Ci sono notizie che reclamano una spiegazione, perché descrivono in modo esemplare come funziona questa parte del mondo, quella in cui viviamo.
E sappiamo bene che tanti compagni, di fronte alla complessità dei problemi, preferiscono rifugiarsi nelle piccole vecchie certezze. Anche se quelle descrivevano un mondo che non esiste più. Magari da 30 anni.
Abbiamo perciò tradotto un articolo del quotidiano El Pais, gemello spagnolo della nostrana Repubblica (almeno fino a quando questa non è finita a libro paga della famiglia Agnelli), ossia di quel “centrosinistra dell’establishment” che definisce il proprio perimetro identitario nel campo “atlantico, europeista e dell’economia di mercato”.
Parla di una cosa semplice, che ognuno ritiene risolvibile in ambito puramente nazionale: la riforma del mercato del lavoro. Ossia quell’ambito in Italia difeso fino ad un certo punto dallo Statuto dei lavoratori, distrutto nell’arco di 30 anni – appunto – dai governi di centrodestra e centrosinistra, senza distinzioni, fino alla rasoiata finale di Matteo Renzi, che abolì l’art. 18 consegnando tutti i lavoratori dipendenti al ricatto delle aziende.
Si capisce, dall’articolo, che in Spagna la situazione è abbastanza simile, “grazie” a una “riforma” realizzata dagli ultimi governi del Partito Popolare (PP), ossia dagli eredi diretti del franchismo in “regime democratico”.
Si capisce anche che i due partiti attualmente al governo – quello socialista guidato da Pedro Sanchez e Unidos Podemos, guidato da Pablo Iglesias – avevano vinto le ultime elezioni anche promettendo di abolire quella “riforma”.
Ma tra promettere e fare ci sono tanti ostacoli. Il primo è la ministra dell’economia, Nadia Calvino, fermamente contraria a ritoccare il quadro normativo precedente. E viene da chiedersi come mai sia stata nominata – o da chi sia stata imposta – in quel ruolo, visto che non aveva mai fatto mistero di questa sua contrarietà.
Ciò nonostante, qualcosina “di sinistra” era stato infilato nel testo del nuovo governo (una riduzione dei tipi di contratto precario legali, una più rigida disciplina delle “causalità” ammesse per i contratti a tempo determinato, incentivi per promuovere le assunzioni a tempo indeterminato come quelle “normali”, ecc.).
Piccole cose, quasi identiche al “decreto dignità” voluto dai grillini all’esordio, che non cambiano moltissimo. Non l’abolizione promessa, ma un accenno in quella direzione.
Si capiscono anche le pressioni che hanno investito questo governo “eccentrico” rispetto alla media europea (in genere centrista).
Ma, volendo essere buoni, potremmo dire che “meglio meno che niente” (come sanno i nostri lettori, in realtà odiamo il “meno peggio” come il peggiore dei mali...).
Il problema è che anche questo poco, affidato al testo di una proposta di legge, è stato mandato... all’esame dell’Unione Europea prima ancora che alle parti sociali (i sindacati, in soldoni).
Il che appare intanto decisamente fuori luogo, ma soltanto a chi ancora non ha capito come funziona e cosa fa questa “istituzione sovranazionale” che asserisce di lavorare per il “bene comune dell’Europa”.
In molti sono ancora convinti che la UE sia, sì, un po’ rompiballe per quanto riguarda il bilancio e il debito pubblici degli Stati; ma che, se si resta all’interno dei saldi di spesa indicati, poi ogni paese è abbastanza libero di decidere come spendere quel che è consentito, quali regole stabilire su vari temi, tra cui ovviamente anche quelle del “mercato del lavoro”. Sono convinti, ma sbagliano. Guardano, ma non vedono.
Già nelle scorse settimane avevamo segnalato come la UE, in vista del tourbillon del Recovery Fund, avesse chiesto alla Spagna di “riformare” (ovviamente in peggio) le pensioni. Altra mazzata per chi sognava che quei soldi servissero anche a far star meglio chi ha poco.
Dunque la brutale realtà è che l’Unione Europea pretende tassativamente di esaminare/approvare qualsiasi ipotesi regolativa delle relazioni sociali, quindi anche del mercato del lavoro – tutto ciò che riguarda i rapporti tra lavoratori dipendenti e imprenditori – prima che diventi legge.
Al contrario di quanto recita l’ideologia del “libero mercato” (secondo cui prezzo e condizioni del lavoro sarebbero regolati solo dal rapporto domanda-offerta, seppur intermediato collettivamente da Confindustria e sindacato), la UE decide quali sono i rapporti salariali e normativi tra ogni singolo lavoratore europeo e i rispettivi datori di lavoro. Naturalmente a favore dei secondi, ci mancherebbe.
Questo comportamento, va da sé, ha una logica soltanto se esiste uno schema fondamentale che prevede identiche legislazioni nazionali sui comparti ritenuti decisivi per l’economia continentale. Uno schema in cui il lavoro – i lavoratori dipendenti – “godono” di bassi salari, nessuna protezione dai licenziamenti, pochi o meglio nessun diritto, scarsa previdenza sociale (pensioni, sussidi, ecc.). Tutto a maggior gloria e profitto delle imprese.
In pratica, la UE dimostra di essere un organismo di classe di dimensioni sovranazionali. Niente a che vedere con la pretesa contrapposizione ideologica tra “nazionalismo” e “internazionalismo europeista”. Stiamo parlando di un potere continentale che pretende di imporre ovunque, su un territorio che contiene quasi mezzo miliardo di persone, un sistema regolativo tra lavoratori e imprese totalmente a favore di queste ultime.
E le pensioni? Come spiega El Pais, su questo il povero governo “di sinistra” non ha trovato una soluzione unitaria. I socialisti erano pronti a “fare la loro parte”, come preteso da Bruxelles; Podemos ha stoppato la mossa, per ora, ma è chiaro che la sua posizione diventa problematica (per ora i franchisti del PP non sono disposti a votare insieme ai socialisti).
Prevedibile, insomma, quel terribile percorso già fatto dai nostri grillini in due anni e mezzo di governo: seppellite le promesse (su reddito di cittadinanza e altro), per restare al governo. E infine estromessi lo stesso (se va avanti, come sembra, lo schiacciasassi del “governo di salvezza nazionale”, a guida direttamente europea: Cottarelli o Draghi, insomma...).
Oppure rompere e venir accusati di “aver rimandato al governo la destra”.
E sappiamo bene che tanti compagni, di fronte alla complessità dei problemi, preferiscono rifugiarsi nelle piccole vecchie certezze. Anche se quelle descrivevano un mondo che non esiste più. Magari da 30 anni.
Abbiamo perciò tradotto un articolo del quotidiano El Pais, gemello spagnolo della nostrana Repubblica (almeno fino a quando questa non è finita a libro paga della famiglia Agnelli), ossia di quel “centrosinistra dell’establishment” che definisce il proprio perimetro identitario nel campo “atlantico, europeista e dell’economia di mercato”.
Parla di una cosa semplice, che ognuno ritiene risolvibile in ambito puramente nazionale: la riforma del mercato del lavoro. Ossia quell’ambito in Italia difeso fino ad un certo punto dallo Statuto dei lavoratori, distrutto nell’arco di 30 anni – appunto – dai governi di centrodestra e centrosinistra, senza distinzioni, fino alla rasoiata finale di Matteo Renzi, che abolì l’art. 18 consegnando tutti i lavoratori dipendenti al ricatto delle aziende.
Si capisce, dall’articolo, che in Spagna la situazione è abbastanza simile, “grazie” a una “riforma” realizzata dagli ultimi governi del Partito Popolare (PP), ossia dagli eredi diretti del franchismo in “regime democratico”.
Si capisce anche che i due partiti attualmente al governo – quello socialista guidato da Pedro Sanchez e Unidos Podemos, guidato da Pablo Iglesias – avevano vinto le ultime elezioni anche promettendo di abolire quella “riforma”.
Ma tra promettere e fare ci sono tanti ostacoli. Il primo è la ministra dell’economia, Nadia Calvino, fermamente contraria a ritoccare il quadro normativo precedente. E viene da chiedersi come mai sia stata nominata – o da chi sia stata imposta – in quel ruolo, visto che non aveva mai fatto mistero di questa sua contrarietà.
Ciò nonostante, qualcosina “di sinistra” era stato infilato nel testo del nuovo governo (una riduzione dei tipi di contratto precario legali, una più rigida disciplina delle “causalità” ammesse per i contratti a tempo determinato, incentivi per promuovere le assunzioni a tempo indeterminato come quelle “normali”, ecc.).
Piccole cose, quasi identiche al “decreto dignità” voluto dai grillini all’esordio, che non cambiano moltissimo. Non l’abolizione promessa, ma un accenno in quella direzione.
Si capiscono anche le pressioni che hanno investito questo governo “eccentrico” rispetto alla media europea (in genere centrista).
Ma, volendo essere buoni, potremmo dire che “meglio meno che niente” (come sanno i nostri lettori, in realtà odiamo il “meno peggio” come il peggiore dei mali...).
Il problema è che anche questo poco, affidato al testo di una proposta di legge, è stato mandato... all’esame dell’Unione Europea prima ancora che alle parti sociali (i sindacati, in soldoni).
Il che appare intanto decisamente fuori luogo, ma soltanto a chi ancora non ha capito come funziona e cosa fa questa “istituzione sovranazionale” che asserisce di lavorare per il “bene comune dell’Europa”.
In molti sono ancora convinti che la UE sia, sì, un po’ rompiballe per quanto riguarda il bilancio e il debito pubblici degli Stati; ma che, se si resta all’interno dei saldi di spesa indicati, poi ogni paese è abbastanza libero di decidere come spendere quel che è consentito, quali regole stabilire su vari temi, tra cui ovviamente anche quelle del “mercato del lavoro”. Sono convinti, ma sbagliano. Guardano, ma non vedono.
Già nelle scorse settimane avevamo segnalato come la UE, in vista del tourbillon del Recovery Fund, avesse chiesto alla Spagna di “riformare” (ovviamente in peggio) le pensioni. Altra mazzata per chi sognava che quei soldi servissero anche a far star meglio chi ha poco.
Dunque la brutale realtà è che l’Unione Europea pretende tassativamente di esaminare/approvare qualsiasi ipotesi regolativa delle relazioni sociali, quindi anche del mercato del lavoro – tutto ciò che riguarda i rapporti tra lavoratori dipendenti e imprenditori – prima che diventi legge.
Al contrario di quanto recita l’ideologia del “libero mercato” (secondo cui prezzo e condizioni del lavoro sarebbero regolati solo dal rapporto domanda-offerta, seppur intermediato collettivamente da Confindustria e sindacato), la UE decide quali sono i rapporti salariali e normativi tra ogni singolo lavoratore europeo e i rispettivi datori di lavoro. Naturalmente a favore dei secondi, ci mancherebbe.
Questo comportamento, va da sé, ha una logica soltanto se esiste uno schema fondamentale che prevede identiche legislazioni nazionali sui comparti ritenuti decisivi per l’economia continentale. Uno schema in cui il lavoro – i lavoratori dipendenti – “godono” di bassi salari, nessuna protezione dai licenziamenti, pochi o meglio nessun diritto, scarsa previdenza sociale (pensioni, sussidi, ecc.). Tutto a maggior gloria e profitto delle imprese.
In pratica, la UE dimostra di essere un organismo di classe di dimensioni sovranazionali. Niente a che vedere con la pretesa contrapposizione ideologica tra “nazionalismo” e “internazionalismo europeista”. Stiamo parlando di un potere continentale che pretende di imporre ovunque, su un territorio che contiene quasi mezzo miliardo di persone, un sistema regolativo tra lavoratori e imprese totalmente a favore di queste ultime.
E le pensioni? Come spiega El Pais, su questo il povero governo “di sinistra” non ha trovato una soluzione unitaria. I socialisti erano pronti a “fare la loro parte”, come preteso da Bruxelles; Podemos ha stoppato la mossa, per ora, ma è chiaro che la sua posizione diventa problematica (per ora i franchisti del PP non sono disposti a votare insieme ai socialisti).
Prevedibile, insomma, quel terribile percorso già fatto dai nostri grillini in due anni e mezzo di governo: seppellite le promesse (su reddito di cittadinanza e altro), per restare al governo. E infine estromessi lo stesso (se va avanti, come sembra, lo schiacciasassi del “governo di salvezza nazionale”, a guida direttamente europea: Cottarelli o Draghi, insomma...).
Oppure rompere e venir accusati di “aver rimandato al governo la destra”.
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Il governo invia a Bruxelles la riforma del lavoro del patto di coalizione
Montero dice che il controverso aumento di 35 anni non fa più parte della riforma pensionistica inviata alla Commissione
I due partiti del governo di coalizione, il PSOE e Podemos Unidos, hanno raggiunto un accordo sul documento che è stato inviato ieri a Bruxelles con i loro piani in materia di lavoro, che comprende le linee generali dell’accordo di governo raggiunto da queste due parti nel 2019, poco prima dell’investitura di Pedro Sánchez, secondo fonti dell’esecutivo che conoscono il documento finale.
Anche le fonti delle parti sociali sottolineano che il documento va in questa direzione.
Alcuni elementi chiave di questo accordo governativo, come il riordino dei tipi di contratto e il rafforzamento della causalità per i contratti temporanei, per incentivare l’assunzione a tempo indeterminato come forma abituale, sarà in questo testo, secondo queste fonti.
È inclusa anche l’idea di rafforzare la contrattazione collettiva, che è stata indebolita dalla riforma del PP. E si solleva la possibilità di recuperare l’ultra-attività degli accordi (il che significa che se non c’è accordo nella negoziazione si estende l’accordo attuale, cosa che di solito favorisce i lavoratori), l’equilibrio tra accordi aziendali e settoriali (la riforma del PP ha messo al primo posto gli accordi aziendali) e la necessità di negoziare tra l’azienda e i lavoratori per qualsiasi modifica sostanziale, come la diminuzione del salario, cosa che è fondamentale in periodi di crisi come questo.
Queste sono tutte le questioni centrali che sono state dettagliate nell’accordo di governo, e che implicano una svolta rispetto alla riforma del PP, anche se il testo inviato a Bruxelles è più generico di quello concordato nel dicembre 2019, perché il nuovo documento è il risultato di un lungo negoziato tra i due settori della coalizione.
La portavoce del ministro, María Jesús Montero, ha confermato in una conferenza stampa che il testo è già stato inviato e che include le linee generali della riforma del lavoro che era nell’accordo di governo “e che il presidente Sánchez ha sollevato nel suo discorso inaugurale“. Cioè, dopo mesi di tensione interna, non si torna indietro con la riforma del lavoro.
L’Esecutivo prevede di annunciare ufficialmente questo pomeriggio alle parti sociali le linee principali del documento che ha inviato a Bruxelles, ma alcune di esse circolano già all’interno del Governo e tra i sindacati e i datori di lavoro.
Si risolve così una lunga disputa interna all’Esecutivo, in cui a un certo punto sembrava che il PSOE stesse rinviando senza data la riforma del lavoro che aveva concordato con Unidos Podemos. Per il momento, questo è solo un testo di intenzioni, e la forma concreta dovrà essere dettagliata nelle proposte legislative specifiche, pronte per essere portate al Congresso, e che saranno prima discusse nel “dialogo sociale”. Ma l’accordo politico su questa delicata questione allenta la tensione tra il PSOE e Podemos.
Il Governo si sta lasciando alle spalle l’eterno dibattito sull’abrogazione o meno della riforma del lavoro del PP del 2012, che ha scatenato intense polemiche tra i due settori dell’Esecutivo.
La tensione ha raggiunto il suo apice nel maggio 2020, quando il gruppo socialista ha fatto un patto con Bildu per abrogare la riforma, un accordo che è stato finalmente rettificato dopo le pressioni sia dei datori di lavoro che della ministro dell’economia e dell’impresa, Nadia Calviño, che ha sempre respinto l’idea di abrogare la riforma del PP.
L’accordo sul testo da inviare a Bruxelles non si concentra più su queste questioni nominaliste ma sul contenuto delle riforme, secondo fonti dell’Esecutivo e degli agenti sociali, ed è qui che praticamente tutte le questioni dell’accordo di governo che parlavano di “uno statuto dei lavoratori nel XXI secolo” vengono recuperate.
Anche nel documento saranno presenti questioni delicate come il subappalto e i suoi abusi, la regolamentazione dei rider, o la revisione dei bonus di assunzione e delle politiche attive per l’occupazione, molto criticate per la loro inefficacia.
Inoltre, ci sarà la questione di incorporare l’ERTE come formula alternativa al licenziamento, una questione che è già stata concordata all’interno del governo e con le parti sociali, e che mira ad evitare che le imprese si adattino con i licenziamenti ad ogni crisi, cosa che accade molto più drammaticamente in Spagna che in altri paesi europei.
Non si parlerà più di abrogazione, parola che ha scatenato tutte le tensioni, ma si parlerà di “riforme” che toccano gli “elementi centrali” di questo testo del PP 2012.
In realtà, l’Esecutivo aveva già incluso questa riforma del lavoro nel cosiddetto piano regolatore, cioè l’elenco delle iniziative legislative previste approvate dal Consiglio dei ministri. Prima che scoppiasse la pandemia, erano già iniziati i negoziati con le parti sociali su aspetti essenziali di questa riforma.
Nel documento da inviare a Bruxelles, che è particolarmente inerente a questo tema, tutte queste riforme saranno giustificate dalla necessità di toccare la legislazione del lavoro per porre fine alla dualità del mercato spagnolo, dove vivono due mondi, quello dei lavoratori a tempo indeterminato con buone condizioni e quello dei lavoratori temporanei e precari con realtà terribili.
Questo è il grande problema del mercato del lavoro spagnolo che viene sempre denunciato da Bruxelles.
Più difficile l’accordo sulla riforma delle pensioni.
Sembra molto più difficile raggiungere un accordo sul documento sulle pensioni, che è già stato inviato a Bruxelles e che è di particolare interesse per la Commissione Europea. La decisione del Partito socialista di includere tra le promesse alla Commissione Europea l’estensione degli anni per il calcolo della pensione da 25 a 35 ha rotto la trattativa interna. Da quando il Ministro della Sicurezza Sociale, José Luis Escrivá, ha inviato questa proposta a tutti i ministeri economici dell’Esecutivo, in quanto parte della commissione delegata degli affari economici, la controversia interna non ha smesso di crescere.
Il partito socialista cercava una formula per placare i sindacati, che già minacciano di mobilitarsi. Sebbene il documento non sia ancora noto, e la segretezza del Governo in questa materia sia totale, la portavoce del ministro María Jesús Montero, in risposta a una domanda specifica, ha fatto notare che l’ultima versione inviata a Bruxelles “non contiene alcuna alterazione di ciò che esiste attualmente” sugli anni di calcolo, cioè rimarrebbe negli attuali 25, che già significava un aumento rispetto ai 15 precedenti.
Se Escrivá ha finalmente deciso di eliminare dal testo questa controversa questione, ciò faciliterebbe le trattative interne al governo e anche il rapporto con i sindacati, che sono totalmente contrari a questa iniziativa; ma complicherebbe le trattative con Bruxelles, che chiedevano una formula per compensare l’aumento della spesa per le pensioni dovuto ad altri fattori.
Nelle ultime settimane era diventato molto chiaro che il PSOE non ha un sostegno sufficiente in Parlamento per approvare una tale riforma, non solo a causa dell’opposizione di Podemos, ma anche di molti altri gruppi, perché non può contare sul sostegno del PP. Le cose, per quanto riguarda una complessa trattativa futura, sono quindi completamente in aria.
Il governo sta cercando di evitare una rottura con i sindacati ed è per questo che ha organizzato oggi un incontro per spiegare loro le riforme che promette a Bruxelles e per cercare di dissipare la sfiducia che percepisce nelle parti sociali.
In ogni caso, i documenti inviati a Bruxelles sono solo alcune linee basilari. La vera battaglia all’interno dell’Esecutivo e nel dialogo sociale arriverà quando tutte queste riforme arriveranno in Parlamento per diventare effettivamente testi giuridici e non compromessi su un documento senza una grande validità giuridica, ma con un forte contenuto politico.
Fonte
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