In Italia i contagi da Covid 19 sarebbero stati sottostimati del 50%, per questo l’alto numero dei morti rispetto ai contagiati non torna.
Questa volta a lanciare l’allarme non sono gli avventori del bar sotto casa (quando è aperto, ndr), ma addirittura i servizi di intelligence che hanno inviato un apposito rapporto alla Presidenza del Consiglio.
A riferirlo è Repubblica, secondo cui un dossier dell’intelligence sarebbe stato recapitato al presidente del Consiglio dimissionario, Giuseppe Conte. Secondo il dossier i nuovi positivi giornalieri sarebbero in realtà il 40-50 per cento in più di quelli rilevati ufficialmente. “Il totale dei contagiati è sottostimato a causa del calo del numero dei tamponi avvenuto a metà novembre 2020”, si legge nel documento.
Due sono gli allarmi rilevati degli analisti dell’intelligence. Il primo è che la curva epidemiologica non sta piegando verso il basso o almeno non tanto quanto attestano i bollettini diramati dal ministero della Salute. Il secondo è che i dati al momento sono inattendibili e quindi difficili da analizzare e da usare per prendere misure adeguate di contenimento del virus.
In questo momento, quindi, è impossibile fare un’analisi realistica sulla base dei dati pubblicati – segnalano i servizi di intelligence, invitando il governo alla massima prudenza sulle riaperture. Secondo i servizi abbassare la guardia in questi giorni, “in cui stanno terminando gli effetti benefici delle misure “rosse” imposte sotto Natale”, e soprattutto mentre hanno preso a circolare in maniera importante le variante inglese e brasiliana del Covid-19, “potrebbe portare a una nuova ripresa incontrollata dell’epidemia, difficilmente sostenibile dal sistema ospedaliero, vicino alla soglia di saturazione”.
È difficile sottrarsi alla sensazione che la diffusione di dati attendibili sui contagi sia stata in qualche modo influenzata dalle pressioni di organizzazioni come Confindustria o delle autorità di alcune regioni, affinché si potesse giostrare sui colori (giallo, arancione, rosso) e quindi ridurre chiusure e limitazioni “dannose” per le attività imprenditoriali. Magari si è scelto di accanirsi su settori deboli, piccoli e frammentati come quelle commerciali e della ristorazione piuttosto che sui grossi conglomerati. Una cosa è certa: se non c’è stata una deliberata subalternità ai diktat di Confindustria & Co., c’è stata una approssimazione dettata da superficialità e da pressioni fortissime.
Quanto descritto nel dossier dell’intelligence, tra l’altro, non è una sorpresa. Da tempo ci si interrogava sull’altissima percentuale di decessi da Covid-19 rispetto al numero di contagiati individuati nei dati trasmessi ufficialmente. Una percentuale alta che non trovava paragoni con altri paesi con un indice di vecchiaia della popolazione simile all’Italia come Giappone e Germania.
Ad esempio, già il 7 gennaio il monitoraggio indipendente della Fondazione GIMBE rilevava nella settimana 29 dicembre 2020 – 5 gennaio 2021, rispetto alla precedente, un incremento dei nuovi casi (114.132 vs 90.117) e del rapporto positivi/casi testati (30,4% vs 26,2%). Stabili i casi attualmente positivi (569.161 vs 568.728) e, sul fronte ospedaliero, lievi oscillazioni dei ricoveri con sintomi (23.395 vs 23.662) e delle terapie intensive (2.569 vs 2.549); tornano a crescere i decessi (3.300 vs 3.187).
“A cavallo del nuovo anno – affermava Nino Cartabellotta, Presidente della Fondazione GIMBE – i dati documentano l’inversione della curva dei nuovi casi, in calo da 6 settimane consecutive, e l’incremento percentuale dei casi totali (5,5% vs 4,6%). Numeri sottostimati dalla decisa frenata dell’attività di testing nelle ultime due settimane accompagnata dal netto aumento del rapporto positivi/casi testati che schizza al 30,4% (figura 1). Infatti, dal 23 dicembre al 5 gennaio, rispetto ai quattordici giorni precedenti, il numero dei tamponi totali si è ridotto del 20,9% (-464.284); quello dei casi testati del 22,5% (-208.361), con una media giornaliera simile a quella di fine agosto”.
Il pasticcio statistico ruoterebbe infatti proprio intorno ai tamponi. Secondo quanto scrive Repubblica: nella settimana tra l’11 e il 17 novembre ne sono stati processati un milione e mezzo, il numero più elevato registrato fino ad allora. Da quel momento, però, i test hanno preso a diminuire arrivando agli 868 mila della settimana tra il 23 e il 29 dicembre, salvo poi schizzare a 1,4 milioni dal 13 gennaio in poi per effetto dell’inclusione, nel conteggio, dei tamponi antigenici rapidi. Prima ai fini del computo valevano solo quelli molecolari, poi il ministero della Salute ha ammesso anche gli altri.
“L’introduzione dei test rapidi ha reso impossibile un confronto con le serie storiche passate. Alcune Regioni, inoltre, non fanno distinzione tra il molecolare e il rapido, è ciò ha evidenti ripercussioni sul calcolo di tutti i valori, tra cui il rapporto positivi/tamponi” è scritto nel dossier dell’intelligence, nel quale si sostiene che a questo punto il rapporto va rivisto, scorporando i rapidi e, soprattutto, togliendo quelli fatti per confermare l’avvenuta guarigione. “Sono solo i tamponi di prima diagnosi a fotografare la reale situazione epidemiologica, e a partire da metà novembre abbiamo visto un brusco calo di questa tipologia”. Ad oggi i test di conferma sarebbero il 65 per cento del totale: troppi per non alterare sensibilmente la rappresentazione della curva del contagio.
Proprio questo passaggio, secondo il dossier dei servizi di sicurezza, ha favorito il caos. E questa ipotesi non viene esclusa dallo stesso Istituto Superiore di Sanità. “Questo è possibile. Nei sistemi di sorveglianza spesso c’è una quota che può essere sottostimata dei casi che vengono normalmente diagnosticati e notificati”, ha spiegato questa mattina a Radio Anch’io Paola Stefanelli, direttrice del Reparto Malattie Prevenibili da vaccino dell’Istituto Superiore di Sanità.
La lettera della campagna Datibenecomune, già da novembre chiedeva alle autorità di essere più trasparenti sui dati in base alle quali vengono prese le decisioni e adottate le misure restrittivi anti Covid. “Vediamo di continuo decisioni prese per limitare il contagio sulla base di dati che non sono pubblici: la trasparenza è alla base di ogni democrazia! I cittadini hanno il diritto di conoscere su quali dati e quali analisi si basano le decisioni prese dal governo per le restrizioni dei prossimi DPCM. Da questi dati dipende la nostra vita quotidiana, il nostro lavoro, la nostra salute mentale: vogliamo che siano pubblici! E vogliamo che siano in formato aperto, perché dobbiamo permettere agli scienziati e ai giornalisti di lavorare per bene”.
Un appello rimasto inascoltato. Ed ora a indicarne le conseguenze sono addirittura i servizi di intelligence.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento