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16/07/2021

La complicità militare tra Italia e Israele, frutto avvelenato del memorandum del 2005

di Flavia Lepre

Intervista all’ex senatore Francesco Martone sugli accordi di cooperazione militare tra Italia e Israele.

Le esercitazioni militari di giugno, le prime congiunte USA Italia Israele Gran Bretagna con gli F35, appena dopo la proclamazione del “cessate il fuoco” dell’ennesimo massiccio bombardamento israeliano su Gaza effettuato anche dagli F35, hanno evidenziato ancora una volta il serissimo rischio d’incostituzionalità di una serie di operazioni militari in cui l’Italia va sempre più avviluppandosi. Si parla nuovamente degli accordi di cooperazione militare Italia-Israele e si fa strada l’intenzione di chiedere l’abrogazione della legge 94/2005 che li ratificò.

Su PeaceLink Rossana De Simone indica nel “Memorandum d’ intesa tra il Governo della Repubblica italiana ed il Governo dello Stato di Israele in materia di cooperazione nel settore militare e della difesa”, redatto a Parigi il 16 giugno 2003” dal Governo Berlusconi (Ministro della Difesa Antonio Martino) e ratificato dal Parlamento italiano con l’approvazione della Legge 94/2005, la misura legislativa che ha consentito, legittimandoli in partenza, molti accordi successivi.

Tra i senatori che cercarono di opporsi alla ratifica e che votarono contro, Francesco Martone, in quella XIV Legislatura (2001-2005) dei Verdi-L’Ulivo, impegnato in varie Commissioni ed in particolare in quella Affari esteri e in quella straordinaria per la tutela e promozione dei diritti umani. Anche nella successiva Legislatura, 2006-2008, come senatore di Rifondazione Comunista, sarà impegnato nella commissioni esteri e farà parte della Delegazione parlamentare italiana presso l’Assemblea parlamentare della NATO. Socio fondatore di Green Peace Italia, collaboratore in qualità di giurato con il Tribunale Permanente dei Popoli ed il Tribunale Internazionale per i Diritti della Natura, ed ha fatto parte del Consiglio Nazionale di Un Ponte per.

Francesco Martone ha gentilmente accettato di aiutarci a inquadrare le condizioni in cui maturarono il Memorandum e la successiva ratifica parlamentare, i motivi di quella lotta e di quella inevitabile – visti i rapporti di forza tra le rappresentanze politiche – sconfitta.

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Innanzitutto bisogna tener conto del più generale contesto politico in cui avvenne quella ratifica. La “guerra globale al terrore” di Bush era la base dell’ideologia della guerra come normale condizione permanente. A marzo del 2003 l’invasione statunitense dell’Iraq.

L’Italia a luglio 2003 inviò truppe in Iraq per l’operazione “Antica Babilonia”, approvata dall’ONU per “salvaguardia e mantenimento della pace” ed operazioni di ”polizia internazionale”.

La legge 185/90 “sul controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento” tesa a dare attuazione all’Art.11 della Costituzione, che notoriamente esprime il “ripudio” della “guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”, subordinando il trasferimento di armi alla Costituzione e ad alcuni principi del Diritto Internazionale, oltre che alla coerenza con la politica estera e di sicurezza italiana, a giungo 2003 venne modificata (L.148) per renderla compatibile con l’accordo di Farnborough, del 2000, volto a costruire una politica europea comune di cooperazione per la ristrutturazione e lo sviluppo dell’industria della difesa, e furono “snellite e semplificate le procedure per le coproduzioni di armi”.

Successivamente, sempre più sfocate ne sono risultate trasparenza, responsabilità ed il monitoraggio della destinazione finale dei sistemi di arma.

L’Italia era impegnata su più fronti e si assisteva ad una proliferazione di accordi bilaterali di cooperazione nel settore della difesa, che erano presentati come pacchetti da prendere o lasciare, senza che fossero sottoposti al vaglio di costituzionalità.

Il Governo Berlusconi lanciò inoltre il “Piano Marshall per la Palestina” , intenzione contraddetta dal Memorandum Italia-Israele e dalla successiva frettolosa ratifica parlamentare pregiudicando così un possibile ruolo di primo piano dell’Unione Europea nel negoziato di pace tra Palestina ed Israele.

Per molti di noi quell’accordo, il Memorandum, apparve come frutto di uno scambio per il nostro intervento in Iraq: all’Italia veniva concesso per la prima volta l’accesso all’elettronica militare israeliana, fino ad allora di esclusivo appannaggio degli USA.

Quali conseguenze di quell’accordo furono visibili?

All’inizio la ratifica (NdR: L.94/2005) non ebbe risvolti tangibili e fu con il Governo Monti, che oltre alla cooperazione tecnologica si registrò un’escalation nella vendita di armi.

Vorrei anche ricordare un altro accordo ratificato in seguito e relativo alla gestione dell’Ordine Pubblico del 2 dicembre 2013, approvato nel 2017 senza dibattito, con la Legge 86/ 2017. Questo include un ventaglio ampio di collaborazioni, che vanno dal contrasto al crimine organizzato al traffico di droga, al terrorismo, allo scambio di esperienze nella gestione dell’ordine pubblico in manifestazioni di massa e grandi eventi, metodi scientifici e tecnologici nel settore della pubblica sicurezza, dati sensibili e servizi di intelligence.

Possiamo dire che mentre con l’accordo di cooperazione nel settore della difesa l’Italia “entra” nei sistemi israeliani; con l’accordo per l’ordine pubblico Israele “entra” con il suo “know-how” nei sistemi italiani.

Leggendo i resoconti dei dibattiti parlamentari, sembra di assistere allo sviluppo di un crimine: un posizionamento forte del complesso militare-industriale italiano alle soglie della guida del paese. Confermi questa impressione?

La relazione tra armi e politica non è univoca, il commercio di armi è parte della politica estera. E costituisce palesemente un problema politico e non “tecnico”. Gli accordi in campo militare ci rendono nei fatti partecipi della guerra combattuta dallo Stato cui abbiamo venduto quelle armi. Ciò vìola palesemente l’Art.11 della Costituzione ed ignora la L.185/90, che vieta la vendita di armi a Paesi in guerra o che violano i diritti umani. Inoltre, non rispetta la richiesta, secondo la L.185/90, di certificare la destinazione d’uso delle armi vendute.

Bisogna, inoltre, notare come il Ministero della Difesa e quello dell’Industria svolgano un ruolo crescente nella determinazione delle linee strategiche del Paese e della sua proiezione verso l’esterno. La stessa politica europea di sicurezza e difesa ha subito le forti pressioni delle lobby delle industrie degli armamenti.

Per cogliere il peso determinante della lobby degli armamenti va sottolineato il meccanismo delle “porte girevoli” che assicura le relazioni tra apparato della difesa, imprese e politica. Con questo sistema si attua la convergenza tra l’amministrazione della cosa pubblica e gli interessi dell’industria bellica. Esemplare il caso dell’Ambasciatore Castellaneta ai tempi del Governo Berlusconi: già consigliere diplomatico di Berlusconi e membro del Consiglio di Amministrazione di Finmeccanica (oggi Leonardo), fu inviato a Washington per concludere l’affare degli elicotteri Augusta-Westland per i Marines, rimasto senza esito.

Anche il commercio di armi e lo scambio di tecnologie securitarie e di controllo necessitano di essere inquadrati in un contesto più articolato di politiche e rapporti tra Stati.

A questo riguardo, particolarmente interessante è quanto accadde durante il Governo di centro-destra, in un episodio relativo alla guerra in Iraq. La Francia aveva deciso di non parteciparvi. In Costa d’Avorio scoppiò un golpe ed aerei francesi furono colpiti, si disse con l’aiuto di agenti israeliani, poi fuggiti a bordo di aerei italiani. Le prove non furono mai trovate, e la mia interrogazione parlamentare sull’argomento non ebbe soddisfazione. L’episodio fu considerato una vendetta USA contro la non partecipazione della Francia a quella guerra.

Oggi gli equilibri parlamentari sono ancora più a destra, e il governo Draghi incamera l’appoggio di tutti i partiti (esclusi Fratelli d’Italia e Sinistra Italiana). Come vedi possibile una lotta per contrastare la crescente militarizzazione italiana e i suoi stringenti rapporti con quella israeliana che la rendono complice delle numerosissime e sistematiche violazioni israeliane dei diritti dei palestinesi e del diritto umanitario internazionale?

Una lotta efficace non può avere come terreno privilegiato il Parlamento, ma dev’essere sviluppata ed agita dal basso. Come hanno fatto i portuali rifiutandosi di caricare bombe per l’Arabia Saudita ed armi per Israele: quella dei portuali è un’azione centrale per inceppare l’ingranaggio di guerra. Sarebbero inoltre molto utile svolgere un monitoraggio costante dei transiti e rafforzare contatti in Palestina per documentare in modo più dettagliato arrivo ed impiego di queste armi.

Sul versante parlamentare, si potrebbe chiedere un monitoraggio e regolamentazione del meccanismo delle porte girevoli. Inoltre, bisognerebbe elaborare un piano di riconversione dell’industria militare, oggi volano di alta tecnologia, da sviluppare assieme ai sindacati di categoria.

Un disegno di legge per la riconversione dell’industria bellica fu presentato da te ed un gruppo di parlamentari nella XV legislatura nel 2006. Che cosa ne è stato?

Venne presentato dopo un lungo lavoro di elaborazione e stesura collettiva assieme a movimenti pacifisti e centri di ricerca. Non riuscimmo però a farlo mettere all’ordine del giorno anche a causa della fine anticipata della legislatura.

Ritieni che porsi come obiettivo l’abrogazione della Legge 94/2005, di ratifica del memorandum d’intesa per la cooperazione militare tra Italia e Israele abbia oggi un senso?

Questi Accordi, poi convertiti in legge, devono essere boicottati nei fatti, altrimenti, senza una forte pressione dall’esterno, il Parlamento non li abrogherà. È necessario attivare il conflitto sociale, in particolare collegandosi ai sindacati di categoria, dei metalmeccanici, che lo potrebbero porre come punto di una trattativa; dei portuali. Una campagna in tal senso potrebbe permettere d’inserire questo tema in questa legislatura, e favorire un orientamento.

Ringraziando Franco Martone, non è possibile sottrarsi alla consapevolezza dell’enorme lavoro che attende chi voglia dare a questo Paese una svolta culturale e sociale.

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