È passato meno di un anno dallo
scoppio della pandemia da Covid-19 in Italia. Ad oggi, nonostante i
diversi vaccini messi a punto, siamo ben lontani dal poter parlare della
fine dell’emergenza. Molti settori economici sono tutt’ora interessati
da limitazioni e da vere e proprie chiusure. Alcuni dei servizi
essenziali funzionano ancora a singhiozzo, come i servizi sanitari e la
scuola. I contagi giornalieri sono ancora oltre diecimila in tutto il
Paese e i morti si contano a centinaia ogni giorno. Anche la campagna
vaccinale va a rilento.
In parole povere, il ritorno alla
normalità sembra ancora lontanissimo, per molti aspetti. C’è, però, un
ambito nel quale la normalità potrebbe tornare prima del previsto:
quello della disciplina di bilancio. Il problema è che
non è una buona notizia. Il termine disciplina, infatti, non ha nulla a
che vedere con le presunte virtù che potrebbe evocare. Con disciplina di
bilancio si identifica il rispetto del pareggio tra le entrate e le uscite dello Stato,
un’imposizione che da quasi trenta anni soffoca la crescita economica,
con conseguente aumento della disoccupazione, e che ha portato il Paese
ad affrontare l’emergenza Coronavirus con un sistema sanitario fortemente indebolito. È il binario morto dell’austerità, tanto caro alle classi dominanti e all’Unione Europea,
dal quale solo negli ultimi mesi, per effetto del crollo delle entrate
fiscali e delle (insufficienti) misure tampone per l’economia, si è
temporaneamente deviato. Ma la normalità, intesa come pieno ossequio di
questo paradigma, pare dietro l’angolo.
Tra i portavoce più accesi del necessario ritorno alla normalità non poteva che esserci il senatore Mario Monti, il quale scrive:
“L’Unione Europea e i suoi Stati membri non erano stati mai (n.d.r.:
mai nella storia, si potrebbe dire risalendo nei secoli) alleati
dell’Italia con tanto sostegno e generosità come in questa comune guerra
alla pandemia”. Nella versione di Monti si racconta di una generosità
che commuove ma che si scontra con le considerazioni sulla nostra
presunta incapacità di gestire questi fiumi di denaro. Le Istituzioni
europee “da qualche giorno si chiedono se l’Italia, per la quale avevano
pianto come noi vedendo quei camion militari con le bare di Bergamo,
non sia tornata ad essere, pur nella tragedia di questa guerra, un Paese
semiserio e non del tutto affidabile”. Ovviamente sì, si risponde lo
stesso Monti. Non solo abbiamo vissuto al di sopra delle nostre
possibilità, ma abbiamo speso anche male i soldi. Tralasciando la
miseria umana insita nel tirare in ballo i “morti di Bergamo” per
invitare alla disciplina di bilancio, è facile vedere nelle parole di
Monti un preavviso di quello che sarà il futuro delle politiche
economiche del nostro Paese.
Un messaggio ripreso e, forse, reso ancora più chiaro da Ferruccio De Bortoli sul Corriere della Sera,
in cui il nostro si sorprende di come fosse stato votato l’ultimo
scostamento di bilancio (32 miliardi), sebbene necessario, con una
“insostenibile leggerezza” alludendo neanche troppo velatamente alla
sostenibilità del debito. Ricordandoci, qualora ce ne fosse bisogno, che
il debito “anche nell’era dei tassi d’interesse negativi – e della BCE
che compra i nostri titoli – non scompare d’incanto”. Una premessa
utilizzata per criticare le spese ‘scellerate’ di questo governo che non
pensa alle generazioni future, perché “ogni miliardo buttato oggi è un
investimento negato per le prossime generazioni che carichiamo di
debiti, impoverendole”. La solita storiella per cui, in un mondo costretto dalla scarsità delle risorse,
prima o poi, questo debito dovrà essere risarcito e, dunque, se oggi
spendiamo di più (vivendo al di sopra delle nostre possibilità) domani
dovremo accontentarci di molto meno. Perché il debito pubblico viene
considerato, erroneamente, alla stregua del debito di un privato
cittadino non considerando il fatto che il debito pubblico, a differenza
di quello privato, possa rinnovarsi continuamente. Tanto che poi lo
stesso fine pensatore De Bortoli conclude dicendo che nonostante tutto
“i risparmiatori italiani continuano fortunatamente e giustamente a
sottoscrivere titoli pubblici, credendo nella parola dello Stato, che
mai è venuta meno”. Evidente come, attraverso un sofismo riuscito
piuttosto male, il messaggio di De Bortoli sia quello di tornare ad
essere più prudenti a spendere, ancora meglio a risparmiare prima che
qualcuno si stufi di finanziare, spinto da un atto di fede e generosità,
il debito italiano.
Ancora più preoccupante, però, è il monito di Bruxelles.
Se l’Italia vuole accedere ai soldi del Recovery Fund, il suo
programma, come quello di tutti i Paesi membri, sarà costretta a fare
quegli interventi richiesti dalle raccomandazioni UE 2019 e 2020.
L’Italia, in particolare, come gli altri Paesi a ‘elevato’ debito
pubblico, deve spiegare come il suo piano contribuirà ad affrontare i
suoi squilibri macroeconomici. Non solo semplificazioni amministrative e
riforma della giustizia, ma anche l’eliminazione di Quota 100 e, come
scrive sibillinamente Repubblica, un “miglior ambiente per le imprese”
(leggasi: mano libera sulla regolamentazione dei rapporti di lavoro, da
rendere sempre più flessibili, in cambio di presunti maggiori
investimenti). Una conferma di come, dietro alla presunta generosità dei fondi del Recovery, ci sia la polpetta avvelenata delle riforme volute dal capitale e dei tagli di spesa.
È facile individuare uno schema comune nelle esternazioni che abbiamo riportato. La pandemia ha richiesto un ammontare di spesa pubblica eccezionale,
senza il quale sarebbe stato impossibile garantire il funzionamento
minimo del sistema di protezione sociale. Davanti ad attività economiche
fortemente limitate o addirittura azzerate, non sostenere
economicamente una fetta consistente della popolazione avrebbe portato a
un asperrimo conflitto sociale, con conseguenze facilmente
immaginabili.
I governi, compreso quello italiano, sono stati sostanzialmente
costretti a erogare risorse nell’economia e l’Unione Europea ha dovuto
accettare questo eccezionale sforamento dei vincoli impressi nei
Trattati.
Il messaggio che emerge dai discorsi che abbiamo letto è il seguente: occorre tornare a stringere la cinghia.
Bisogna fare le riforme e bisogna riportare la spesa pubblica sul suo
‘naturale’ sentiero fatto di tetti al deficit e al debito. Minaccioso,
all’orizzonte si affaccia un ulteriore pericolo. Infatti, il ritorno
all’austerità potrebbe offrire, aggiungiamo noi, l’occasione per spingersi ancora un po’ più in là verso
la normalizzazione delle politiche economiche, andando a incidere su
voci di spesa che erano già presenti prima della pandemia, ma che oggi,
per compensare l’espansione degli ultimi dieci mesi, potrebbero essere
facili bersagli ai fini di un ridimensionamento.
Ecco, dunque, che viene spontaneo
chiedersi quali siano gli obiettivi di queste riforme e in che modo si
voglia incidere sulla spesa pubblica. In altri termini, cosa dobbiamo
aspettarci da questo ritorno alla normalità? Ancora una volta, nulla di
buono. Certo, non è facile dire da dove inizieranno i tagli e le
riforme. Sembrerebbe assurdo ragionare in tali termini, in quanto ci
troviamo già in una situazione disastrata che l’epidemia ha reso ancor
più evidente attraverso la fragilità del sistema scolastico e del
sistema sanitario. Ciò potrebbe farci dimenticare che gli appetiti dei
padroni non sono ancora appagati pienamente ma non lo sono mai. Del
resto, i fronti aperti nella lotta di classe – che loro conducono contro
di noi – sono ancora molteplici e possiamo farci un’idea al riguardo
rileggendo con attenzione non solo le cronache e le dichiarazioni di
questi giorni, ma anche quelle dei mesi scorsi.
Tra gli obiettivi preferiti del partito trasversale del controllo della spesa, possiamo sicuramente annoverare il vituperato Reddito di Cittadinanza.
Preso come esempio del “debito cattivo” per antonomasia (contrapposto
al “debito buono” che, bontà sua, piace pure a Mario Draghi), negli
ultimi mesi il reddito di cittadinanza è stato uno degli strumenti più
bersagliati dalle critiche. A volte queste critiche sono state “di
principio” e particolarmente disgustose: come si possono spendere così
tanti soldi per finanziare chi passa le sue giornate sul divano,
soprattutto ora che molti italiani fanno fatica a guadagnarsi da vivere?
Altre volte si è trattato di sottolineare in maniera caricaturale le
inevitabili disfunzioni di uno strumento che interessa all’incirca 1,2
milioni di nuclei familiari e 2,9 milioni di persone.
Il Reddito di Cittadinanza, comunque,
pur essendo uno dei principali obiettivi dei tagliatori di spesa
pubblica, ha avuto buona compagnia. Un bersaglio grosso, enorme, è stato
rappresentato dai lavoratori del settore pubblico. E
non si tratta della solita battaglia, mai sopita, dei tempi normali
contro un settore dipinto come un covo di inutili parassiti, che ha già
prodotto i suoi frutti. Si tratta di una ancora più meschina e
artificiosa contrapposizione tra lavoratori del settore pubblico e
lavoratori privati. Innumerevoli sono state le richieste di “contributi
di solidarietà” a carico dei dipendenti pubblici, visti come i
“fortunati” e i “privilegiati” che hanno attraversato e stanno
attraversando la crisi senza alcun problema economico e che, per questa
ragione, dovrebbero versare una parte dei propri stipendi ai lavoratori
più colpiti. Proprio negli ultimissimi giorni, Carlo Cottarelli, per gli
amici “mister forbici”, ha fatto sentire la sua voce per raccontarci come
le retribuzioni dei lavoratori pubblici salgano non solo più
velocemente di quelle dei lavoratori privati, ma addirittura, udite
udite, dell’inflazione. Un grido d’allarme che, ahinoi, non va nella
direzione di creare le condizioni per far accelerare le retribuzioni nel
settore privato, che da tempo restano indietro rispetto alla crescita
della produttività, bensì in quella di demonizzare il settore pubblico,
fonte di “sprechi” e “privilegi”.
Infine, il boccone più ghiotto: le pensioni.
Abbiamo già visto che l’eliminazione di Quota 100 (che, ricordiamo,
andrà a scadenza alla fine del 2021) è tra gli obiettivi dell’Unione
Europea. Deve, però, spaventare ancora di più il fatto che, tra le
condizionalità ci sia, in buona sostanza, il ritorno al regime
precedente a Quota 100. Nelle raccomandazioni del 2019 (pp.
5-6), il Consiglio dell’Unione Europea invitava l’Italia ad attuare
pienamente “le già previste riforme pensionistiche volte a ridurre le
passività implicite derivanti dall’invecchiamento della popolazione”. In
altri termini, non c’è alcuno spazio per soluzioni di compromesso, come
la pur punitiva Quota 102, pensate per ridurre l’impatto dello “scalone”
che si profila all’orizzonte alla fine del 2021. Bisogna attuare
pienamente la riforma Fornero e quelle che l’hanno preceduta, con tanto
di adeguamenti automatici (ovviamente solo in aumento) dell’età
pensionabile.
Gli orizzonti sono foschi e gli indizi di un ritorno in grande stile della più strenua austerità numerosi
e insistenti. I mesi a venire, al di là dei destini politici del
governo in carica, saranno mesi di dure pressioni da parte di coloro che
ad ogni costo vorrebbero imprimere una nuova accelerazione a quei
processi di smantellamento dello stato sociale, del diritto del lavoro e
dell’economia pubblica che l’emergenza Covid aveva congelato per
qualche mese. Uno stato sociale sempre più ridotto, vessato dal capitale
attraverso l’imposizione di un regime di austerità fiscale. Uno stato
sociale che oramai è la parodia di se stesso, come lo dimostrano le
stesse misure di cui abbiamo appena discusso: il Reddito di Cittadinanza
era stato presentato come l’abolizione della povertà e Quota 100 come
il superamento dell’odiosa riforma Fornero del sistema pensionistico.
Non è neanche il caso di sottolineare che entrambi i provvedimenti, il
primo per l’accento sulle politiche attive del lavoro e per le poche
risorse assegnate e la seconda per la sua portata temporale
limitata, non cambiano di una virgola il paradigma dell’austerità, la
deregolamentazione dei rapporti di lavoro e la demolizione del sistema
pensionistico operata a decorrere dal 1995. Ciononostante, pur essendo
poco più che una briciola di elemosina, nel deserto dell’austerità
fiscale essi rappresentano un facile bersaglio del capitale, sempre alla
ricerca di risorse da destinare al contenimento del deficit.
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