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31/07/2021

I segreti di Brokeback Mountain (2005) di Ang Lee - Minirece

Greenpass, nuovi confini e le frontiere della paura. Contributo per un ragionamento collettivo

di Deriva

Dall’inizio della pandemia non ho mai scritto su blog, né uso i social, né ero dell’idea che fosse utile l’allarmismo dell’emergenza securitaria iniziale quando non si sapeva cosa stava realmente accadendo. Sono una scienziata sociale, non un medico, quindi mi sono attenuta a ciò che so fare: osservare, non esprimere parole avventate, ma continuare a osservare e scrivere. E però ora, dopo 16 mesi dall’inizio di questa pandemia (non sono due anni, mi dispiace, ma solo 16 mesi. e la deformazione della percezione del tempo che noto attorno a me è un primo elemento che trovo allarmante), dopo 16 mesi dall’inizio della pandemia, ecco che ora sono preoccupata.

Sono preoccupata del silenzio, della totale assenza di dibattito, della mancanza totale di spazi di discussione cui ci siamo abituati e di cui non sembra vediamo più gli effetti deleteri. Sono preoccupata dell’amnesia totale che vedo attorno a me: non ci ricordiamo più cosa dicevamo solo 12 mesi fa, quando da tante e tante parti leggevo non vogliamo tornare a quello che c’era prima, perché quello che c’era prima era il problema. Sembra che non riusciamo a imparare dalla storia, e che non siamo in grado di vedere la differenza che c’è, oggi come nel 1969, nel 1980 o nel 2001, fra incidente e strage, tra incidente accidentale, e concorso in strage.

Certo, c’è un virus e questo non fa bene a nessuno e non va sottovalutato. Ma come dimenticare che il grosso numero di morti non lo ha provocato il virus da solo, bensì la gestione folle che già 16 mesi fa metteva l’economia davanti alla salute pubblica? Come dimenticare la Val Seriana e la Val Brembana nel bergamasco, sacrificate per il PIL della Lombardia che non doveva fermarsi? Come non vedere la differenza di responsabilità tra l’incidente (accidentale o meno che sia) del virus, e la strage provocata dei morti sul lavoro, o nelle RSA (Confindustria e Oms e governi vari tutti responsabili)?

I punti sono tanti, che non avendo più voluto/potuto discutere, andiamo perdendo. Proverò a nominarne alcuni (senza pretese di esaustività):

– La paura è al centro di tutte le reazioni e discorsi sul Covid, e l’incapacità di parlare e fare i conti con la paura (e con la morte, che è parte della vita e non sua eccezione) è certamente il punto Uno.

– Porre la questione in termini di vaccino si/no è porre malissimo la questione. La hubris umana ha un limite. Benissimo che i vaccini proteggano e tutelino al massimo le persone più fragili ed esposte agli effetti nefasti del Covid. Altra cosa è credere che il vaccino possa sconfiggere una pandemia che è globale, in cui i vaccini stanno toccando una porzione infinitesimale della popolazione globale, mentre corpi e soprattutto merci continuano a circolare e con essi i batteri, i virus e le varianti incrociate.

– Credo che un punto importante sia accettare che non siamo in una POST-pandemia, ahimè, ma che ci siamo ancora dentro fino al collo. La pandemia c’è e ci sarà ancora, fino a che la sua curva non raggiungerà il livello alto per poi scemare. Una pandemia globale ha dei tempi che sono al di sopra della hubris umana e della umana volontà di dominio su tutto il mondo che ci circonda.

– Il greenpass è uno strumento di controllo sociale, ieri il Ministro Speranza ha dichiarato che “Il green pass è la più grande opera di digitalizzazione mai fatta” (qui): dunque il punto è la digitalizzazione e il controllo a tappeto di tutte le azioni quotidiane, non la salute pubblica. Equiparare controllo e salute è davvero un binomio difficile da digerire. Il greenpass è un nuovo confine che stiamo vedendo erigere attorno a noi: non più alle frontiere degli Stati nazionali, ma alle frontiere dei nostri corpi. Si tratta sempre di mura, di confini che determineranno chi ha o meno dei privilegi. Ma in tante e tanti non urlavamo: La carta è solo carta la carta brucerà? Dov’è finita quella solidarietà verso i sans-papier e le persone che non possono e non potranno comunque accedere a questo pass? (E qui non è solo questione di procedure, si chiama paura anche quella).

– Il greenpass viene rilasciato dopo 1 sola dose di vaccino, che è ormai risaputo NON coprire né tutelare la persona dagli effetti nefasti del virus. Dunque nuovamente mi pare che lo Stato si voglia deresponsabilizzare per fare andare avanti l’economia senza dovere più provvedere a “ristori”. Ma dov’è la tutela della salute? Infine: il greenpass non è richiesto per entrare in Chiesa. Andare a Messa ancora una volta si rivela un assembramento consentito e tollerato beffando ulteriormente scuole, teatri e gli altri luoghi di socialità e cultura.

E alcune domande:

– Quanti soldi sono stati stanziati per implementare il sistema pubblico sanitario in Italia e in Europa in questi mesi? Perché pensiamo che la soluzione alla pandemia sia un vaccino e un nuovo passaporto digitale, invece che risorse a strutture, cultura della salute, del cibo, importanza dello sport e un attenuazione degli stress e della paura che sono invece fortissimi inibitori del sistema immunitario?

– Quale è l’intervento di salute pubblica che giustifica l’ipotesi di obbligo vaccinale per i giovani? Questo punto mi fa talmente male che non riesco neanche a commentarlo, ma è di una gravità immonda, e che non ci siano discorsi seri che prendano in conto i rischi che non conosciamo degli effetti negli anni di questo vaccino nei giovani (perché non c’è stato il tempo tecnico necessario) è l’ennesima testimonianza che viviamo in una violenta gerontocrazia patriarcale.

– Cosa ha provocato l’emergere del Covid? E cosa ha trasformato un virus in una pandemia globale? Come mai non si parla degli allevamenti industriali, dei combustibili fossili, delle centrali nucleari, e di tutte quelle miriadi di cose che producono e quotidianamente fabbricano le condizioni perché si sviluppino questo o altri virus?

– Infine: come possiamo illuderci che un vaccino risolva la pandemia (o tanto più un documento di controllo digitale), se non affrontiamo in nessun modo le cause strutturali che l’hanno provocata?

Sono cresciuta in un contesto in cui la cultura non erano nozioni da ingerire attraverso uno schermo, ma un quotidiano allenamento al pensiero critico, alla riflessione, all’osservazione e all’utilizzo del cervello che sento di avere sotto la corteccia cerebrale.

Sono caduta nello sconforto quando vedevo persone accorrere in fila allo spriz appena riapriva il bar, tanto quanto ora pensare che il vaccino “è l’unica soluzione che abbiamo”. Tanto più trovo razionalmente infondata ogni equiparazione tra vaccino e greenpass. Difenderò sempre l’importanza dei vaccini per difendere le persone a rischio e limitare la circolazione del virus. Ma nessuno può farmi credere che il vaccino a meno dell’1% della popolazione mondiale possa arginare un virus che la mal-gestione delle istituzioni che ci governano ha trasformato in pandemia. Mi rifiuto di dimenticare le responsabilità politiche che hanno portato alla strage del bergamasco e su cui – tra l’altro, per inciso – non si vuole indagare, nonostante le richieste dei familiari delle vittime.

Mi rifiuto di smettere di utilizzare il mio cervello, perché il fatto che funzioni me ne lascia una responsabilità enorme. Mi rifiuto di pensare che fare una passeggiata con o senza cane possa fare male a qualcuno, che stare chiusa in casa faccia bene alla salute (mentre le fabbriche erano sempre piene), che oggi mangiare al ristorante o bere il caffè senza essersi potuti vaccinare equivalga ad attentare alla salute pubblica. C’è una bella differenza tra egoismo neoliberale che vuole solo fare crescere il PIL o tornare a una brutta copia di quel che era prima, e un singolo corpo che cammina e respira. Le stragi le fanno i padroni, e come tanti anni fa, ancora adesso spesso si fanno aiutare dai fascisti per ottenere il risultato che vogliono.

Non smettiamo di usare la testa, non smettiamo di essere solidali, non smettiamo di cercare e condannare le responsabilità strutturali che hanno condotto al punto in cui ci troviamo.

Infine: impariamo ad ammettere che abbiamo paura, anzi che siamo terrorizzati pure. Che la morte ci spaventa, che la malattia ci fa paura. Non è un male avere paura, è parte della vita la morte, come è parte dell’amore la paura della sua fine. Eppure, impariamo a conviverci, perché l’amore è più forte.

Fonte

Bologna, 2 agosto 1980 - Noi sappiamo chi è Stato

Ricorre l’anniversario della strage alla stazione di Bologna e come negli ultimi 40 anni saremo in piazza, accanto all’associazione dei familiari delle vittime ma distinti e distanti dalle istituzioni che a vari livelli portano la corresponsabilità di quella strage come delle innumerevoli stragi che hanno martoriato l’Italia.

Le più anziane fra noi erano già in piazza la sera del 2 agosto 1980, alcune impegnate nei soccorsi e a chi parlava di incidente, di scoppi accidentali, ribattevamo che dell’ennesima strage si trattava e che le responsabilità andavano cercate all’interno degli apparati statali.

Anche il lento incedere delle inchieste giudiziarie e dei vari processi che si sono susseguiti (non solo concernenti la strage alla stazione di Bologna) stanno facendo emergere stralci di ricostruzioni storico-giudiziarie che confermano quello che abbiamo sempre affermato con forza: fascisti prezzolati, istigati, coordinati, finanziati, coperti da gangli tutti interni alle istituzioni statali.

Alti funzionari civili e militari, lobbisti di ogni risma, personaggi “influenti” della politica e dell’economia erano tutti collegati nel miasma che voleva reprimere ogni istanza di libertà e di autodeterminazione per mezzo del terrore, quando la “normale” repressione non fosse bastata.

Continueremo a gridare che la strage è di Stato, che le bombe nelle stazioni le mettono i fascisti ma le pagano i padroni, che l’antifascismo è nostro e non lo deleghiamo.

Non si tratta di condannare un generico terrorismo ma di individuare con chiarezza le politiche liberticide ed antisociali che il potere politico-giuridico-militare continua a perpetrare. Il nostro antifascismo non è rituale.

Oggi più che mai individua il nemico non solo nei nostalgici in orbace ma in tutte quelle manifestazioni che tendono a reprimere il diritto inalienabile alla libertà. Libertà a tutto tondo che non può essere conculcata in base a criteri emergenziali e deve essere esercitata in prima persona da tutte noi.

La strategia neoliberale e autoritaria dello Stato si è composta di stragismo, di morti in mare (abbiamo parlato negli anni scorsi di Str-agi/Naufr-agi di Stato), e nell’ultimo anno pandemico ha visto Confindustria – che allora pagava i fascisti per distruggere i picchetti operai – intervenire e influenzare le decisioni su ogni aspetto della politica sanitaria, dall’apertura delle fabbriche durante il lockdown alle pressioni per lo sblocco dei licenziamenti, dalla copertura delle morti sul lavoro alla polarizzazione del dibattito sull’obbligo vaccinale creata allo scopo sempre di arricchire la classe dirigente, protetti dal paravento di una presunta difesa della salute quando al contrario nulla di serio è stato fatto per potenziare il sistema sanitario pubblico. Stessi attori di allora, stesse pratiche criminali e liberticide.

Non possiamo poi non ricordare che quello stesso Stato si è reso responsabile delle stragi nelle carceri a seguito delle rivolte scoppiate ad inizio pandemia per la mancanza di quella stessa sicurezza sanitaria di cui le istituzioni si riempiono la bocca, nonché dei pestaggi e delle torture documentate nei giorni successivi, una pratica tristemente  costante nel sistema carcerario.

E le istituzioni chiamate a parlare saranno rappresentate proprio dalla Ministra della Giustizia Cartabia, che pur dovendo timidamente prendere posizione dopo i video sui selvaggi pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, nulla ha detto dei 12 morti, di cui 9 nel carcere di Modena.

Infine non possiamo non ricordare che quelle stesse istituzioni che, mentre piangono lacrime di coccodrillo, si rifiutano di desecretare i documenti relativi alle stragi fasciste, sono le stesse che perseverano nel perseguire i processi di lotta di quegli anni – nei mesi passati la richiesta di estradizione degli esuli francesi o le condizioni inumane a cui sono sottoposti tuttora i prigionieri politici lo stanno a dimostrare, in quella che non si può definire altro che vendetta di Stato.

Continueremo quindi ad affermare che la presenza di esponenti del governo in questa giornata è completamente fuori luogo. Non c’è soluzione di continuità fra i governi che hanno coperto e organizzato la strategia della tensione per fermare le lotte operaie studentesche degli anni ‘60 e quelli odierni.

Da piazza Fontana, a Brescia, passando per l’Italicus, a Bologna, al rapido 904 a San Benedetto val di Sambro, dalla Uno Bianca alla Falange Armata, dal Fronte Nazionale ai NAR, a Forza Nuova, a Casa Pound:

Noi non dimentichiamo.

Noi sappiamo chi è STATO.

Ora e sempre resistenza.

Fonte

Pegasus: lo spionaggio di massa è una realtà

Pubblichiamo questo contributo di Arundhati Roy, apparso sul The Guardian martedì 27 luglio.

La nota attivista indiana, nonché Premio Nobel per la Letteratura, riflette sulla diffusione e la pervasività di uno strumento di controllo di massa come Pegasus, spyware prodotto da un'azienda israeliana – la NSO Group – venduto a differenti governi e che permette di hackerare con grande facilità i dispositivi informatici di chiunque.

Lo scandalo attorno a questa attività di intelligence di massa piuttosto opaca rende giustizia alla precisa denuncia di alcuni anni fa di Edward Snowden, ex analista della National Security Agency degli Stati Uniti, su quest’aspetto dispopico delle politiche governative.

In una recente intervista al Guardian – citata dalla Roy – Snowden ha avvertito: “Se non fai nulla per fermare la vendita di questa tecnologia, non saranno solo 50.000 obiettivi. Saranno 50 milioni di obiettivi, e accadrà molto più velocemente di quanto nessuno di noi si aspetti.“

La vicenda ormai è nota e mostra due aspetti piuttosto rilevanti: la valenza dell’industria della sicurezza in Israele e delle sue tecnologie belliche che si riverberano sulla vita civile di tutti; la facilità dello spionaggio di massa, nonostante i costi esorbitanti che comporta, da parte dei governi senza, di fatto, alcun filtro democratico.

Per ciò che concerne Israele, con cui il nostro Paese ha sviluppato una cooperazione in vari settori connessi direttamente o indirettamente all’industria militare, ciò che avviene con Pegasus è simile a ciò che accade con altre tecnologie, come quelle di controllo delle frontiere.

“Nel Mediterraneo di oggi” – hanno ben spiegato due attivisti di Sea Watch intervenuti nel corso di una assemblea di inizio giugno a Livorno nell’ambito delle mobilitazioni dei lavoratori portuali contro il traffico delle armi – “non sono solo gli stati NATO che vengono sempre più coinvolti nella gestione delle frontiere; ma anche il capitale militare.

La frontiera ormai è un’industria militare, un mercato enorme che entro il 2025 varrà oltre 65 miliardi di euro, in cui svolgono un ruolo da protagonista le aziende private specializzate nella progettazione e nel commercio di armi e tecnologie da guerra.

Per fare un esempio rilevante, uno dei paesi all’avanguardia dell’esportazione di apparati di sorveglianza non solo in Europa, ma anche negli USA e in Australia, è Israele. I droni usati da FRONTEX per dare supporto logistico alla cosiddetta Guardia Costiera libica sono stati inventati da Elbit Systems e Israel Aerospace Industries – entrambe aziende israeliane, che gestiscono l’apparato di controllo sul territorio palestinese.”


Torniamo a quello che è avvenuto in India.

Avevamo già tradotto a marzo un contributo di una altra attivista di fama internazionale, come Naomi Klein, che rifletteva su The Intercept come le multinazionali della rete fossero dietro la repressione del movimento in India, Stato che è divenuto un laboratorio su larga scala delle tecniche della controrivoluzione digitale contro i movimenti di massa.

Il disastro pandemico indiano, che era stato descritto a marzo dalla stessa Roy in un articolo che abbiamo tradotto come un vero e proprio crimine contro l’umanità, ha ulteriormente fatto vacillare l’attuale esecutivo retto da una convergenza di interessi tra i nazionalisti indù, i multimiliardari indiani proprietari di svariate attività economiche, e le caste più elevate, aumentando le paranoie del Potere Indiano.

Il tutto con il beneplacito dell’Occidente, per cui l’India è un baluardo nella politica di “contenimento“ della Repubblica Popolare Cinese, e quindi nessuno, come hanno fatto gli USA con Cuba, si sogna di denunciarne la catastrofe umanitaria, occultata con sprezzo del ridicolo dalla leadership del Paese Asiatico contro le più banali evidenze empiriche.

Alla luce di quanto si legge qui sotto, sarà difficile non riflettere come l’abuso del concetto di dittatura e creazione del nemico interno sia stato così male indirizzato negli ultimi tempi anche da intellettuali di un certo rilievo e da alcuni osservatori politici.

Buona Lettura.

*****

Questo non è semplice spionaggio. La nostra intimità è ora allo scoperto.

Il progetto Pegasus dimostra che presto potremmo essere governati da Stati che sanno tutto di noi, mentre noi sappiamo sempre meno sul loro conto

In India, l’estate della morte si sta presto trasformando nell’estate dello spionaggio.

La seconda ondata di coronavirus si è arrestata, dopo aver causato 4 milioni di morti in India. I numeri ufficiali ammontano solo a un decimo – 400.000. Nella distopia di Nahendra Modi, mentre il fumo dei forni crematori ancora si diradava e la terra delle tombe si assestava, degli enormi cartelloni sono apparsi nelle nostre strade per dire “Grazie Modiji” (un’espressione di gratitudine aniticipata per il “vaccino gratuito” che resta ancora poco reperibile, e che manca al 95% della popolazione).

Per quanto riguarda il governo Modi, qualsiasi tentativo di quantificare il vero numero di morti è una cospirazione contro l’India – come se i milioni di morti fossero attori che giacevano nelle fosse comuni di massa che avete visto dalle foto aeree, o che galleggiavano nei fiumi travestiti da cadaveri, o che si cremavano da soli nei marciapedi delle città, motivati unicamente dal desiderio di rovinare la reputazione internazionale dell’India.

Il governo indiano e i suoi media hanno mosso la stessa accusa contro il consorzio internazionale di giornalisti investigativi di 17 giornali, che hanno lavorato con Forbidden Stories e Amnesty International per rendere pubblica una storia straordinaria di sorveglianza su scala globale.

L’India appare in questi report a fianco a un insieme di altri Paesi i cui governi hanno acquistato lo spyware Pegasus prodotto dal NSO Group, un’azienda di sorveglianza israeliana. NSO, dal canto suo, ha dichiarato che vende la sua tecnologia solo a governi che hanno superato il vaglio in quanto a rispetto dei diritti umani e che si sono impegnati a usarla solo per fini di sicurezza nazionale – per tenere sotto controllo terroristi e criminali.

Tra gli altri Paesi ad aver superato il test per i diritti umani dell’NSO ci sono Rwanda, Arabia Saudita, Bahrain, gli Emirati Arabi Uniti e Messico. Quindi chi esattamente ha deciso quale sia la definizione di “terroristi” e “criminali”? L’NSO e i suoi clienti?

Oltre al costo esorbitante dello spyware, circa centinaia di migliaia di dollari per telefono, l’NSO chiede un canone annuale per la manutenzione del sistema pari al 17% del costo totale del programma. C’è sicuramente qualcosa di proditorio in una corporazione straniera che fornisce e mantiene un sistema di sorveglianza che monitora privati cittadini per conto del governo del Paese.

Il team di giornalisti ha esaminato una lista trapelata di 50.000 numeri di telefono. L’analisi ha mostrato che più di 1.000 di questi sono stati selezionati in India da un cliente dell’NSO. Se un numero sia stato hackerato con successo, o sia stato soggetto a tentativi di hacking, lo si può dimostrare solo se i telefoni vengono sottoposti ad un esame forense. In India, molti dei telefoni esaminati sono risultati infettati dallo spyware Pegasus.

La lista trapelata include i numeri di membri di partiti d’opposizione, giornalisti dissidenti, attivisti, avvocati, intellettuali, imprenditori, un ufficiale dissidente della commissione elettorale indiana, un ufficiale dissidente dell’intelligence, ministri e le loro famiglie, diplomatici stranieri e anche il primo ministro pakistano, Imran Khan.

Portavoce del governo indiano hanno denunciato la lista come un falso. Osservatori della politica indiana sanno bene che neanche uno scrittore esperto e ben informato sarebbe in grado di costruire una lista così precisa e credibile di persone che il partito al governo considera di interesse o nemiche del proprio progetto politico. È pieno di dettagli deliziosi, pieno di storie nelle storie. Ci sono nomi inaspettati. Molti tra quelli plausibili non ci sono.

Pegasus, ci viene riferito, può essere installato in un telefono anche solo con una chiamata persa. Immagina. Un carico di spyware invisibile sganciato da una chiamata persa. Un ICBM senza precedenti. Uno in grado di smantellare democrazie e atomizzare società senza il disturbo della burocrazia – nessun mandato, accordo sulle armi, commissioni di inchiesta, nessun tipo di regolamentazione. La tecnologia è neutrale ovviamente. Non è colpa di nessuno.

La collaborazione amichevole tra India e NSO sembra essere iniziata in Israele nel 2017, durante ciò che i media hanno chiamato la “bromance” Modi-Netanyahu – quella volta che si sono arrotolati i pantaloni e si son messi a sguazzare nella spiaggia di Dor. Hanno lasciato ben più che impronte sulla sabbia. È allora che i numeri sono iniziati ad apparire sulla lista.

Lo stesso anno il budget del Consiglio di Sicurezza Nazionale è decuplicato. La maggior parte della spesa è stata allocata alla cybersicurezza. Nell’agosto 2019, poco dopo la seconda vittoria di Modi come primo ministro, la draconiana legge indiana sull’antiterrorismo, la UAPA (Unlawful Activities Prevention Act), con la quale in migliaia sono stati arrestati senza possibilità di cauzione, è stata espansa per includere anche individui, non solo organizzazioni.

Le organizzazioni, d’altronde, non hanno telefonini – dettaglio importante, per quanto teorico. Ma certamente espande il mandato. E il mercato.

Durante il dibattito parlamentare sull’emendamento, il ministro dell’interno, Amit Shah, ha dichiarato: “Signori, le armi non causano il terrorismo, le radici del terrorismo affondano nella propaganda fatta per diffonderlo... E se questi individui verranno riconosciuti come terroristi, non credo che dei parlamentari debbano avere obiezioni“.

Lo scandalo Pegasus ha causato un putiferio durante la sessione estiva del parlamento. L’opposizione ha richiesto le dimissioni del ministro dell’interno. Il partito di Modi, forte di una maggioranza assoluta, ha schierato Ashwini Vaishnaw – di recente entrato come ministro delle ferrovie, comunicazioni e tecnologie informatiche – a difendere il governo in parlamento. Imbarazzante per lui che anche il suo numero fosse sulla lista trapelata.

Mettendo da parte la sbruffonaggine e il burocratese disorientante delle molte dichiarazioni del governo, non si trova nessuna smentita sull’acquisto e l’uso di Pegasus. Neanche l’NSO ha smentito. Il governo di Israele ha aperto un’inchiesta sulle accuse di abuso dello spyware, così come il governo francese. In India la pista dei soldi ci condurrà, prima o poi, alla pistola fumante.

Ma dove ci porterà questa pistola fumante? Consideriamo questo: ci sono 16 attivisti, avvocati, sindacalisti, professori e intellettuali, molti di loro dalit (la casta degli “intoccabili”, ndt), che sono stati imprigionati per anni in quello che è conosciuto come il caso Bhima-Koreagon (BK).

Sono accusati, incredibilmente, di aver cospirato per incitare le violenze avvenute tra dalit e gruppi di caste privilegiate nel gennaio 2018, quando decine di migliaia di dalit si sono radunati per commemorare il 200esimo anniversario della battaglia di Bhima-Koregaon (nella quale i soldati dalit hanno combattuto per sconfiggere i Peshwa, un regime tirannico bramino).

I numeri di telefono di 8 dei 16 BK accusati, e i numeri di alcuni dei loro famigliari più stretti, sono apparsi sulla lista. Se tutti o alcuni dei loro telefoni siano stati oggetto di hacking, tentati o riusciti, non si può sapere, perché i loro telefoni sono in custodia della polizia e non disponibili per esami forensi.

Negli anni alcuni di noi sono diventati esperti nelle modalità sinistre che il governo di Modi è pronto ad adottare per fermare coloro che considera suoi nemici – ed è più che semplice sorveglianza.

Il Washington Post ha recentemente pubblicato un report di Arsenal Consulting, un’azienda digitale forense del Massachusetts, che ha esaminato copie elettroniche dei computer di due dei BK accusati, Rona Wilson e Surendra Gadling.

Gli investigatori hanno scoperto che entrambi i loro computer sono stati infiltrati da un hacker non identificato, e che documenti incriminanti sono stati nascosti nei loro hard drive. Tra questi, per aggiungere pathos, c’era una lettera assurda che delineava un piano banale per assassinare Modi.

Le gravi implicazioni contenute nella relazione di Arsenal non hanno spinto il sistema giudiziario indiano o la sua stampa tradizionale ad agire diversamente. Al contrario. Mentre lavoravano duramente per insabbiare e contenere le possibili ricadute del rapporto, uno degli accusati della BK, un sacerdote gesuita di 84 anni, padre Stan Swamy, che aveva trascorso oltre trent’anni nello Jarhkland tra le tribù che abitano la foresta e lottano contro la conquista aziendale delle loro terre d’origine, moriva atrocemente dopo essere stato infettato dal coronavirus in prigione. Al momento del suo arresto aveva il morbo di Parkinson e il cancro.

Allora, cosa dobbiamo fare di Pegasus? Liquidarla cinicamente come una nuova iterazione tecnologica di un gioco secolare in cui i governanti hanno sempre spiato i governati sarebbe un grave errore. Questo non è un normale spionaggio. I nostri telefoni cellulari rappresentano il nostro io più intimo. Sono diventati un’estensione del nostro cervello e del nostro corpo.

La sorveglianza illegale attraverso i telefoni cellulari non è una novità in India. Ogni Kashmir lo sa e lo sanno anche la maggior parte degli attivisti indiani. Tuttavia, cedere ai governi e alle società il diritto legale di invadere e prendere il controllo dei nostri telefoni significa sottometterci volontariamente alla violazione della nostra privacy.

Le rivelazioni del progetto Pegasus mostrano che la potenziale minaccia di questo spyware è più invasiva di qualsiasi forma precedente di spionaggio o sorveglianza. Più invasivo anche degli algoritmi di Google, Amazon e Facebook, all’interno dei quali milioni di persone vivono la loro vita e giocano i loro desideri. È più che avere una spia in tasca. È come se si fornissero le informazioni più nascoste del nostro stesso cervello.

Spyware come Pegasus mettono a rischio politico, sociale ed economico non solo l’utente di ogni telefono infetto, ma l’intera cerchia sociale dei propri amici, famiglie e colleghi.

La persona che probabilmente ha riflettuto in modo più approfondito di chiunque altro sulla sorveglianza di massa è il dissidente ed ex analista della National Security Agency degli Stati Uniti Edward Snowden. In una recente intervista al Guardian, ha avvertito: “Se non fai nulla per fermare la vendita di questa tecnologia, non saranno solo 50.000 obiettivi. Saranno 50 milioni di obiettivi, e accadrà molto più velocemente di quanto nessuno di noi si aspetti”. Dovremmo prestargli attenzione.

Ho incontrato Snowden a Mosca quasi sette anni fa, nel dicembre 2014. Era trascorso circa un anno e mezzo da quando era diventato informatore, disgustato dalla sorveglianza di massa indiscriminata dei suoi cittadini da parte del suo governo. Aveva fatto la sua grande fuga nel maggio 2013 e si stava lentamente abituando alla vita come fuggitivo.

Daniel Ellsberg (dei Pentagon Papers), John Cusack (di John Cusack) ed io ci siamo recati a Mosca per incontrarlo. Per tre giorni, ci siamo rintanati in una stanza d’albergo con il gelido inverno russo che premeva contro i vetri delle finestre, per parlare di sorveglianza e spionaggio.

Dove ci porterà questa pista? Quanto lontano? Quando è scoppiata la notizia del progetto Pegasus, sono tornato indietro e ho guardato la trascrizione della nostra conversazione registrata. Si trattava di poche centinaia di pagine. Mi ha fatto rizzare i capelli.

Snowden, che aveva appena trent’anni allora, era cupamente profetico: “La tecnologia non può essere ripristinata, la tecnologia non va da nessuna parte … sarà più economico, sarà più efficace, sarà più facilmente disponibile. Se non facciamo nulla, ci troveremo come sonnambuli in uno stato di sorveglianza totale in cui abbiamo sia un super-Stato che ha una capacità illimitata di applicare la forza, sia una capacità illimitata di sapere e dunque di dirigere in modo molto specifico quella forza e questa è una combinazione molto pericolosa. Questa è la direzione del prossimo futuro.

In altre parole, andiamo nella direzione di essere governati da Stati che sanno tutto ciò che c’è da sapere sulle persone e di cui la gente sa sempre meno. Questa asimmetria può andare solo in una direzione. Malvagità. E la fine della democrazia."


Snowden ha ragione. La tecnologia non può essere ripristinata. Ma non deve funzionare come un’industria legittima e non regolamentata, che travolge profitti, sboccia e fiorisce sulle autostrade transcontinentali e pulsanti del libero mercato. Bisogna legiferare contro questi rischi.

Ma dove ci porta tutto questo? Nel mondo della buona politica vecchio stile, direi. Solo un’azione politica può fermare o mitigare questa minaccia.

Perché questa tecnologia, quando viene utilizzata, se non legalmente, illegalmente, esisterà sempre all’interno della complicata matrice che descrive i nostri tempi: nazionalismo, capitalismo, imperialismo, colonialismo, razzismo, castismo, sessismo.

Questo rimarrà il nostro campo di battaglia, indipendentemente da come si sviluppa la tecnologia. Dovremo tornare a un mondo in cui non siamo controllati e dominati dal nostro intimo nemico: i nostri telefoni cellulari.

Dobbiamo cercare di ricostruire le nostre vite, le nostre lotte e i nostri movimenti sociali al di fuori del regno asfissiante della sorveglianza digitale. Dobbiamo spodestare i regimi che stanno dispiegando questi strumenti contro di noi.

Dobbiamo fare tutto il possibile per stringere la presa sulle leve del potere, per ricucire quanto ci hanno strappato e riprenderci ciò che ci hanno sottratto.

Fonte

Retoriche del disumano, ieri ed oggi

Impunità per i potenti, anche se colpevoli di reati come la strage di Viareggio ed il crollo del ponte Morandi, a Genova. E l’immagine che offre oggi il Paese è, oggi ancora più di ieri, quella di “un ritorno brutale, rapido, in buona misura inconsapevole, ma devastante, alle logiche di una società di caste: universi sociali separati e gerarchicamente sovrapposti. Signori, e servi. Eletti, e paria. Uomini, e topi.

Persino il tanto decantato “ascensore sociale” è andato sotto zero, ovvero, studiare anche tantissimo, non modificherà, nemmeno di uno zerovirgola, la propria situazione in relazione alla provenienza sociale e famigliare. Anzi, per la prima volta le nuove e nuovissime generazioni stanno andando incontro ad una condizione nettamente peggiore rispetto a quella dei propri genitori.

Abbiamo di fronte una, società rigidamente classista in cui le chances sono inscidibilmente legate allo status di origine e il Covid stesso ha allargato i divari esistenti rendendoli praticamente incolmabili e polverizzando quel po’ che restava in piedi di un mito che aveva, in realtà, pochissima sostanza ma che, tuttavia, rivestiva una funzione ideologica fondamentale nel mantenimento dello status quo: la “scala sociale”.

Alla punizione per gli ultimi (Rom, stranieri, «clandestini»), man mano che i movimenti per i diritti sociali quali reddito, casa e del lavoro, in qualche modo, guadagnano terreno, di recente, si stanno aggiungendo condanne esemplari e pene durissime contro gli attivisti ed i militanti che praticano la resistenza civile contro le grandi inutili opere come il TAV e contro quelli che lottano sul fronte dei bisogni proletari. Guai ai vinti ed agli ultimi.

E lo stesso folle ed anacronistico accanimento giudiziario nei confronti degli esuli politici degli anni settanta sottende una minaccia nei confronti delle nuove generazioni riguardo l’idea stessa che si possa riprodurre, nelle pur difficili condizioni dell’oggi, un conflitto sociale in grado di rimettere in gioco nuovi rapporti di forza e di ristabilire diritti nel frattempo calpestati e cancellati da decenni di restaurazione in senso classista e razzista.

Ma chi sono i nuovi proletari? Sono gli abitanti delle vecchie e nuove periferie urbane; sono gli operai della logistica; sono i braccianti alla base della grande filiera agricola che rifornisce la grande distribuzione commerciale, ridotti in condizioni di schiavitù; sono i riders che sfrecciavano numerosi come fantasmi anche nei periodi di totale lockdown per pochi spicci l’ora e senza alcuna tutela.

Ecco, non a caso, si tratta, in gran parte, di immigrati di prima e seconda generazione che lavorano proprio nei settori ad altissimo tasso di sfruttamento.

L’articolo di Marco Revelli scritto del 2008, coglieva questa nuova faglia nella sua fase iniziale ed, in anticipo sui tempi, afferrava un dato generale allora non ancora chiaro nei suoi dettagli ma che mostrava già una nuova configurazione dei rapporti di classe e delle nuove gerarchie che si stavano sviluppando, a partire da alcune tendenze che avevano preso decisamente piede nei due decenni precedenti proprio a partire dalla discriminazione razziale e dalla colpevolizzazione dei poveri quali punte massime della nuova ideologia dominante.

Il rapporto con i flussi migratori; gli accordi disumani con i paesi di partenza, gli accordi Italo-libici; quelli tra Unione Europea e Turchia; la terribile condizione dei migranti di passaggio dai Balcani, in Grecia ed ai confini di Croazia ed Ungheria; la condizione carica di angoscia ed incertezza dei migranti residenti sempre in bilico tra espulsione, clandestinità e cittadinanza e permessi di lavoro a termine.

Sono le molteplici facce, ormai istituzionalizzate, che incorporano quelle retoriche del disumano che, fino ad un decennio fa, sembravano soltanto i cavalli di battaglia dei nuovi populismi reazionari e che oggi sono, invece, saldamente al centro delle politiche pubbliche degli stati europei e dell’Unione Europea stessa.

In Italia un quadro normativo condiviso da tutti i grandi partiti ha prodotto i CPT, CIE, CPR, ovvero, lo scandalo della detenzione amministrativa dei migranti. Centri di permanenza temporanea, Centri di identificazione ed espulsione, poi diventati Centri di permanenza per il rimpatrio con il decreto Minniti-Orlando approvato nel 2017, e che costituiscono le “misure per il contrasto all’immigrazione illegale” in cui si consumano infinite violazioni dei diritti umani fondamentali e nei quali i migranti irregolari sono detenuti come se fossero carcerati.

E intanto, in tutti questi anni, sul fronte dell’immigrazione legale non si è fatto nulla se non concedere qualche permesso per lavoro con il contagocce. Non servono lavoratori legali ma esseri umani che fuggono da guerre, fame e persecuzioni, da ridurre in schiavitù dietro il perpetuo ricatto del rimpatrio negli inferni di provenienza e/o l’internamento nei nuovi campi di concentramento.

Servono gli Untermensch (parola tedesca che sta per sub-umano), ovvero, i “popoli inferiori” da sottomettere, sfruttare e da offrire, al momento opportuno, come capri espiatori della condizione di impoverimento generale e della perdita di status e diritti che ha colpito, soprattutto durante la pandemia, vasti strati di popolazione.

*****

Dunque, le cose stanno così. C’è un piccolo numero di persone, quelle che stanno in alto, più in alto di tutti, dichiarate per legge al di sopra di ogni giudizio. Investite, in quanto tali, per ciò che sono e non per ciò che possono aver fatto, del privilegio dell’impunità.

E ce ne sono altre, più numerose, ma razzialmente delimitate, separate dai buoni cittadini da un confine etnico – quelle che stanno in basso, più in basso di tutti – considerate invece, per legge, in quanto tali, per ciò che sono, non per ciò che possono aver fatto, colpevoli. Almeno potenzialmente. Pre-giudicate.

Alle prime non si guarderà mai in tasca, anche se fossero colte, per un accesso di cleptomania, in furto flagrante; alle seconde si prendono fin da bambini le impronte digitali, le si fotografano, perquisiscono, spostano, schedano e controllano senza limiti, come appunto con i delinquenti abituali, o per natura. Questa è oggi, sotto il profilo giuridico e politico, l’Italia.

In un solo consiglio dei ministri i due estremi che definiscono i nuovi confini sociali e morali della costituzione materiale della «terza repubblica» sono stati mostrati a tutti, come in un’istantanea. In pochi mesi, in nome dell’ammodernamento e dell’innovazione nell’arte del governo, abbiamo abbattuto ad uno ad uno alcuni dei pilastri fondamentali della modernità, a cominciare dall’universalismo dei diritti. Dal principio dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Dal carattere personale della responsabilità giuridica.

L’immagine che offre oggi il Paese è quella di un ritorno brutale, rapido, in buona misura inconsapevole, ma devastante, alle logiche di una società di caste: universi sociali separati e gerarchicamente sovrapposti. Signori, e servi. Eletti, e paria. Uomini, e topi.

È un’immagine inguardabile. Dovrebbe produrre un moto istintivo di disgusto, repulsione, vergogna, in chiunque si sia formato nell’orizzonte di valori di una sia pur debole e moderata democrazia. Invece non è così. Inutile nascondercelo: lo scandalo è tale solo per pochi. Tace miseramente – miserabilmente – quell’ombra di opposizione che non rinuncia a credersi e a fingersi governo senza più esserlo.

Tacciono pressoché tutti gli opinion leaders (quelli che magari si commuovono per Obama, ma lasciano correre sulla schedatura del popolo rom). Con poche, nobili per questo, ma limitatissime eccezioni. Tace, e in qualche misura acconsente, anche quell’opinione pubblica fino a ieri considerabile «di sinistra», socialmente sensibile, «politicamente corretta»... Tace, magari soffre, ma tace. Per varie ragioni.

Perché questo ritorno in buona misura irrazionale al pre-moderno, all’imbarbarimento dello stato di natura, è argomentato con ragioni «pragmatiche», tecniche, efficientistiche, in qualche misura a loro volta «moderne»: perché «serve». Perché «funziona». Perché bisogna «fare».

Maroni non è Goebbels (non ne possiede né il fanatismo né la cultura): non tratta i rom come untermenschen – sottouomini – per ragioni «genetiche», ma per ragioni «pratiche». Non perché sono razzialmente «inferiori», ma perché razzialmente disturbano i suoi elettori.

La nuova segregazione razziale ha il volto dell’imprenditore brianzolo dai metodi spicci ma efficaci, non più quello dell’ideologo berlinese della razza ariana.

E d’altra parte in un universo sociale sempre più complesso e indecifrabile, pagano le semplificazioni estreme: la logica atroce del «capro espiatorio». Ma soprattutto la proposta indecente che viene dall’alto trova consenso nella società che sta in mezzo – nel grande ventre molle di quelli che cercano faticosamente di restare a galla nella crisi che cresce senza affondare sotto la soglia di povertà – perché in tempi di deprivazione le «retoriche del disumano» hanno un devastante potenziale di contagio.

Chiamo con questo nome le forme del discorso che negano un tratto comune di umanità a una parte dell’umanità. Che con espedienti retorici pongono un pezzo di umanità al di fuori dell’umanità. Che appunto, in forma diretta o indiretta, tracciano un confine tra uomini e non-uomini, producendo un dispositivo di esclusione e segregazione. Che separano le persone da trattare «come persone» e quelle da trattare «come cose».

E in alcune circostanze è drammaticamente gratificante, o comunque rassicurante – per chi è sempre più incerto sulla propria identità e sulla propria condizione sociale, per chi teme di «scendere» o di «cadere» – essere riconosciuti «come persone» per differenza da chi tale non è. Godere del privilegio di appartenere alla categoria degli «uomini» per differenza da altri, da questa esclusa.

Si troverà sempre un imprenditore politico spregiudicato, pronto a quotare alla propria borsa questa risorsa velenosa, ma potente. Questo acido sociale, che scioglie il timore sul proprio futuro in rancore e in consenso. Questo accade oggi in Italia.

La deprivazione economica e sociale che colpisce una fascia crescente di popolazione, si converte in deprivazione morale, in un quadro sociale ed economico che vede diventare sempre più intoccabile chi sta in alto (sempre meno redistribuibili le grandi ricchezze), e sotto la spinta di una retorica politica non più contrastata.

Di un ordine patologico del discorso che non trova più anticorpi, perché le culture democratiche di fine novecento si sono consumate, nell’agire sconsiderato di un ceto politico a sua volta impegnato prevalentemente a salvare se stesso dal naufragio.

Per chi non ci sta, si apre un periodo di sofferenza e responsabilità. Di secessione culturale. Una condizione da esuli in patria. Da apolidi. Per questo la tentazione di mettersi in coda, davanti alle Prefetture, per pretendere che siano rilevate anche a noi le impronte digitali, è grande. Non tanto per solidarietà. Ma perché siamo noi più che loro – i quali in grande misura sono cittadini italiani a tutti gli effetti e risiedono stabilmente sul territorio da decenni – i veri nomadi.

Marco Revelli, «Il Manifesto», 29 Giugno 2008, Titolo originale dell’articolo “Retoriche del disumano”

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Lamorgese schiera altri 10.000 poliziotti contro i NoTav in Val Susa

10.000 agenti supplementari. È la cifra rivelata ieri dalla ministra Lamorgese interpellata su quali misure fossero state prese per garantire la tranquillità dei cementificatori contro le proteste No Tav.

Il dispositivo messo in piedi dal Ministero dell’Interno prevede attualmente 180 unità tra poliziotti e soldati in permanenza a presidiare il cantiere di Chiomonte e 170 sul fronte San Didero, presenza che ovviamente “viene rafforzata in occasione di specifiche iniziative di protesta”.

Per il solo mese di luglio sono stati schierate appunto 10.000 unità supplementari rispetto a questo già mastodontico apparato di sicurezza.

Cifre che parlano chiaro: il movimento No Tav continua a essere la spina nel fianco dei governi che si susseguono da 30 anni, la cattiva coscienza di una politica sempre prona agli interessi di poche multinazionali a discapito degli abitanti del territorio, l’incubo di un apparato auto referenziale assolutamente incapace di fare piegare la testa a un movimento genuinamente popolare.

Mentre i giornali si riempivano di lacrime di coccodrillo per l’anniversario del G8 di Genova non si può fare altro che prendere atto che la strategia dello Stato per gestire il dissenso è sempre la stessa.

Le questioni sociali sono trattate come materia di ordine pubblico e l’esercito viene regolarmente schierato contro la popolazione civile.

Dovremo aspettare altri 20 anni per intendere qualche vagito dai sinceri democratici a scoppio ritardato? Perché qui in Val di Susa il silenzio è assordante...

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Il capitalismo e la ricerca dello spazio perduto

Come è già accaduto per l’elezione di Trump a presidente degli USA, anche il viaggio spaziale di Branson pare sia stato anticipato in una puntata dei Simpsons del 2014.

Il magnate inglese nell’orbita c’è andato davvero e, forse, Groening&co. hanno intuito che con la sua compagnia, dopo aver finanziato e inaugurato nell’ottobre del 2011 il primo aeroporto spaziale nel New Mexico, il viaggio iniziale lo avrebbe voluto fare direttamente lui.

La compagnia è la Virgin Galactic ed è stata creata proprio per aprire il nuovo mercato dei voli spaziali, per ora solo suborbitali.

Nel 2014, all’interno del programma Tier One, coperto da fondi solo privati, fu fatto il primo tentativo che, però, ebbe un epilogo tragico: l’esplosione in volo del motore a razzo ibrido dell’aeronave SpaceShipTwo provocò la morte del copilota e il grave ferimento del pilota.

Nel 2018, la Virgin Galactic sigla un accordo con un importante società italiana, la SITAEL di Mola di Bari, il cui amministratore delegato è Nicola Zaccheo, che ha lo stesso ruolo in altre aziende private del settore aerospaziale, tra cui ALTA spa, Aurelia Microelettrica e Caen Aurelia Space, ma anche in enti pubblici: da ottobre del 2020 è presidente dell’ART, autorità di regolazione dei trasporti, dopo essere stato fino ad allora a capo dell’ENAC.

L’accordo tra Virgin galactic e SITAEL prevede anche la costruzione di un nuovo veicolo spaziale con la tecnologia fornita dalla società pugliese. Il biglietto pagato per salire sulla navicella di Branson è stato di circa 250 mila euro per i 3 fortunati pretendenti.

Al magnate inglese ha prontamente risposto Jeff Bezos, celebre capo di Amazon, a bordo della New Shepard della compagnia Blue Origin, sempre di sua proprietà, stavolta dal Texas, ricevendo anche le congratulazioni da parte della NASA. Agli americani stanno più simpatici i cowboy.

Un razzo pulito, come dicono: produce bassissime emissioni di fuliggini e ossido di alluminio, tra le altre sostanze, che, comunque, anche in piccole particelle possono provocare un impatto ambientale sproporzionato, come afferma Darin Toohey, dell’Università del Colorado.

I passeggeri erano amici e parenti e non pare ci sia stato un biglietto: Bezos ha dato loro un passaggio nell’orbita, insomma. D’altronde, ha un patrimonio stimato molto più alto del rivale.

Alla mera cronaca, con il suo portato di enfasi e critica, segue sempre la ricaduta politica. Al netto dei costi economici e ambientali, cosa comunicano questi due viaggi nello spazio, a distanza di così poco tempo l’uno dall’altro?

Innanzitutto, che c’è uno ‘spazio di mercato’ finora inimmaginabile fuori dal mercato terrestre: il fiorente turismo spaziale è solo uno di questi, il più evidente; che nell’idea di ‘sana competizione’, due imponenti compagnie, promanazioni di società quotate, si stanno già contendendo; che lo spazio sarà un lusso per pochi.

Ma, soprattutto, che il paradigma liberista ha portato a un’intollerabile polarizzazione delle ricchezze, dunque dei capitali, e che il ruolo degli Stati è decisamente deprimente, quanto inerte.

Al di là del grado di secolarizzazione, ogni religione ha bisogno del suo simbolismo rituale per continuare a sostenersi e, nel caso del capitalismo, per divorare e distruggere. L’occupazione dello spazio ha, per l’appunto, una portata simbolica spietata: ci comunica che la ‘mano invisibile’ arriva prima di tutti, senza avversari, fisici e ideali, anche nell’efferata corsa verso nuovi spazi fuori dell’emisfero terrestre.

È da decenni che assistiamo a spedizioni e, in qualche modo, il modello capitalistico aveva già creato una specie di mercato, quello satellitare. Ma è stato sempre realizzato dallo sforzo dei governi, sebbene rappresentanti smaccati del paradigma liberista.

La “graziosa e dolce” Luna del pastore errante leopardiano è stata la prima ad essere occupata: l’ingegno di Astolfo è stato sostituito con Armstrong, la forza fantasiosa dell’ippogrifo con l’Apollo 11.

In quel caso, oltre alla risposta tecnologica e politica, la NASA ribatteva simbolicamente al sorriso positivo e pacifico di Gagarin e al primato di Valentina Tereskova, che ormai da oltre 10 anni monopolizzava l’Universo: di tutti e raggiungibile da tutti.

Ora, sono state aperte le finestre al privato, sia fisico, sia concettuale. E il privato vende, ieraticamente vende un sogno: “accumula che, forse, ti paghi un viaggio nello spazio!”.

Un nuovo prototipo di self-made man che ha come scopo la realizzazione della futura salvezza della propria genìa: non proprio in cielo, ma ci andiamo vicino. E ti comunica, pure, che le regole le detta il capitale che ci porteremo e ci porterà fino alla fine. Un mercato a cui può accedere solo un’élite di aristoi, ultraricchi chiaramente.

Sfruttare ancora: lo spazio come terreno di conquista e produzione. Immaginate l’universo infinito diviso in tanti pezzi di proprietà privata finita e l’astronave come nuovo treno a vapore.

‘Se per caso cadesse il mondo’, loro si sono portati avanti nella redenzione di classe.

Speriamo sia solo astratta distopia. L’universo, d’altronde, è un mercato da conquistare: senza popolazioni viventi da sfruttare, ma qualora dovessimo tentare una colonizzazione aliena, almeno nelle pause, consentite loro l’utilizzo della toilette.

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30/07/2021

Lassù qualcuno mi ama (1956) di Robert Wise - Minirece

Green Pass: il certificato del fallimento dello Stato

Diciamo in premessa che la nostra critica al Green Pass non è sovrapponibile a quella di chi, in questo anno e mezzo, ha sistematicamente anteposto l’interesse individuale a quello collettivo.

Per noi vale il contrario.

Non ci assoceremo mai a chi mette al primo posto la libertà del singolo, o dell’impresa, specialmente quando si traduce in libertà di nuocere agli altri, ovvero nella libertà di mettere in atto comportamenti che vanno contro la salute pubblica.

Rifiutiamo il concetto di “dittatura sanitaria”, e invitiamo chi in questo momento si sente minacciato nella propria libertà individuale, a riflettere sul fatto che se c’è una dittatura da temere e da cui difendersi è quella del profitto e degli affari, che ci sono libertà che sono in realtà arbitri e sopraffazioni, come quella di licenziare e sfruttare, di devastare e avvelenare l’ambiente e la vita, di discriminare ed opprimere.

Non abbiamo mai negato la pandemia e la sua gravità. Chi lo fa, di fronte a 130.000 e più morti, è un criminale. Lottiamo per far sì che questa esperienza porti la collettività a concepire un cambio di paradigma nella società, con l’interesse pubblico al primo posto.

Siamo sempre stat* favorevol* ai vaccini e alla vaccinazione di massa, strumento di prevenzione indispensabile anche se non unico, e proprio per questo lottiamo contro il monopolio di BigPharma e per togliere i brevetti. Vogliamo un vaccino pubblico e gratuito accessibile a tutti i popoli del mondo, per questo sosteniamo lo sforzo incredibile di Cuba che ha realizzato un vaccino efficace nonostante il blocco criminale. Anche in Italia ci battiamo perché siano superati ostacoli, ritardi, discriminazioni in particolare verso migranti e pover*, che ancora impediscono l’accesso universale al vaccino.

Per queste ragioni non siamo contrari al Green pass in linea di principio; riteniamo che di fronte all’esigenza di tutelare la salute pubblica sia possibile adottare forme di limitazione delle libertà individuali. Saremmo quindi favorevol* ad ad una forma di certificazione sanitaria, se questa non fosse, com’è invece il caso del provvedimento adottato dal Governo, semplicemente un tentativo di autoassoluzione con cui tutte le autorità pensano di aggirare i nodi e le responsabilità sanitarie e sociali della pandemia.

Il fallimento dello Stato

Il decreto che introduce l’obbligo di un pass sanitario per l’accesso ad una serie di luoghi è, semplicemente, l’ammissione implicita di fallimento dello Stato, di questo governo e dei precedenti.

Ricapitoliamo per i/le distratt*.

In un anno e mezzo di pandemia lo Stato non è stato in grado di

  • allertarsi tempestivamente sulla pandemia;
  • potenziare la medicina di base e i servizi sanitari di prossimità;
  • elaborare un piano di assistenza sanitaria per i pazienti COVID non gravi;
  • continuare a mantenere i precedenti livelli di assistenza per le altre patologie, in primis le oncologiche;
  • istituire le USCA (Unità Speciali di Continuità Assistenziale);
  • mettere in piedi una campagna di massa di test e tracciamento, informazione ed educazione sanitaria;
  • potenziare il trasporto pubblico per evitare che diventasse veicolo di contagio;
  • vigilare sul rispetto delle regole sanitarie da parte delle imprese;
  • costruire una campagna vaccinale degna di questo nome, e non la pantomima con cui, faticosamente, si è arrivati a vaccinare un po’ più della metà della popolazione, con tempi diversi, una comunicazione disastrosa e buchi preoccupanti in alcune fasce d’età.

Infine si è scelto di convivere con il virus, invece che provare a fermarne la diffusione con lockdown veri e mirati, e questo ha aggravato la strage.

Ad oggi, niente ancora è previsto per non farsi trovare impreparat* di fronte alla quarta ondata ormai ampiamente annunciata, né sul piano sanitario, né sul piano scolastico, né sul piano della logistica.

Di fronte all’ennesimo disastro in arrivo, un governo che – per bocca dello stesso Draghi – ha a cuore esclusivamente la ripresa delle attività economiche, ispirato da Macron in Francia tira fuori dal cilindro l’escamotage perfetto per distrarre l’opinione pubblica dalle colpe immense delle istituzioni e scaricare le responsabilità sul singolo individuo.

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Italia - Il Pil vola, i salari restano da fame

Oggi giornata ricca di dati macroeconomici europei. I vari istituti di statistica hanno pubblicato in particolare il dato del pil del secondo trimestre.

Il pil francese congiunturale (sul mese precedente) è +0,9% (era previsto +0.8%): la Germania fa +1,5% (ma era previsto il 2%), mentre l’Italia balza a +2,7% (era previsto solo l’1,3).

Crescita anno su anno del secondo trimestre italiano è ora previsto +15,9%, mentre il dato reale è +17,3%. E i servizi ad aprile erano ancora chiusi...

L’industria italiana insomma ha spinto anche in piena pandemia; i lavoratori sono stati spremuti fino all'osso, le imprese hanno fatto il pieno di profitti ma pretendono di poter licenziare a ogni stormir di foglia (anche il “green pass” viene usato per questo dagli stessi sfruttatori che a marzo 2020 minacciavano di licenziamento, se non si andava a lavorare in pieno lockdown).

Secondo l’Istat il dato acquisito nel 2021 – cioè anche se la crescita fosse nulla nel terzo e quarto trimestre – è pari a +4,8%. I più si aspettavano un dato congiunturale di 1,5, solo il Centro Studi di Confindustria nei giorni scorsi stimava il 2%. Ma il dato reale – +2,7% – è inaspettato, a tal punto che il sito del solitamente piagnone Sole24Ore titola “Vola il pil”.

Si saprà nelle prossime settimane quali settori, e in che misura, hanno contribuito. Di certo ora si conosce una stazionarietà dell’agricoltura e una forte crescita di industria e servizi.

È uscito anche il dato della disoccupazione a giugno. Era prevista al 10,4%, dato reale 9,7%. Da febbraio sono stati creati 400 mila posti di lavoro, ma quasi tutti a tempo determinato, a dimostrazione che la strategia degli imprenditori è sostituire lavoratori contrattualizzati con altri più deboli e ricattabili.

Mancano comunque, rispetto ai livelli pre-covid, 470mila posti, Non si può comunque negare che sia in corso una ripresa occupazionale, specie negli ultimi mesi.

Lo stesso Inps ha dichiarato nelle scorse settimane che le perdite contributive (vale a dire le trattenute pensionistiche in busta paga) sono state tutte recuperate.

Un altro dato importante: l’inflazione passa da 1,3% a 1,8%, ma non sappiamo ancora se ciò è dovuto a vivacità di domanda o a maggiori costi scaricati sui consumi (l’aumento dei prezzi petroliferi, trascinato dalla ripresa).

Di certo il differenziale inflazionistico, che porta ad erodere quote di mercato mondiale, è pari al 2%. Anche rispetto alla Germania, dove l’inflazione registrata è pari al 3,8% e storicamente era sempre stata più bassa che in Italia.

Di tutti questi dati chi non può gioire sono perciò proprio i lavoratori: ieri l’Istat ha pubblicato il dato delle retribuzioni, cresciute in un anno appena dello 0,6%, con punte 1,2 nell’industria, ma l’andamento triennale dei salari è in ogni caso inferiore all’inflazione. La crescita salariale è nulla per molti settori, nonostante siano stati siglati nuovi contratti (senza aumenti, evidentemente).

La deflazione salariale attanaglia i veri artefici di questa crescita. Una coscienza di classe, diffusa, potrebbe portare a dire basta!

C’è da sperarlo in autunno. Meglio tardi che mai.

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Hugo Chávez, l’indispensabile

Hugo Chávez, il grande “uomo d’azione e d’idee”, come lo definì il Comandante Fidel Castro, al quale si riferiva anche come il miglior amico di Cuba, è diventato, con il battito del cuore incommensurabile dei nostri Popoli, l’essenza ideologica di un progetto politico volto alla costruzione di una nazione libera, sovrana, indipendente, forgiando la maggior felicità possibile per i suoi abitanti.

Senza dubbio, quando il Comandante Eterno si è assunto come parte di un intero vortice umano con quella frase: “Non sono più Chávez, sono un popolo”, stava testimoniando la sua totale dedizione alla causa dei più bisognosi. Era inevitabilmente diventato un sentimento popolare.

Per questo oggi, nel 67° anniversario della nascita del leader storico della Rivoluzione Bolivariana, è necessario parlare della nostra storia contemporanea, del tempo di quasi settant’anni fa, di quel momento in cui il cuore della terra venezuelana batteva in un luogo remoto, sconosciuto ai più: Sabaneta de Barinas, in quella nostra pianura che Chávez stesso ha descritto come uno spazio di misteri, di natura “autentica e a volte così crudele”, contro la quale donne e uomini devono lottare per domarla e sconfiggerla, ma anche per finire a essere parte di essa, della sua infinita savana.

Fu lì che nacque il grande rivoluzionario di questo secolo, in un’alba d’inverno, con molta pioggia che formava stagni nelle strade. “Non c’era la Luna, non c’era il gallo, era una notte buia”, diceva il Comandante Eterno nelle sue conversazioni con il compagno Ignacio Ramonet (in “Hugo Chávez. Mi primera vida: Conversaciones con Ignacio Ramonet”, Debate, 2014).

Hugo è nato il 28 luglio di quell’anno in cui, per destino, arrivavano al Pantheon Nazionale anche i resti del grande ideologo della guerra d’indipendenza, l’uomo che diede la luce della conoscenza e della ribellione al nostro Padre Liberatore Simón Bolívar, che con il passare del tempo divenne anche un ispiratore dello stesso Chávez: Simón Rodríguez.

Così gli avvenimenti della vita e della Storia hanno agito di nuovo e nel 1954 la Patria ha protetto due esseri per la posterità, in due tempi diversi ma complementari: il passato perenne, la fiamma inestinguibile rappresentata da Samuel Robinson, e il futuro appena incipiente rappresentato da un bambino che cominciava ad aprire gli occhi alla vita.

Nel mondo si stavano verificando eventi che, politicamente parlando, sarebbero stati rilevanti per la Storia dei popoli oppressi. L’assalto alle caserme Moncada e Carlos Manuel de Céspedes, un anno prima, da parte del Movimiento 26 de Julio guidato da Fidel Castro, segnò l’inizio di quel periodo.

Il colpo di Stato contro il presidente progressista Jacobo Árbenz in Guatemala e l’imposizione delle dittature in Brasile e Paraguay nel 1954 definirono la politica imperialista per stabilire il suo dominio in America Latina e nei Caraibi attraverso i militari formati sotto gli interessi degli Stati Uniti e la sua Scuola delle Americhe.

Ma fu anche l’anno della battaglia di Die Bien Phu, che segnò la vittoria del popolo vietnamita sul colonialismo francese. “Le braccia della Storia mi hanno avvolto, l’uragano della Storia mi ha risucchiato”, ha detto il comandante Chávez, riferendosi alla turbolenta scena mondiale al momento della sua nascita.

L’essere umano è fatto per misurarsi con le proprie circostanze. Sono queste circostanze che formano il suo spirito e plasmano la sua personalità. Così è stato per Chávez, il bambino, la cui innata curiosità lo ha portato a fare domande in un contesto pieno di contraddizioni.

Nella patria di Bolívar, centinaia di prigionieri politici riempirono le carceri del regime di Perez Jiménez, che non permetteva la libertà di pensiero politico e mandava nelle prigioni chi la pensava diversamente. Le lotte contro Pérez Jiménez portarono al suo rovesciamento, a partire dal 1958. A quel tempo, Hugo non aveva ancora quattro anni.

La speranza volava sui cieli, come un vento che portava buoni presagi per il paese, ma non era altro che una breve illusione. Ancora una volta, le classi potenti hanno manovrato e sono riuscite a mettere da parte le forze popolari e rivoluzionarie, trasformando la vittoria collettiva sulla dittatura in un patto della borghesia nazionale per rimanere al potere per sempre.

Il Patto Puntofijo era la continuità del vecchio dominio capitalista, protetto da Washington. Questo è stato senza dubbio il periodo che più ha influenzato la visione del leader bolivariano.

La lotta armata, conseguenza dell’agitazione popolare contro la pseudo-democrazia, è stata un evento storico che si è riflesso non solo a Caracas, ma anche in quasi tutto l’interno del paese. Barinas era uno dei tanti spazi di guerriglia nella geografia nazionale. Le storie di Bachiller Rodríguez e Tuco Gómez erano di dominio pubblico e divennero parte dell’ideologia di Barinas. Chávez stesso racconta una visione di quei momenti della sua vita:

“Ricordo di aver visto Rómulo Betancourt con un liqui liqui (abito tradizionale per gli uomini in Venezuela, ndt) bianco, che attraversava il ponte Páez, il fiume Boconó; ci hanno portato noi bambini in un camion per vedere il presidente che passava per consegnare le terre della Riforma Agraria. Se mi ricordo bene, stava andando con John Kennedy, che veniva qui, sapete, a consegnare la terra, era l’Alleanza per il Progresso. Ricordo alcuni giovani nordamericani che vennero a Sabaneta (ero un chierichetto all’epoca, sto parlando di 50 anni fa) e ci insegnarono qualche parola di inglese e distribuirono avena Quaker; era l’Alleanza per il Progresso.

Ma ricordo anche che sulle colline di San Hipólito, presso Caño e’ Raya, c’erano dei signori che si chiamavano guerriglieri... Ecco, dove uno è nato e dove è cresciuto...”
.

Questa visione di due opposti antagonisti, cioè la cosiddetta “democrazia” da un lato (in cui persistevano povertà, analfabetismo, mancanza di cure mediche e altre calamità), e la ribellione di un settore dall’altro (i fattori rivoluzionari), ebbe un’influenza decisiva sulla personalità di Hugo, ma anche sulla formazione della sua grande sensibilità, la sua costante preoccupazione per le ingiustizie e le disuguaglianze sociali.

In questo contesto storico, gli affetti e gli insegnamenti della sua famiglia furono decisivi nella formazione della sua spiritualità. Anche se Chávez è cresciuto sotto le cure di sua nonna Rosa Inés, l’influenza di sua madre e suo padre non fu meno importante. Entrambi insegnanti, entrambi combattenti in un mondo allora lontano e dimenticato: le pianure venezuelane.

La vita austera della famiglia ha dato fermezza a valori essenziali come l’onestà, l’umiltà, il sacrificio e l’identità con gli emarginati, e li ha fatti prevalere come esempi da seguire, indipendentemente dalle dure condizioni che abbiamo affrontato.

In uno delle sue tante memorie, il Comandante ha ricordato quando era in quarta elementare e suo padre era il suo insegnante di classe, sottolineando che pretendeva di più da lui perché era suo figlio. “Quando non avevo venti dollari, non andavo al cinema”, ha detto Chávez, riferendosi alle grande esigenze del vecchio Hugo de los Reyes.

Mamma Elena fu altrettanto influente per il futuro leader storico della Rivoluzione Bolivariana. “Si è laureata come insegnante quando aveva già messo al mondo quasi tutti noi. Ricordo che andavo a trovare mia madre in un’aula... In particolare, insegnava l’alfabetizzazione, si dedicava all’educazione degli adulti... Ho partecipato, insieme a mia madre, alla campagna di alfabetizzazione negli anni Sessanta, lei era la mia guida con un libro che si chiamava ‘Abajo Cadenas’... Così mia madre mi ha insegnato a insegnare agli altri: era una cosa bellissima”.

Ma senza dubbio, il ruolo di mamma Rosa, con le sue innumerevoli letture e lezioni, è stato decisivo nella nostra educazione. Fu lei che ci insegnò a leggere, prima che andassimo a scuola, e in questo potente legame si intrecciò una relazione che andava al di là del legame sanguigno e affettivo. La figura di nonna Rosa Inés, con i suoi racconti sull’indipendenza, la guerra federale e la lotta anti–gomecista, rappresentava la vicinanza alle prime idee emancipatrici e ribelli di quegli scolari che eravamo, quando cominciavamo a scrutare le complessità della vita.

Fu un periodo duro e allo stesso tempo magico nella misteriosa pianura la cui influenza segnò decisamente il futuro visionario e, soprattutto, l’uomo perspicace e sensibile, il creatore di sogni, il poeta Chávez:

“Forse un giorno, mia cara nonna, dirigerò i miei passi verso il tuo recinto, a braccia alzate e con gioia, porrò sulla tua tomba una grande corona di allori verdi: sarebbe la mia vittoria e sarebbe la tua vittoria e quella del tuo Popolo, e quella della tua storia...”; scrive Hugo nella sua poesia a nonna Rosa.

Tutti quei primi anni dopo la sua nascita ebbero un’influenza decisiva sul pensiero dell’uomo che, prendendo le bandiere di Bolívar, Rodríguez e Zamora, intraprese la conquista del potere popolare, la costruzione di una nazione libera e di giustizia sociale.

Oggi, in circostanze complesse per il progetto bolivariano da lui promosso, i venezuelani, e altri popoli di questo continente e del mondo, commemorano un altro anno dalla sua nascita. E il modo migliore per rendergli omaggio e dimostrare il nostro amore per lui è quello di alzarsi e lottare contro le intenzioni delle potenze egemoniche imperialiste e dei loro lacchè per far sparire la sua eredità.

Tutta l’umanità sta subendo i terribili colpi della crisi mondiale e della pandemia Covid-19, che rende ancora più precaria la situazione degli abitanti del pianeta. È una verità innegabile che il sistema capitalista neoliberale e selvaggio non è stato in grado, con tutte le sue risorse, di controllare l’emergenza sanitaria, e il suo vero volto è sempre più chiaro.

È anche una verità innegabile che la ricchezza è sempre più concentrata nelle mani di pochi, a scapito di un numero crescente di lavoratori e persone che vivono in povertà. Chávez ha detto nel 2012: “L’umanità è sull’orlo di una catastrofe inimmaginabile”, sottolineando l’urgente necessità di porre fine al capitalismo predatorio.

Così, elevare il suo pensiero al livello di una bandiera per difendere i nostri ideali di sovranità deve essere il compito che ogni rivoluzionario deve avere come priorità, se desideriamo realizzare il sogno che lui ha lasciato incompiuto. È impossibile avanzare nella battaglia contro i nemici della nostra Patria se non assumiamo l’ideologia del Comandante Chávez come nostra guida rivoluzionaria. Grazie a lui stiamo costruendo una vera Indipendenza.

Un anno in più, caro Hugo! Permettici di riprendere il sempreverde verso di Bertold Bretch per dirti ancora una volta: “ci sono quelli che combattono tutta la vita, quelli sono gli indispensabili!”.

Sempre insieme, fratello, compagno!

Adán Chávez Frías

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Scuola: parlare di vaccini per nascondere il nulla del governo

Nelle ultime settimane, il dibattito sulla ripresa scolastica di settembre è stato in gran parte dominato dalla discussione sull’opportunità d’introdurre l’obbligo vaccinale per le/gli insegnanti e i loro studenti.

In questo dibattito si è distinto il generale Figliuolo, che ha più volte richiamato la necessità che i membri del personale scolastico non ancora vaccinati, vale a dire, secondo lui, circa il 15%, pari a oltre 200.000 persone, lo facciano entro la ripresa delle lezioni. Questa sarebbe una condizione indispensabile per il rientro in presenza.

Purtroppo, i dati del gen. Figliuolo, che farebbero pensare a una consistente frangia no vax nei lavoratori della scuola, sono assai opinabili.

Prima di tutto, Figliuolo accorpa i dati delle scuole e dell’università, che, seppure siano ambedue istituzioni dedicate alla formazione, hanno personale e studenti diversi. In secondo luogo, i dati del gen. Figliuolo sono arrotondati, spesso per eccesso, in modo da creare difficoltà a districarsi nelle percentuali.

Un esempio: in Sicilia ci sarebbero 140.000 docenti, non uno di meno e non uno di più, di cui il 43% non sarebbe vaccinato. Invece, secondo le autorità regionali proposte alla campagna vaccinale, i docenti sono poco più di 129.000, di cui oltre 105.000 si sarebbero vaccinati. In questo modo la percentuale dei non vaccinati scende al 18%, dato abbastanza vicino alla media nazionale.

Inoltre, i dati forniti dal gen. Figliuolo non tengono conto del fatto che quando si è deciso di adottare come criterio praticamente unico di priorità nelle vaccinazioni quello dell’età, si è perso, per evidenti ragioni di riservatezza, il conto degli insegnanti rispetto a tutti gli altri cittadini.

In questa vicenda ha avuto il suo peso anche il pasticcio dei vaccini da adottare per le diverse fasce d’età, per cui in una prima fase si è evitato di vaccinare i docenti più anziani con AstraZeneca, lasciando questo preparato ai più giovani e riprogrammando non sempre con efficienza la somministrazione ai primi.

Porre oggi la questione nei termini proposti dal gen. Figliuolo e da alcuni esponenti del governo serve solo a creare polemiche inutili rispetto a una categoria – il personale della scuola – che ha massicciamente risposto all’appello alla vaccinazione.

Infine il gen. Figliuolo immagina un’enorme campagna in grado di portare alla vaccinazione oltre 2.000.000 di studenti entro la prima decade di settembre, obiettivo prestigioso quanto poco credibile. Visto che attualmente la percentuale di dosi effettivamente inoculate, rispetto a quelle a disposizione del governo, è ufficialmente intorno al 95%. Insomma: ci sono ancora poche dosi rispetto al necessario, non manca la gente che vuole riceverle.

Stupisce quindi che l’autorità commissariale continui a proporre dati e analisi discutibili e proposte poco realistiche, ma ancora di più colpisce che il governo ponga la questione della vaccinazione degli insegnanti come una condizione indispensabile, quasi unica, per la ripresa in presenza.

In realtà, questo atteggiamento del governo nasconde la miseria delle iniziative prese e programmate per una vera ripresa in sicurezza. Infatti, giovedì 29 luglio è stato presentato lo schema di decreto per la ripresa 2021-2022, che si discosta ben poco, anzi, in alcuni aspetti peggiora, le norme per l’anno trascorso.

Anzitutto, si parla ancora di “regole sul distanziamento”, da tenere ove sia possibile (sic), in mancanza del quale si ricorrerà alle mascherine. La locuzione ove sia possibile intende che in molte situazioni il distanziamento non sarà possibile, poiché le classi saranno troppo numerose, formate con i medesimi criteri di prima della pandemia.

Scarsissime le risorse aggiuntive per il personale ATA e docente, solo le quote non spese nell’anno precedente, tanto che si prevede l’assunzione di ultra-precari che scadrà il 30 dicembre 2021.

Si precedono fondi solo per l’edilizia leggera, cioè per l’installazione di qualche tramezzo posticcio, senza che si effettuino interventi strutturali.

Qualora siano accertati casi di positività, la sanificazione dei locali sarà affidata a personale interno, non qualificato per una tale funzione e quindi esposto al rischio di contagio, e non a ditte specializzate.

Non tranquillizza nemmeno, anzi preoccupa, il richiamo alla possibilità di diversificazione dei provvedimenti e della prevenzione tra Regioni, quando riprenderà la stolta giostrina dei colori bianco-giallo-arancione-rosso-rosso profondo che tanti danni ha già provocato.

Sulla questione, inoltre, pesa l’insipienza delle Regioni nel miglioramento dei trasporti pubblici, mai avvenuto, per cui si ripropone ancora lo scaglionamento delle entrate negli istituti, provvedimento che, come già sperimentato, provoca grandi disagi organizzativi alle scuole senza produrre risultati significativi.

Una miseria totale, mancanza di visioni progettuali e scarsità di risorse, a dispetto dei grandi paroloni sulle magnifiche sorti del PNRR i cui fondi, come abbiamo già avuto modo di scrivere più volte, se arriveranno, andranno a incrementare i piani sulla scuola e sull’università delle fondazioni, dei privati, delle industrie e del terzo settore nel quadro della “sussidiarietà” cara al ministro piddino Bianchi.

Tutto questo è confermato dall’ultima parte dello schema di decreto, che come al solito esalta il ruolo dell’autonomia dei singoli istituti, indicando anche possibili modalità “innovative”, tra cui brilla l’idea di “accorpamento di discipline in ambiti” – piuttosto pericolosa – e che fa trasparire la logica famigerata delle “competenze” a scapito dei saperi.

Rispunta, nello schema di decreto, l’idea dei “Patti educativi di comunità”, un’idea d’affezione del ministro Bianchi, già contenuta nelle proposte formulate dalla commissione da lui stesso presieduta l’anno scorso per la ripresa 2020-2021.

È significativo che tale proposta – fallita nella scorsa estate – sia riproposta, evidentemente come prolungamento esterno dell’idea di “autonomia”, vista nel solco della famigerata sussidiarietà pubblico-privato, che vuole coinvolgere nella gestione dell’istruzione i privati e il terzo settore.

Il ministro Bianchi è convinto della bontà (mai verificata) della “commistione tra pubblico e privato”, come è testimoniato, tra l’altro, dal fatto che proprio il 28 luglio il Ministero ha destinato 5 milioni di euro a progetti di recupero, sostegno e inclusione che, non a caso, saranno affidati a imprese del terzo settore anziché al personale statale.

La scuola ha bisogno di un grande piano di rilancio, sostenuto dallo Stato, con investimenti pubblici che portino a un piano d’assunzione di insegnanti stabili e a strutture sicure ed efficienti. A queste esigenze il ministro Bianchi risponde solo con le parole d’ordine fallimentari dell’autonomia scolastica e ancor più della sussidiarietà pubblico-privato.

È invece necessario rilanciare l’idea di tornare allo spirito della Costituzione, che prevede una chiara separazione tra insegnamento statale e privato, violentato dalle leggi sulla parità scolastica dei ministri Bassanini e Berlinguer che idearono un modello di sistema scolastico nazionale in cui coesistono pubblico e privato “paritario”, sul modello con il quale, pochi anni prima, era stato fatto scempio del Sistema Sanitario Nazionale.

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Il separatismo kosovaro e la penetrazione turca nei Balcani

La Russia può tornare in Kosovo per impedire nuovi pogrom di serbi, titolava qualche giorno fa la giornalista serba Tat’jana Stojanovič sulla russa REX, aggiungendo che la leadership del «Kosovo separatista non è granché interessata al dialogo con Belgrado, dato che ha già ottenuto dalla dirigenza serba tutto quanto poteva esigere».

La Stojanovič scrive ora che i discorsi del Presidente serbo Aleksandar Vučič sul “Mondo serbo” non sono altro che un paravento per consegnare il Kosovo, e sembrano fatti apposta per esser rigettati, tanto che il leader dei musulmani bosniaci, Bakir Izetbegovič, vede nell’idea lanciata dal Ministro degli interni serbo, Aleksandar Vulin, di un “Mondo serbo” capeggiato da Vučič, l’intenzione serba di «nuove aggressioni».

Oltretutto, a parere dell’ex deputato serbo Đorđe Vukadinović, l’idea di un “Mondo serbo” viene lanciata a puro scopo propagandistico, senza nessuna seria intenzione di realizzarla, così che hanno buon gioco i leader regionali, come Izetbegovič o Milo Đukanovič, a «chiamare alla lotta contro le aspirazioni grandi-serbe. Consapevolmente o meno, Vučič ha passato la palla a tutte le forze antiserbe della regione che ora lotteranno contro un preteso “fantasma del nazionalismo serbo”».

Di fatto, dice Vukadinović, tali esternazioni non sono che «un alibi per coprire la politica capitolazionista delle attuali autorità serbe di fronte al Kosovo e Metohija».

Anche il prof. Dejan Mirovič, dell’Università di Mitrovitsa, giudica tale idea «propagandistico-caricaturale», affinché i serbi si dimentichino della firma di Vučič agli accordi di Bruxelles, a quelli di Washington, con il cerchio che ora si chiude con i colloqui col Primo ministro separatista Albin Kurti.

Tra l’altro, dice Mirovič, «Vučič parla della Republika Srpska, del Montenegro, ma evita di citare il Kosovo. La Republika Srpska fa parte dello stato di Bosnia e Erzegovina, riconosciuto a livello internazionale. Il Montenegro è membro riconosciuto delle Nazioni Unite e anche membro della NATO. Invece, il Kosovo e Metohija, in conformità alla Risoluzione 1244 ONU, che garantisce i confini serbi, fa parte della Serbia. Il revisionismo storico-giuridico nei Balcani esiste solo quando si tratta di Kosovo e Metohija. Nessuno contesta l’Accordo di Dayton, nessuno contesta l’indipendenza del Montenegro e la sua appartenenza all’ONU, così come l’indipendenza di Bosnia e Erzegovina. Di contro, tanto l’Occidente quanto Vučič contestano importanza e validità della Risoluzione 1244, difesa solo da Russia e Cina.».

Così, in Kosovo si sta di nuovo avvolgendo la spirale di violenza contro i serbi, ma sembra che questo non impensierisca il Presidente Aleksandar Vučić, scrive su REX il nazionalista serbo Mlađan Đorđević, originario del Kosovo.

La scorsa settimana, Vučić si è incontrato col Primo ministro del Kosovo, Albin Kurti, per continuare, sotto egida UE, i negoziati per semplificare la firma del cosiddetto accordo giuridicamente vincolante, in base al quale Belgrado riconosce di fatto l’indipendenza del Kosovo e gli assegna un seggio all’ONU.

Intanto però, racconta Đorđević, leader di Pokret Oslobođenje (Movimento Liberazione) aumentano in Kosovo gli attacchi alla comunità serba, con bastonature, molestie, con politici e organizzazioni albanesi che incitano i serbi ad andarsene e con minacce persino ai religiosi ortodossi.

Tutto questo ricorda il pogrom del marzo 2004, afferma Đorđević, quando folle organizzate di albanesi kosovari attaccarono gli insediamenti serbi in Kosovo e Metohija, espulsero migliaia di serbi, ne uccisero 11, bruciando case, chiese e monasteri.

Oggi, continua Đorđević, «l‘escalation di violenza contro i serbi in Kosovo e Metohija coincide con l’ascesa al potere di Albin Kurti, leader del movimento “Autodeterminazione”, presentato da Berlino come progressista e di sinistra, in realtà ultranazionalista, che sostiene la creazione di una “Grande Albania”».

È chiaro quale sia «l’agenda di Kurti: un Kosovo etnicamente puro», dice Đorđević; ma non è chiaro «perché Vučič taccia, non condanni gli attacchi, non protesti con le forze internazionali sul territorio del Kosovo e Metohija, non minacci di por fine ai negoziati».

Mentre i serbi vengono minacciati, picchiati e arrestati, la “Lista serba”, praticamente un ramo del Partito progressista serbo di Vučič in Kosovo, non fiata.

Sembra che «il programma di pulizia etnica del Kosovo e Metohija non sia solo un piano degli albanesi, ma anche di Vučič, che vuol convincere i serbi che noi non abbiamo più nulla in Kosovo e dobbiamo arrenderci. Poi potrà firmare l’accordo con cui la Serbia riconoscerà di fatto questo stato illegale e gli aprirà la strada per ottenere un seggio all’ONU. Oltre l’80% dei serbi si oppone a tale accordo; ma Vučič non presta attenzione all’opinione dei cittadini; sta solo portando avanti il piano propostogli dagli sponsor della NATO».

Tanto più che, negli ultimi nove anni, Belgrado ha dotato il Kosovo di tutti gli attributi statali: polizia, dogana, tribunali, telecomunicazioni e centrali elettriche, eliminando invece tutte le istituzioni serbe. A questo punto, Kurti «ha solo bisogno di un’altra firma di Vučič, che sarà raggiunta per lui da Washington, Berlino o Bruxelles».

Ci sono tre passi, dice Đorđević, che Vučič non farà mai, ma che potrebbero migliorare radicalmente la posizione dei serbi in Kosovo. «Il primo è la cessazione di ogni contatto con gli albanesi fino a quando non sarà garantita la sicurezza dei serbi. Il secondo è il ritorno di forze di sicurezza serbe in Kosovo e Metohija, in base alla risoluzione 1244. Il terzo è una richiesta ufficiale perché la Russia venga coinvolta nel processo negoziale e in seguito, insieme alla Cina, blocchi ogni tentativo del Kosovo di diventare membro dell’ONU.

Ciò richiederà innanzitutto l’abolizione di tutti gli accordi illegali firmati dal 2013 a oggi e, successivamente, sarà necessario negoziare esclusivamente nell’ambito della risoluzione 1244, che garantisce la sovranità della Serbia sul Kosovo con ampia autonomia per gli albanesi. Tuttavia, l’attuale regime di Belgrado non farà nulla del genere, dato che la sua agenda è quella dei centri di potere occidentali».

In effetti, dopo l’incontro del 8 luglio, Vučič e Kurti si sono riuniti di nuovo a Bruxelles il 19 luglio, ma, stando a quanto dichiarato dal rappresentante UE per il dialogo Belgrado-Priština, Miroslav Lajčak, ci sono stati «pochissimi progressi».

Kurti capisce che il tempo per la “grande vittoria” dei separatisti albanesi a Bruxelles è finito, afferma il politologo serbo Stevan Gajič: «l’occasione fu persa nel 2018, quando era in discussione la variante della cosiddetta demarcazione del Kosovo. Possiamo dire che Alexandar Vučič, Hashim Thaci ed Edi Rama costituissero una sorta di “partenariato”: si accusavano e si attaccavano a vicenda, lasciando all’avversario l’opportunità di esibire la retorica nazionalista di fronte al pubblico di casa. In quel periodo, gli albanesi kosovari avrebbero avuto la possibilità di ottenere un accordo con Belgrado, ma, proprio grazie a Kurti, che esercitò pressioni su Thaci, ciò non avvenne, e grazie a Dio».

Gajič rileva come oggi Russia e Cina stiano sostenendo una soluzione sul Kosovo e Metohija conforme alla Risoluzione 1244 e come, tra l’altro, la Russia si trovi in «una posizione più vantaggiosa, dal momento che il gasdotto “Turkish stream” è finalmente prolungato dal confine bulgaro-serbo a quello serbo-ungherese e ora Russia e Cina, in qualità di stati che stanno rafforzando la presenza nei Balcani, hanno tutto il diritto di formulare i loro interessi in modo più chiaro».

Ricordando come Albin Kurti non volesse assumersi a Bruxelles l’impegno a reprimere le provocazioni contro la popolazione serba del Kosovo e Metohija, Mosca «potrebbe fare un passo, anche molto prudente e, dato il ventennale mancato rispetto della Risoluzione 1244, riportare il proprio contingente in Kosovo».

A sentire Albin Kurti, afferma Đorđević, «Vučič dovrebbe fare una cosa sola: riconoscere l’indipendenza del Kosovo o fornirgli un posto nell’ONU. Gli albanesi non vogliono essere d’accordo su nulla finché Vučič non soddisferà questa condizione»; Kurti dimentica però che questo passo non può essere compiuto senza il consenso di Mosca.

In sostanza, conclude Đorđević, noi riteniamo che Vučič abbia «tradito gli interessi nazionali e violato ripetutamente la Costituzione e per questo dovrebbe andare sotto processo. Quando ci sarà un cambio di potere, il primo passo sarà quello di cancellare tutti gli accordi firmati da Vučič con i criminali di guerra – Hashim Thaci e Ramush Haradin».

È ancora Tat’jana Stojanovič ad allargare la prospettiva del confronto serbo-kosovaro alle ambizioni neo-ottomane, in base alle quali possono spiegarsi anche le parole di Recep Erdogan, secondo cui la Turchia «sta operando per accrescere il numero di paesi che riconoscono il Kosovo». Naturalmente, affermano i redattori del canale-telegram “Balkan Gossip”, citati dalla Stojanovič, ciò avviene nell’ottica dell’ideologia del panturkismo, o di un “neo-ottomanesimo”, nel cui quadro i Balcani costituiscono per Ankara una sfera di influenza del tutto naturale.

Oggi la Turchia tende a espandere la propria influenza nei Balcani anche attraverso le organizzazioni umanitarie. Quasi il 20% del budget della TIKA (Turkish Cooperation and Coordination Agency) va ai Balcani occidentali; la Fondazione “Yunus Emre” promuove la lingua turca che, ad esempio, in Kosovo fa già concorrenza all’inglese.

La Fondazione Maarif è ampiamente rappresentata anche nello spazio dell’ex Jugoslavia, mentre la “Diyanet” (Diyanet Işleri Başkanlığı) opera nei Balcani con la cosiddetta “diplomazia religiosa”, finanziando la costruzione di moschee, attività editoriali, letteratura islamica in bosniaco, bulgaro e albanese.

Per quanto riguarda la memoria del dominio ottomano, sostengono al“Balkan Gossip”, i turchi usano efficacemente i moderni strumenti di soft power nella lotta contro “pregiudizi secolari”, per migliorare l’immagine della Turchia agli occhi della popolazione locale e riscrivere alcune pagine di storia.

Oltretutto, a dispetto dei vecchi diffusi sentimenti anti-turchi in Serbia, Erdogan è riuscito a costruire un modello pragmatico di cooperazione anche con Belgrado: tra tutti i paesi della regione, la Serbia è oggi il maggior partner commerciale per Ankara e un posto particolare occupano ovviamente gli appalti militari, specie coi droni “Bayraktar”.

Di contro, Aleksandar Vučič ha reagito negativamente alla recente dichiarazione di Erdogan, che ha promesso di lavorare insieme all’Amministrazione USA per il riconoscimento internazionale del Kosovo: non per nulla, la Turchia è stata una delle prime a riconoscere l’indipendenza dell’autoproclamata repubblica.

Per quanto riguarda il ruolo di Ankara nei confronti della popolazione musulmana del distretto serbo di Raška, definito la “piccola Turchia nel sud della Serbia”, pochi mesi fa la Turchia è diventata il primo Paese ad aprire un consolato a Novi Pazar, nella vecchia regione del Sandzak (Sangiaccato).

La sua fedeltà alla Turchia è dovuta agli stretti legami storici e culturali, ma è anche rafforzata dal lavoro di TIKA e dell’Ufficio della diaspora (YTB) nella regione. I turchi stanno aprendo centri medici, ristrutturano scuole nei villaggi, ripristinano ponti e strade: tre anni fa, Erdogan è stato persino dichiarato cittadino onorario di Novi Pazar, e i residenti lo hanno acclamato “Sultan Erdogan!”

L’influenza turca è forte anche in Bosnia e Erzegovina, tanto che per l’ex Primo ministro turco Ahmet Davutoğlu, ideologo del concetto di neo-ottomanesimo, Bosnia e Erzegovina costituirebbero una «questione di vita o di morte» per la penetrazione turca nei Balcani, di nuovo con la cooperazione religiosa e culturale, con festival dedicati al derviscio turco che avrebbe convertito i bosniaci all’Islam, con le attività della TIKA, con il lavoro delle Onlus turche, con gli stretti contatti col leader del Partito di Azione Democratica, Bakir Izetbegovič.

Sul piano militare, prodotti del complesso militare-industriale turco stanno conquistando il mercato balcanico, in particolare quello albanese, del Kosovo, ma anche di Bulgaria, Montenegro, Macedonia del Nord.

A proposito dei rapporti tra Mosca e Ankara, secondo“Balkan gossip” Russia e Turchia hanno approcci diversi ai Balcani. Per la Turchia, si tratta di una regione prioritaria dal punto di vista geografico, storico, culturale, politico ed economico.

«Mosca fa più affidamento sulle relazioni tradizionalmente strette con la Serbia, date da cultura e religione comuni, mentre Ankara non perde di vista nessun Paese della regione e opera in più ambiti. Su una serie di questioni, i due paesi hanno posizioni diametralmente opposte; ma nei Balcani sono anche capaci di un dialogo costruttivo, come dimostra, ad esempio, l’attuazione del “Turkish stream”».

Ricapitolando, in effetti, da tempo i media russi storcono il naso di fronte ad alcune mosse di Vučič e ai suoi abboccamenti euro-atlantici. Evidentemente, a dispetto dei “timori” di Bruxelles e Washington sulla pericolosità della “penetrazione geopolitica russa” portata via gasdotti, il “Turkish stream” non sembra operare tanto bene.

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Il Messico dice addio alla OEA?

Il presidente messicano Andrés Manuel López Obrador ha proposto la sostituzione dell’Organizzazione degli Stati Americani (OSA-OEA) con un organismo autonomo, che non sia lacchè di nessuno, che sia mediatore nei conflitti tra le nazioni in materia di diritti umani e democrazia, ma su richiesta e accettazione delle parti.

Nel corso di una cerimonia per il 238° anniversario della nascita di Simón Bolívar, davanti ai cancellieri e ministri della Comunità degli Stati Latinoamericani e dei Caraibi (CELAC), di cui è presidente pro-tempore, ha formulato un riconoscimento a Cuba per aver affermato la sua sovranità e indipendenza per più di mezzo secolo contro gli Stati Uniti, e ha insistito sulla necessità di dialogare con il potente vicino del Nord.

López Obrador ha recuperato la migliore tradizione diplomatica messicana di difesa del sovranità delle nostre nazioni di fronte alla politica di interferenza permanente di Washington, e ha ripreso la bandiera dell’unità latinoamericana con un appello a sostituire la disfunzionale OEA con un organismo autonomo. E, senza dubbio, il Messico è una voce forte nel consesso regionale.

Non c’è alcun dubbio sulla diversità e le differenze tra i nostri stati caraibici e latinoamericani, derivanti dalle loro culture, dal loro passato coloniale, dalle loro identità etniche, dalla storia di ciascuno, ma è anche fuor di dubbio che qualsiasi differenza può essere superata con il dialogo, con progetti comuni, con rispetto, senza fobie ideologiche, in organismi multilaterali senza tentazioni imperialiste.

Per poter imporre le loro politiche neoliberiste di depredazione delle nostre ricchezze, per soggiogare i nostri popoli con un debito estero odioso e immorale che impedisce qualsiasi progetto di sviluppo – individuale o collettivo – i governi degli Stati Uniti e la piattaforma OEA, hanno fatto attacchi contro Celac, Unasur, Mercosur, la Comunità Andina delle Nazioni, contro tutte e ciascuna delle organizzazioni di consultazione, cooperazione e integrazione dei nostri popoli.

Fin dalla sua nascita, l’OEA è stata una semplice cinghia di trasmissione delle direttive di Washington, ed è per questo che è stata denominata “Ministero delle Colonie”. Ma sotto la segreteria dell’uruguaiano Luis Almagro, l’istituzione è sprofondata in un’ignominia senza precedenti.

È stata l’OEA di Almagro a orchestrare il colpo di stato del 2019 in Bolivia, a trasmettere la rappresentanza del Venezuela a Juan Guaidó, un personaggio ridicolo, senza rappresentanza legale né altre credenziali se non l’approvazione e il finanziamento di Washington, e a criminalizzare le vittime della feroce repressione messa in atto dai governi di Cile e Colombia negli ultimi due anni.

Ha anche guidato il martellamento criminale contro Cuba e ha reso ben evidente la sua mancanza di scrupoli e la sua oscena sottomissione ai disegni di Washington insistendo sugli scontri, in cui ha dimostrato la sua totale mancanza di rispetto e/o decoro.

La proposta di López Obrador ricerca una nuova maniera di relazionarsi che implichi la cooperazione per lo sviluppo e il benessere di tutti i popoli della regione, ma secondo i principi di non intervento, autodeterminazione e soluzione pacifica dei conflitti. “Inizieremo una relazione nel nostro continente con la premessa di George Washington, secondo la quale le nazioni non dovrebbero approfittare della sventura di altri popoli“, ha detto.

Il presidente messicano ha fatto riferimento alle relazioni del suo paese con gli Stati Uniti e ha osservato che la vicinanza costringe a cercare accordi, “perché sarebbe un grave errore prendere a calci Sansone, ma allo stesso tempo abbiamo forti ragioni per affermare la nostra sovranità e dimostrare con argomenti, senza slogan, che non siamo un protettorato, una colonia o il loro cortile di casa“, ha sottolineato.

E ha chiarito che è ormai inaccettabile la politica degli ultimi due secoli seguita da Washington, caratterizzata da invasioni per mettere o rimuovere governanti a capriccio delle superpotenze. “Diciamo addio alle imposizioni, alle interferenze, alle sanzioni e ai blocchi. Solo Cuba, da oltre mezzo secolo, ha fatto valere la sua indipendenza, affrontando politicamente il vicino del nord“, ha detto.

“Si può essere d’accordo o meno con la Rivoluzione Cubana e il suo governo, ma aver resistito 62 anni senza sottomettersi è davvero un’impresa. Di conseguenza, credo che, per la sua lotta in difesa della sovranità del Paese, il popolo di Cuba meriti il ​​premio della dignità e quell’isola deve essere considerata come la nuova Numanzia per il suo esempio di resistenza. Per lo stesso motivo, dovrebbe essere dichiarata patrimonio dell’umanità“, ha sottolineato.

López Obrador ha fatto un ampio racconto della biografia di Simón Bolívar, nella sua lotta per raggiungere l’unità del continente. Non tutto è stato facile. Ha perso battaglie, ha affrontato tradimenti – ha ricordato – e, come in ogni movimento trasformatore o rivoluzionario, sono apparse divisioni interne, che possono essere anche più dannose delle lotte contro i veri avversari, ha avvertito.

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