This land is your land, this land is my land
From California to the New York Island
From the Redwood Forest to the Gulf Stream waters
This land was made for you and me...
...In the shadow of the steeple I saw my people By the relief office I’d seen my people As they stood there hungry, I stood there asking Is this land made for you and me?
(Woody Guthrie, This Land is Your Land)
...In the shadow of the steeple I saw my people By the relief office I’d seen my people As they stood there hungry, I stood there asking Is this land made for you and me?
(Woody Guthrie, This Land is Your Land)
“È stata una cerimonia bellissima, toccante”... ”uno show perfetto” ... “Tutti i pezzi del puzzle al loro posto...”, “testimonia il cambio di passo della nuova amministrazione”... E così via.
Tutti i media mainstream, cartacei e non, hanno esaltato la commemorazione per il giuramento del neo-presidente eletto Joe Biden alla guida della “nuova America”, neanche fosse stata la diretta degli Oscar, o un qualsiasi altro show di intrattenimento. Ma la perfezione non è di questo mondo, diffidare quindi è opportuno.
Ovunque si è letto e sottolineato quello che ha dichiarato, chi è stato invitato, cosa è stato proposto e, per chi legge superficialmente ed un po’ acriticamente le cose, tutto sembrava condivisibile, vero e soprattutto “un faro” la cui luce andava a “rischiarare la via che tutti dovremmo percorrere per raggiungere i nostri obiettivi”.
Una volta ancora l’America ha (avrebbe) la soluzione, ci indica la via giusta da seguire; somigliare sempre più alla (ex) potenza d’oltreoceano, e collaborare con lei, ci porterà (poterebbe) solo a crescere.
Questa “la verità” strombazzata ai quattro venti da tutti i media mainstream.
Ma il dubbio è soprattutto in questi casi doveroso. Dubitare ed osservare più attentamente, con grande “distacco emotivo” i fatti, cercando di unire i punti sparsi di una narrazione trionfalistica, fra le righe ci svela qualcosa di taciuto, che stride con le belle dichiarazioni, qualcosa – per dirla con franchezza – che fa pensare che quel discorso non sia completamente sincero. Che Biden ci dice solo quello che più gli conviene, mezze verità, una storia incompleta.
Per questo è bene sottolineare quello che non ha detto, Joe Biden, su cosa ha sorvolato e cosa non si è visto, durante la cerimonia del giuramento al Lincoln Memorial, il 20 gennaio.
Dopotutto, i migliori detective consigliano di partire da quello che dovrebbe esserci, e non c’è, sulla scena del crimine per arrivare ad una soluzione veloce ed obiettiva, invece di farsi mettere fuori strada dagli elementi fin troppo evidenti.
In sintesi, dare importanza alla presenza di un’assenza. Di solito lì si nasconde l’indizio risolutivo.
Il nuovo inquilino della Casa Bianca ha utilizzato due strumenti imprescindibili per aggregare e coinvolgere pro domo sua le proprie e le altrui masse (l’evento è andato in onda quasi ovunque sul pianeta ed in diretta): la parola e la musica, con un piccolo intermezzo concesso alla poesia di Amanda Garson, giovanissima afroamericana che ha declamato un suo poema con una gestualità quasi perfetta. Anche troppo. Questo è il politically correct, bellezza!
Ma l’ipocrisia purtroppo si taglia con il coltello. E avvolge ogni momento della celebrazione.
Vediamo...
Sono presenti solo gli “eletti”, l’establishment contro cui si stanno organizzando i patriots, i “soldati” di Trump, che sognano la rivincita anche prima dei quattro anni canonici. Sulle rampe del Lincoln Memorial “Repubblicani perbene” e Democratici, tutti uniti in un destino ed affratellati dallo stesso obiettivo: “uniamo i nostri sforzi e distruggeremo la pandemia e la Bestia scatenata dall’ex presidente”.
Dopotutto la vice presidente, Kamala Harris, veste un cappotto ed una mise il cui colore (gli anglosassoni lo chiamano plum), è costituito da un mix di blu e rosso, i colori dei due principali partiti politici “amerikani”. Una fusion che esorcizza la divisione nel paese reale.
Il resto del mondo assiste dietro un monitor, per forza di cose; nella pandemia globale si fa strada uno stile di vita comunque innaturale.
Il primo numero è dedicato alla fede ovviamente, ed ecco comparire il reverendo O’Donovan, cattolico di origini irlandesi, come il neo presidente ed il suo più celebre predecessore, lo “sfortunato” JFK.
Il reverendo è anche presidente della Georgetown University, fra le più prestigiose degli Stati Uniti e vicino ai gruppi favorevoli all’aborto, come si può esserlo ovviamente in un paese con ancora un fortissimo retaggio puritano. È anche presidente della Società Teologica Cattolica Americana ed Amministratore Senior del Distretto del Maryland. Non c’è che dire un bel curriculum, potente, in tutti i sensi.
Un elemento è assente però dai media: O’Donovan è anche gesuita, come il Papa, a cui fa riferimento nel ricordare il suo invito a “imparare a sognare insieme...” e cita testualmente:
“Noi da soli vediamo i miraggi, i sogni invece si costruiscono insieme”
Dirlo ai milioni di disoccupati, che stanno lievitando mese dopo mese, sembra un paradosso. Più propriamente un’offesa indicibile. Sono milioni, in crescita esponenziale, ed il lavoro è diventato un miraggio. Tutti insieme vedono il miraggio del lavoro, mentre lo spettro della povertà lo vivono in solitudine invece. Va in contraddizione completa con il pensiero papale della “misericordia”.
Forse il gesuita Usa ha inteso fare una capriola linguistica, inventare una nuova figura retorica... Ma ecco apparire Lady Gaga che fa appunto sognare il pubblico (?) con un’interpretazione dello Star-Spangled Banner (l’inno nazionale USA) seconda solo alla splendida e provocatoria esecuzione di Jimi Hendrix, nel 1969, sul palco di Woodstock, quando il chitarrista che rivoluzionò il suo strumento volle distruggere anche simbolicamente l’America agli occhi del mondo, denunciando a suo modo i crimini di guerra degli USA in terra vietnamita.
Tutto questo ovviamente manca, non può esserci, ma l’esecuzione è tecnicamente perfetta. La colomba della pace in bella vista anche se un po’ sovradimensionata. Qualcosa però colpisce inconsapevolmente l’attenzione, i colori.
Rosso è il colore che rappresenta il sangue, la lotta, da sempre è associato alla classe proletaria, al comunismo e, in una parabola discendente, alla sinistra, al partito democratico in America, ma nell’abbigliamento, in particolare, definisce un ceto ben differente: rosso è stato il colore del vestiario di re, nobili e religiosi.
Il nero invece, se da un lato è considerato assenza di colore, frequenza nulla, allo stesso tempo può essere visto come l’insieme di tutti i colori.
Secondo gli psicologi esprime blocco, negazione, opposizione, protesta. È associato inoltre al potere, e al controllo.
Del vestito della signora Germanotta, rosso con corpetto nero, si è notata l’eleganza, il costo, addirittura qualcuno ha azzardato la bandiera anarchica, se fosse opposizione...
Cambio di registro, pur rimanendo nel campo musicale e dintorni: opposizione o contrasto, quasi una contraddizione è anche far cantare l’inno religioso Amazing Grace ad un vocalist country, Garth Brooks, un tradizionalista per eccellenza vicino all’area rural, quella a cui si è sempre riferito Trump. Ma in un momento di crisi e divisione, ci può stare.
È però assente qualcos’altro, Amazing Grace è un inno religioso, si canta nelle chiese, alle commemorazioni solenni, ma il prete che lo ha scritto era il figlio pentito di un mercante di schiavi e schiavista a sua volta.
Qualcosa nel copione del grande spettacolo deve essere sfuggito di mano, o forse il popolo, per essere seguito ed aiutato, deve passare per un percorso di “perdono” che richiama la tradizione puritana secolare del pentimento e dell’espiazione. Se così è, allora il “paese della libertà” ha un problema: si è liberi solo a certe condizioni.
Il piatto forte “pop” è stato però l’interpretazione di Jennifer Lopez di un medley composto da This Land is Your Land ed America The Beautiful. Non interessa qui la perizia tecnica. Si sorvola sull’osceno abbinamento e sulla scelta di quali strofe cantare del primo pezzo (provare per credere), ma dimenticare ovunque – media, rete, e finestre informative – di citare l’autore di un pezzo politico scritto per gli ultimi di questa terra, vuol dire aver perso definitivamente la memoria o che la censura e l’autocensura hanno passato pericolosamente un limite; un confine di non ritorno.
Woody Guthrie era un sindacalista non professionista, era comunista e girava volontariamente fra i picchetti degli scioperanti durante la Grande Depressione con la sua chitarra, sulla quale aveva scritto: This machine kills fascists (“Questo strumento uccide i fascisti”).
Woody Guthrie divenne volontariamente un Hobo (senzatetto), bevve fino a morire alcolizzato di cirrosi epatica, scrisse decine di bellissime canzoni con testi che sono poesia pura. Militante, ma non solo.
Woody Guthrie ha scritto nel 1940 “This Land is Your Land”, ma il 20 gennaio 2021, durante il giuramento di Joe Biden è meglio non ricordare il suo nome.
Ci si può fidare di questa amministrazione? È implicito: NO. Rischia di sembrare pregiudiziale, probabilmente, ma non è sopportabile.
Questa amministrazione parla di verità, ma non non conosce la sincerità.
Questa amministrazione giura che non dimenticherà nessuno per strada.
Questa amministrazione giura di credere nell’importanza del multilateralismo.
Dietro a ciascuno di questi formidabili intenti c’è l’ombra della messinscena. Non della falsità, non della slealtà, ma della insincerità. Quasi un sinonimo, ma con un’accezione leggermente diversa, che fa la differenza. E che crea diffidenza.
La stessa diffidenza che, secoli addietro, ai nativi pellerossa fece comparare le “giacche blu” ai serpenti con lingua biforcuta. I sodati regalavano coperte, peccato fossero contagiate col virus del vaiolo, per facilitare il genocidio già innescato a livello militare.
“Il presidente di tutti”, come ogni quattro anni ripetono noiosamente tutti i presidenti, al secolo Sleepy Joe, potrebbe dover essere il presidente dei diritti sociali se volesse seguire, come già detto, il predecessore altrettanto cattolico ed irlandese rimasto famoso per essere stato “il presidente dei diritti civili”, JFK. Ma il compito non riuscì neanche a lui, probabilmente per la stessa ragione.
È una questione di cultura.
È una questione di classe.
Proviamo comunque a ripercorrere “il discorso del re”, ma con gli strumenti giusti.
Biden ha pronunciato circa 30 volte la parola “unità”, poi ha posto l’accento sulla “verità” e sottolineato molto l’importanza del ruolo della fede e della religione nella vita parlando di anima, di angeli e di Sant’Agostino.
Ma la “verità” è integrata dalla “sincerità”. La sincerità non è mai stata una prerogativa del popolo americano, è scritto nella Storia. È uno dei gravi handicap dell’America e del suo substrato culturale. Senza sincerità non si costruisce la verità. Forse il reverendo di famiglia dovrebbe fare lezione a Joe ogni giorno, per ricordare la dottrina di Sant’Agostino e non farlo cadere in errore.
Il multilateralismo, anch’esso spesso nominato nel discorso di giuramento, puzza lontano un miglio di ripristino Nato in forma maggiorata, visti anche i chiari di luna in cui versa in questi giorni anche il nostro paese, e le dichiarazioni di Kamala Harris, che difende a spada tratta l’amico di sempre – Israele – che andrà al voto fra due mesi, ma con un Netanyahu più in difficoltà.
Biden potrebbe vedere un qualche cashback di ritorno da diversi paesi, il nostro in prima fila. Il disgelo con l’Iran per ora non sembra fra le sue priorità. Non gli interessa tanto la rivolta in Russia, quanto arginare la Cina; vedremo che fine farà la Via della Seta, che dovrebbe passare anche con l’appoggio italiano.
Ma torniamo al discorso in cui Biden ricorda Washington e Lincoln, come presidenti, e Martin Luther King come leader per i diritti civili.
Subito dopo, a riprova che “l’America” può farcela, elenca quattro fatti storici, in cronologia, che hanno visto gli USA vincenti: la Guerra Civile, la Grande Depressione, la Seconda Guerra Mondiale e l’11 settembre... se questa non è parzialità!
Dove sono la mezza sconfitta di Corea (1953), quella totale e umiliante del Vietnam con la caduta di Saigon (1975), seguita dalle mezze vittorie (o mezze sconfitte?) in Afghanistan, Iraq, Somalia, Libia?
Sembra doversi convincere e allora rincara la dose: “We can make America once again the leading force for good in the world”. Ops... déjà vu.
Cambia il suonatore, non la canzone.
Si può dunque concludere che il “sacro giuramento” effettuato dal “faro del mondo” crea una certa confusione, la giusta dose per poter produrre l’incertezza sulla possibilità di governare in uno stato di “ignoranza relativa”; l’importante è aver trasferito “normalità”, avere rassicurato, poter dire che “è passata ’a nuttata” o, per rimanere nel mondo anglosassone, come diceva Rossella O’Hara in Via col vento, “domani è un altro giorno…”.
Ma poi ricorda che “The world is watching” e riecheggiano nelle orecchie gli slogan durante le cariche della Guardia Nazionale nei confronti dei dimostranti alla Convention democratica di Chicago del 1968, quando quei giovani si rivoltarono all’establishment innescando quello che in Europa è andato sotto il nome di “maggio francese”. I dimostranti gridavano “The whole world is watching”. Chissà cosa risuona nelle sue orecchie.
Se questo è il biglietto da visita dell’Amministrazione Biden, non c’è squadra multirazziale, con quote rosa, che tenga.
Tomasi di Lampedusa fa dire al nipote del principe di Salina, Tancredi “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. E creò l’atteggiamento del “gattopardismo” o “trasformismo”, proprio di chi, avendo fatto parte del ceto dominante o agiato in un precedente regime, si adatta a una nuova situazione politica, sociale o economica, simulando d’esserne promotore o fautore, per poter conservare il proprio potere e i privilegi della propria classe.
Probabilmente anche oltreoceano guardano a noi, per trovare idee; e se Biden ora è il re di quei territori credo che si possa dire affermare ufficialmente che “Il re è nudo”!
Fonte
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