Salgono al Quirinale, con passo stanco, ognuno a recitare la parte che s’è ritagliato. La crisi di governo si snoda lungo il percorso istituzionale bruciando ogni giorno tutte le ipotesi che non potevano stare in piedi.
È già sparito dai radar Giuseppe Conte, che pure l’ex maggioranza M5S-Pd-LeU giura di sostenere fino in fondo. O quasi...
Il neoconsigliere della monarchia saudita – Matteo Renzi – si diverte ogni giorno a candidare un premier diverso, mentre fa sermoni (in Italia) sullo squallore della compravendita sui “responsabili” e (a Riyadh) su come si può “narrare” che ora lo sceicco stia marciando sulla via della “democrazia”, pur mantenendo in piedi una propria politica estera tramite l’Isis o Al Qaeda.
La destra fa la destra, e andrà a dire che bisogna andare alle urne, cosa che tutti sanno impossibile. Non tanto perché, con i chiari di luna sulla pandemia e la scarsità dei vaccini, sarebbe pericoloso far muovere oltre 46 milioni di persone per farle poi “assembrare” davanti e dentro i seggi. Più ostativa ancora è la data in cui l’Unione Europea si attende la copia definitiva del Recovery Plan (aprile, massimo maggio).
Andare a votare significa bloccare l’elaborazione del piano, o lasciarlo tracciare al governo dimissionario. E ritrovarselo poi – chiunque vinca – come un obbligo inopportuno e sgradito.
Senza neanche dover ricordare quel che tutti i parlamentari sanno: che quel piano, in realtà e nella forma definitiva, verrà scritto a Bruxelles e Francoforte, non certo a Palazzo Chigi.
Il più consapevole di tutti è Mattarella, alla sua ultima regia (da luglio scatta il “semestre bianco”, periodo di fine mandato in cui non può sciogliere le Camere). Darà il tempo necessario perché ogni illusione cada, perché ognuno reciti la sua parte, e poi sfornerà la soluzione che tutti – tutti – sanno essere già sul piatto da settimane e mesi.
Gestire gli oltre 200 miliardi di prestiti della Ue significa metter mano a un ridisegno della formazione sociale italiana. Un programma complesso, non disegnato in loco, la cui realizzazione non può essere affidata a cordate raccogliticce, maggioranze occasionali, ammucchiate clientelari sempre fameliche.
Come Alessandro a Gordio, i nodi dei veti reciproci e delle miserie parlamentari andranno recisi con un colpo di spada, non con l’ennesima mediazione al ribasso. E ha già un nome: “governo di salvezza nazionale”.
Tutti lo sanno e tutti lo nominano (anche Conte, nel suo speranzoso messaggio d’addio), sperando di farne in qualche modo parte e sapendo di doverlo in ogni caso votare.
Ma gli esecutori di un programma deciso dalle tecnoburocrazie europee debbono esser scelti tra gente “fidata”, che non scenda a compromessi “eccessivi” (qualcuno sì, è inevitabile) con interessi insignificanti, conservativi, di pura sopravvivenza.
Stiamo parlando di imprese e settori, di industria e commercio. Per lavoratori, pensionati, studenti, disoccupati, ecc, ci sarà solo la mannaia.
Ma lo “sfoltimento” degli “interessi legittimi” riguarderà anche buona parte dell’antico “blocco sociale dominante”, quello eternamente al potere dal dopoguerra ad oggi.
Come segnalava qualche giorno fa Guido Salerno Aletta, in un editoriale su Teleborsa, “Il vero rischio [del Recovery Plan, ndr] è di creare in Italia un sistema parallelo di decisioni politiche ed amministrative che rispondono alle esigenze di Bruxelles e di mandare al macero tutto il resto, considerato inefficiente, corrotto, inaffidabile. Ci sarebbe una sorta di ‘Best Italy’ sotto controllo europeo, ed una ‘Bad Italy’. La prima avrebbe la legittimazione di Bruxelles, perché lavorerebbe sotto la sua diretta vigilanza, la seconda rappresenterebbe il vecchio mondo italiano che non vale la pena di riformare”.
E se questo deve avvenire, servono funzionari già istruiti alla bisogna, “tecnici” con qualche decennio di esperienza nelle istituzioni economiche sovranazionali. Perlomeno nei ministeri economici.
Poi, certo, qualche strapuntino di rappresentanza si potrà sempre concedere, in cambio di un sostegno cieco, pronto ed assoluto ad ogni provvedimento.
Ma nulla di più che una foglia di fico (no, il presidente della Camera non è tra i papabili) per abbellire una macchina da guerra contro lavoratori e tutte le altre figure popolari.
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