loro estrazione punk, si ispessiscono, si esprimono attraverso brevi e incisive metafore (“Windstorm promised/ The teeth strained/ Eyes see glory/ Rings end in slow/ Death wash out/ Your wound rings/ End in slow death”), senza mai risolvere il loro arcano segreto. 

Tastiere distorte e dissonanze chitarristiche impattano con crescente vigore man mano che il brano procede, aumentando il carico di alienazione con ineludibile maestria. E se i riff parrebbero poter continuare in eterno, stritolando con facilità ogni forma di speranza, sul chiudere del pezzo, ritmo e colore riscoprono l'agitazione hardcore degli esordi, che si interseca con il taglio ancestrale delle pelli per risolvere la lunga overture in un accelerando di violenza.
 
Nell'optare per minutaggi mediamente molto ampi (cinque brani su nove toccano o superano abbondantemente i dieci minuti di durata) i Neurosis approfondiscono il loro legame col rock progressivo, ma dilatano i cambi di tono e composizione all'inverosimile, innescando costanti effetti sorpresa che acuiscono la sensazione di spaesamento e disperazione. Con la disperata solennità di un requiem, “Strength Of Fates” procede lenta, intorpidita, quasi a voler descrivere la natura in disfacimento di un paesaggio desolato. Il tono catacombale di Von Till, i ronzii industriali e i commenti gotici di tastiera di Landis, le rade scansioni di Roeder quasi temono di alzare il tono inizialmente, si impregnano di disperazione, dotando di potenza emozionale ogni singolo contributo sonoro. Anche con la voce a lasciar trapelare piano piano una maggiore amarezza, niente predispone al cambio drastico che avviene attorno al settimo minuto, quando la furia crusty delle chitarre e il ribollire di basso donano tutto un altro sapore alla tetra anticipazione iniziale, concepita con una “leggerezza” di tratto che ne potenzia il portato ansiogeno. 

Se “Aeon” risolve il dilemma più rapidamente, lasciando poco spazio agli eleganti richiami neoclassici iniziali, nondimeno sa come giocare con gli elementi a sua disposizione, incorniciando un angosciante segmento per solo basso e tastiere (affilate come venti artici) in due importanti sezioni sludge, concepite col fare di una minaccia che monta con impeto sempre maggiore. Si fa presto a evidenziare nella malinconica chiusura di viola e violino lo svelamento di una catarsi agguantata con assoluta fatica.
 
Nell'avvicendarsi dei diversi episodi dell'opera, la produzione ne intuisce le intenzioni, le suggella con un pugno d'acciaio, riuscendo nell'impresa di lasciar immergere l'ascoltatore nelle ambientazioni schiaccianti del disco con una chiarezza che evita con maestria l'effetto-blob. È anche così che l'inserzione di contributi diversi da quelli della band risultano così potenti e stranianti, accentuando il fervido dinamismo dei pezzi, così come della loro incontenibile varietà interna. In questo senso, la lunga coda strumentale di “Purify”, uno dei più grandi classici della formazione (presentata pressoché in tutti i loro tour), sa come avvalersi del suono iper-caratterizzante della cornamusa di John Goff e amplificare la maestosità del dato sonoro, rivelando una cupa bellezza, perfettamente armonizzata nelle trame di un lavoro dalle premesse del tutto diverse. E se i tocchi di tastiera esprimono il loro potenziale disturbante con invidiabile precisione, assieme ai distortissimi campionamenti che costituiscono il fulcro dei due interludi, “Rehumanize” e “Become The Ocean” confondono i sensi col fare di macchine malfunzionanti. Violenza e redenzione procedono di pari passo.

Accolto con difficoltà dalla stampa e dagli appassionati del periodo, che nel mentre avevano volto il loro sguardo verso altri contesti (è l'anno di “Crimson” degli Edge Of Sanity, di “Life Is Peachy” dei Korn, ma anche di “Ænima” dei Tool) e che pure avevano speso ottime parole nei confronti dei precedenti dischi della band, l'album non tarderà comunque a fare proseliti e a costruirsi una reputazione solidissima, quale mai raggiunta prima d'ora dai Neurosis. Come il soft/loud esplorato da formazioni quali Godspeed You! Black Emperor, Mogwai e Tortoise darà il via alla lunga e fruttuosa stagione del post-rock come lo si intende tutt'oggi, l'analogo senso della dinamica e del colore esplorato dal sestetto californiano, oltre a diventare sempre più centrale nella sua indagine compositiva (sfociando nel capolavoro della maturità “The Eye Of Every Storm”), finirà con l'aprire la strada a innumerevoli band metal animate da simili intenzioni, tanto che non ci vorrà poi tanto perché venga coniata l'etichetta “post-metal”.

Se “Through Silver In Blood” rientra in una simile definizione soltanto marginalmente (ma il dibattito sotto questo punto di vista è ancora aperto), nondimeno il suo grandioso senso per l'atmosfera, la costruzione progressiva e incrementale dei brani, la spaziosità degli arrangiamenti verranno presi a riferimento da gruppi, a loro volta decisamente influenti, quali Isis, Mastodon e Cult Of Luna, che apriranno il nuovo millennio alla luce di un modo decisamente più espanso (talvolta pure troppo) ed evocativo di interpretare la materia metal. Nelle sue laceranti ambientazioni, l'apice creativo dei Neurosis ha indicato la via da seguire.
 

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