L’attacco contro Cuba ha sollevato, oltre che la resistenza di quel popolo e la solidarietà internazionalista, anche riflessioni di ogni genere. Amichevoli o ostili, critici solidali o distruttivi. E considerazioni spesso astratte sul “socialismo”, su cui torneremo ben volentieri. Qui, intanto, ospitiamo volentieri la riflessione di Angelo Baracca, scienziato e compagno da sempre.
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Cuba sta affrontando i momenti forse più drammatici dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Ma con poche eccezioni i commenti che si leggono ricadono sotto un paio di stereotipi, pro o contro l’attuale governo: così non si va da nessuna parte, e tanto meno si aiutano il popolo e il governo cubani a superare in avanti l’impasse.
L’esperienza della Rivoluzione cubana è per noi un punto fermo dal quale non si può prescindere, ma a poco servono a mio parere le difese “d’ufficio”: è certo pregiudiziale denunciare con sempre più forza l’inumano bloqueo e le interferenze sempre più pesanti dell’imperialismo yankee, ma se vogliamo dare un contributo che non sia sterile, dobbiamo riflettere anche sul fronte delle insufficienze, magari degli errori, del governo cubano.
Non mi illudo certo di dare un contributo decisivo, ma di contribuire ad una riflessione al di là degli schemi contrapposti. Anche nel movimento – in particolare fra i giovani che spesso non hanno neanche assistito alla caduta del Muro di Berlino – molte cose non sono neanche conosciute.
Cerco di sviluppare un ragionamento di prospettiva generale e di respiro ampio.
Alle origini dell’imperialismo yankee
C’è un detto molto comune nei paesi dei Caraibi: “Povero (ad esempio Messico), così lontano da Dio e così vicino agli Stati Uniti!”
L’imperialismo yankee fu un elemento costitutivo della stessa formazione degli Stati Uniti: l’epopea della “Conquista del West” non fu che l’anticipazione della visione del “destino manifesto” che trovò forma nel 1823 nella “Dottrina Monroe” che espresse spudoratamente il diritto della supremazia degli USA sull’intero continente, e sarebbe stata messa in pratica nei due secoli successivi (rinvio al mio: articolo).
Al volgere dell’Ottocento Cuba fu il primo passo concreto significativo di questo imperialismo. Nel 1898 gli Stati Uniti intervennero pretestuosamente nella guerra ispano-cubana in corso dal 1895 (che ormai viene non a caso mistificata come guerra “ispano-americana”!) – che i cubani stavano vincendo alla grande per conquistare la vera indipendenza – e sbaragliarono in pochi mesi l’esercito spagnolo (a Cuba e nelle Filippine).
I cubani furono esclusi dal conclusivo Accordo di Parigi, e gli USA occuparono militarmente Cuba fino al 1902, quando consentirono la proclamazione della Repubblica di Cuba, pesantemente sottoposta al controllo e alle interferenze di Washington (che più volte intervenne militarmente nell’isola).
Il dittatore Fulgencio Batista era un fantoccio degli USA, e Cuba era nota dispregiativamente come “il bordello degli Stati Uniti”.
Così l’avventuroso “sbarco del Granma” nel 1956 e l’inattesa vittoria dei barbudos nel 1959 furono per gli Stati Uniti uno schiaffo che non hanno mai potuto dimenticare!
Se non se ne tiene conto non si capisce pienamente la rabbiosa ostinazione di un bloqueo lungo 60 anni, che sette anni fa il presidente Obama aveva giudicato inefficace.
Deve essere chiaro che se Cuba non si fosse pesantemente appoggiata all’URSS, la Rivoluzione sarebbe inevitabilmente stata stroncata in modo violento dagli USA: l’umiliazione dell’invasione organizzata dalla CIA alla Baia dei Porci del 1961 non averebbe certo fatto desistere Washington dalla determinazione di abbattere il governo rivoluzionario.
Sono stati gli USA che hanno gettato Cuba nelle braccia dell’URSS! Fidel si era formato alla scuola dei Gesuiti, e la rivoluzione cubana non era nata con un’impostazione comunista.
La cancellazione – o l’«ignoranza» soprattutto per le nuove generazioni – della memoria storica è un problema fondamentale per tutti i popoli. Altrimenti non si capirebbe il ritorno di forti correnti naziste, radicate in molti giovani.
Le storie di Haiti, o Porto Rico dovrebbero essere specchi di quale sarebbe stato il destino anche di Cuba se non si fosse scossa dal giogo degli Stati Uniti (per Haiti si veda Geraldina Colotti). Ma so per esperienza diretta che è difficile far riflettere molti cubani su queste cose.
La storia non si fa con i “se”, ma mi incuriosisce pensare a cosa sarebbe potuta essere la Rivoluzione cubana, con la creatività che dimostrò soprattutto nella sua prima fase, se non avesse avuto i condizionamenti, di segno opposto, degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica.
Il peso persistente del modello sovietico
L’adesione di Cuba al Blocco comunista, ha pesantemente condizionato la sua struttura economica e sociale.
Cuba non abbracciò subito il modello sovietico. Nei primi anni Sessanta vi fu un vivacissimo dibattito sulle scelte di sviluppo. Il Che, come ministro dell’industria, sviluppò una crescente contrarietà al modello sovietico: egli condusse una accanita opposizione alle correnti che a Cuba poi prevalsero in campo economico e produttivo.
Perché è estremamente attuale oggi ricordarlo? Perché (senza entrare in giudizi sulle concezioni del Che) il sopravvento della elefantiaca statalizzazione di ogni più piccolo aspetto dell’economia cubana mantiene tutt’ora conseguenze che gravano ancora oggi pesantemente (con la soffocante burocrazia, contro la quale il Che pure si era battuto).
Era stato davvero opportuno seguire alla lettera il modello sovietico? Il negozietto di barbiere, il piccolo ciabattino, tante piccole attività che non arricchivano il proprietario, dovevano per forza essere collettivizzati?
Quando andai a Cuba per la prima volta nel 1995 vi erano ancora grandi empori o laboratori collettivi, per barba e capelli, o per la riparazione delle scarpe, dove spesso la riparazione lasciava molto a desiderare.
Proprio nei primi anni delle mie visite la penuria dei generi di prima necessità rese indilazionabile l’apertura degli agromercati, dei piccoli ristoranti privati chiamati paladar, dei meccanici di biciclette, dei ciabattini. Credo che pochi di loro si siano arricchiti, almeno allora.
Mentre ho visto con i miei occhi laureati in ingegneria elettronica che avevano lasciato l’università perché lavorando in un pub con le sole mance dei turisti guadagnavano di più. Pullulavano i tassisti al nero, mentre le compagnie di taxi statali erano inefficienti e ostacolate dalle moltissime vetture ferme per riparazioni inconcludenti (mentre ogni almendròn degli anni ’50 che si arrestava per un guasto poi ripartiva).
Nelle ristrettezze del período especial molti problemi del sistema statale vennero al pettine. Per dirne uno, nei ristoranti dello stato si mangiava malissimo, perché i condimenti venivano sottratti e venduti. Non si tratta certo di dire che «il privato è meglio», ma il passo può essere breve, soprattutto davanti alla necessità di sgravare il sistema statale e promuovere attività por cueta propia. Un allineamento che non è mai stato subalternità
Forse se dall’inizio si fossero fatte scelte più equilibrate, la situazione oggi potrebbe essere diversa. Perché, d’altro lato, è indubbio che il controllo statale ha invece consentito quella pianificazione della struttura sanitaria e dell’industria biotecnologica che ha portato Cuba a livelli di eccellenza (e che i cubani che giustamente manifestano per i propri bisogni essenziali invece non tengono nel debito conto! Non hanno torto a denunciare lo scadimento innegabile del sistema sanitario, ma molti di loro addossano le colpe solo al governo e sottovalutano i danni del bloqueo).
Anche se bisogna dire che Cuba non è mai stata totalmente allineata con l’Unione Sovietica, è stata il paese del Blocco Comunista che ha mantenuto la maggiore autonomia dal modello sovietico.
Proprio l’eccellenza che Cuba ha raggiunto nei settori decisivi della medicina e della biotecnologia lo dimostrano: Cuba si è valsa con grande libertà fin dall’inizio del supporto e la collaborazione dei maggiori scienziati e istituzioni di paesi capitalisti.
Anche quando l’allineamento di Cuba con l’URSS si fece più stretto – dopo il ritiro del Che dalla politica attiva e la sua successiva uccisione in Bolivia (9 ottobre 1967), e dopo il fallimento dell’ambiziosa Zafra de los 10 millones del 1970 – con l’entrata di Cuba nel Comecon e l’inizio del Quinquenio gris (1971-1975), con l’adesione al “realismo socialista” e la marginalizzazione di molti intellettuali (come il grande scrittore Lezama Lima), Cuba non cambiò queste scelte: che dal 1971 permisero l’intensa collaborazione con i maggiori biologi italiani per la formazione dei genetisti cubani [1] (laddove l’URSS, dopo “l’affare Lysenko”, non sarebbe stata in grado di fornire il benché minimo supporto) e l’avvio del settore biomedico-tecnologico d’eccellenza a livello mondiale.
Bisogna aver collaborato con gli scienziati cubani per avere toccato con mano la radicale differenza rispetto all’ambiente accademico italiano, ma anche internazionale, l’assenza di competizione personale e lo spirito di collaborazione di tutti per il bene del paese! (Rosella Franconi, “Uno sguardo dove la scienza è audace: per esempio Cuba”, Su la Testa, novembre 2020)
Si è dimenticato troppo presto l’impegno che Cuba ha prodigato in Africa a fianco delle lotte di liberazione. Il Che si impegnò direttamente nel Congo, anche se in campagne sfortunate, e successivamente, proprio in coincidenza con il Quinquenio gris, dopo la Rivoluzione dei Garofani in Portogallo, in una fase della Guerra Fredda che impediva agli USA e all’URSS di effettuare un pesante intervento militare diretto, Cuba inviò un contingente militare in Angola a sostegno del MPLA che insieme agli angolani mortificò le ambizioni del regime razzista del Sudafrica, che ambiva a imporre l’apartheid in tutto il Continente (A. Baracca, “23 marzo 1988, Quando Cuba sconfisse il Sudafrica e cambiò il destino dell’Africa”, Pressenza, 23 marzo 2021, ).
Non stupisce certo che gli USA parlino di terrorismo, dal momento che Cuba si opponeva ai suoi piani imperialisti.
Si, ma la democrazia!
Il tema della “democrazia” non può essere liquidato in due battute.
In Italia conosciamo i corsivi di Panebianco sul Corriere della Sera, che denota Cuba come «una prigione a cielo aperto». Pochi fra i detrattori e critici di Cuba sembrano riflettere che è singolare un sistema totalitario che ha sradicato l’analfabetismo, trasformato 600 caserme in scuole, istituito un sistema d’istruzione moderno e gratuito fino ai livelli più alti, attuato una parità uomo-donna che forse non è perfetta ma certo migliore di tanti paesi “democratici”, organizzato un sistema di salud pùblica universale e gratuito che ha sradicato le malattie che inflazionano i paesi sottosviluppati, realizzando un profilo sanitario della popolazione fra i migliori al mondo (un solo esempio, l’indice di mortalità infantile è inferiore a quello degli Stati Uniti, e di alcune regioni italiane).
I sistemi totalitari che conosciamo, ma anche semplicemente conservatori, fanno esattamente l’opposto. Anche se non si può negare che tutti questi servizi sociali si sono andati nettamente deteriorando negli anni recenti, ma su questo tanto più si deve insistere sugli effetti nefasti dell’inasprimento delle misure del bloqueo: è precisamente quello che gli Stati Uniti vogliono, non gli interessa nulla delle condizioni di vita dei cittadini cubani.
A proposito di «democrazia», per uscire dai luoghi comuni, non mi sembra superfluo richiamare en passant tragedie epocali, limitandomi all’America Latina, dalle quali Cuba è stata esente: e scusate se è un vantaggio da poco!
Dall’ondata dei regimi fascisti, alla serie interminabile di colpi di stato (insanguinati o bianchi) con rovesciamenti di regimi «democratici», lasciando spesso lunghissimi strascichi che non sono mai veramente conclusi: le vittime, i soprusi, le violenze di ogni genere non si contano!
Si sono ammantati di «democrazia» golpe come quello che nel 2009 in Honduras destituì il presidente legittimamente eletto Manuel Zelaya (e ora dall’Honduras fuggono carovane di disperati), per non parlare dei tentativi di golpe in Venezuela.
Come scrive Frei Betto (Contropiano, 15 luglio 2021): “Non c’è niente di più svenduto del linguaggio. La famosa democrazia nata in Grecia ha i suoi meriti, ma è bene ricordare che, all’epoca, Atene aveva 20.000 abitanti che vivevano del lavoro di 400.000 schiavi. […] La rotazione elettorale non assicura né garantisce la democrazia. Il Brasile, considerato una democrazia, è un chiaro esempio di miseria, povertà, esclusione, oppressione e sofferenza”.
I partiti politici non sono sinonimi di democrazia, basta guardare al continente americano per vedere come spesso siano canali di finanziamenti illeciti, penetrazione economica, manipolazione ideologica e politica, corruzione, pesanti interferenze negli affari interni degli Stati, che poco o nulla hanno a che fare con la “democrazia”.
Io mi sono fatto l’idea che se Fidel avesse consentito la formazione di partiti politici la Rivoluzione sarebbe morta dopo il 1989, come del resto è accaduto in tutti i paesi dell’Est.
Questo non vuol dire che non dobbiamo, noi per primi, riconoscere la legittimità del popolo cubano di chiedere maggiore libertà di espressione e di strumenti e canali per incidere sulle scelte di politica economica e nella vita sociale.
Credo che dovremmo superare, noi per primi, la contrapposizione, idee stereotipate anche nella sinistra sulla “democrazia”. Non è certo per buttarla sul ridere, ma trovo anche una grande saggezza (castiga ridendo mores) nelle parole del grande Giorgio Gaber, “La democrazia”, dall’album “Un’Idiozia Conquistata a Fatica”: «...dal 1945, dopo il famoso ventennio, il popolo italiano ha acquistato finalmente il diritto al voto. È nata così la famosa democrazia rappresentativa, che dopo alcune geniali modifiche, fa si che tu deleghi un partito, che sceglie una coalizione, che sceglie un candidato, che tu non sai chi è, e che tu deleghi a rappresentarti per cinque anni. E che se lo incontri, ti dice giustamente: “Lei non sa chi sono io”. Questo è il potere del popolo...».
Il contributo positivo che a mio parere dovremmo dare ai compagni cubani dovrebbe essere lo stimolo a sviluppare (a volte rivitalizzare) forme di partecipazione collettiva, di sburocratizzazione, ad esempio di realizzazione concreta della Costituzione discussa capillarmente e approvata nel 2019. Noi non siamo legittimati a dare giudizi perché troppi aspetti della nostra Costituzione rimangono inattuati dopo 74 anni!
La grave erosione dell’egualitarismo
Ci sono cose relative a Cuba che un visitatore che abbia un minimo di attenzione non può mancare di osservare. Per dirne una, le città di tutta l’America Latina (ma non solo) hanno delle grandi favelas marcate da condizioni di vita degradanti: a Cuba non ne esiste una, anche se le condizioni di molti appartamenti non sono delle migliori. Non vi sono “bambini di strada”.
Ma non occorre andare molto lontano per vedere l’impressionante aumento dei clochard a Parigi, per non parlare degli attendati che pullulano sui marciapiedi delle metropoli degli Stati Uniti (Luca Celada, “Welcome to homeless California”, Il Manifesto, 7 gennaio 2020).
Per i servizi sociali, non solo il sistema di salud pùblica – concetto molto diverso da quello di “sanità” – sviluppato a Cuba è paragonabile a quello dei paesi più avanzati, il servizio meteorologico e la protezione civile consentono di ridurre drasticamente il numero di decine o centinaia di vittime che gli uragani e cicloni tropicali mietono in tutti i paese dei Caraibi, compresa la Florida: Cuba in occasione degli allarmi di uragani riesce a sfollare centinaia di migliaia di persone, malgrado le crescenti difficoltà economiche.
A Cuba non esistono (più) le differenze e le discriminazioni razziali che sono presenti in tantissimi paesi, anche di primo piano, Stati Uniti in primis. Tuttavia «le differenze razziali, dagli anni novanta in poi, si sono accentuate. Da quando le rimesse dell’estero sono diventate vitali, e si dà il caso che il grosso dei cubani emigrati fosse bianco e abbia, quindi, mandato denaro alle famiglie bianche, mettendo loro e solo loro in condizione di partire con la piccola impresa.» (Lia de Feo, “Omaggio a Fidel”, Contropiano, 27 novembre 2016).
Eppure so per esperienze dirette che in non pochi cubani persistono pregiudizi nei confronti delle persone di colore.
Cuba era annoverata nei decenni passati fra i paesi più egualitari, ma nei miei soggiorni nell’isola dal 1995 ho visto aumentare le differenze economiche nei diversi strati della popolazione.
L’internazionalismo è l’opposto del terrorismo
La grossolanità e l’arroganza della politica degli Stati Uniti arrivano a livelli paradossali, che sarebbero ridicoli se non fossero tragici. Gli Stati Uniti praticano arrogantemente il terrorismo internazionale, si ritengono in diritto di assassinare esponenti di altri paesi, o di bombardarli, nonché sferrare guerre contro di loro, con pretesti “umanitari” o di difesa dei “diritti umani”, quelli che essi violano sistematicamente a casa loro (o nel “giardino di casa” come il lager di Guantanamo).
Mantenere Cuba nella lista dei paesi che praticano il terrorismo è un pretesto aberrante!
Non sto qui ad enumerare una volta di più i genuini aiuti e soccorsi umanitari che Cuba ha sempre portato ai paesi poveri, nei casi di disastri ambientali o epidemie. In occasione del terremoto ad Haiti del 2010, Cuba inviò brigate mediche specializzate, gli USA 3.500 soldati e una portaerei (emulati supinamente dall’Italia che inviò la portaerei Cavour)!
In America Latina gli Stati Uniti ricevono il comprensibile disprezzo delle masse popolari (a fronte dell’interessata complicità dei gruppi di potere), mentre come sottolineava Lia de Feo:
«I cubani sono rispettati, in America Latina. Se lo sono guadagnato. E alla fine, è questo: li rispetti. Io li rispetto. Non li amo, ma li rispetto.
E quando hai girato per tutto il Centro America, e non ne puoi più di vedere bambini coperti di stracci, bambini che in Chiapas vanno a lavorare trascinandosi zappe più grandi di loro, bambini che circondano il Ticabus a ogni sosta della Panamericana armati di stracci e si mettono a lavarlo in cambio di un’elemosina, finisce che non vedi l’ora di tornarci, a Cuba, e di vedere finalmente bambini normali (la normalità è un concetto molto mobile), con l’uniforme lavata e stirata, belli pettinati con la riga a lato o le treccine e che vanno, tutti, A SCUOLA. Oppure a giocare. E che non lavorano. Mai.
Riatterri a Cuba che trabocchi di rispetto. Lo dici al taxista che ti riporta all’Avana e lui è contento, rincara la dose: “È vero, noi ci lamentiamo e ci dimentichiamo del buono, ma è proprio vero. Anche i nostri portatori di handicap, non c’è confronto. E che dire della delinquenza, del narcotraffico? Siamo fortunati, noi.”
Sì, sono fortunati, loro. Perché è una questione di prospettiva: se nasci povero, malato, sfortunato, è meglio se nasci a Cuba. Molto meglio, proprio. Fuori da lì, muori e muori male. Un povero non vuole essere guatemalteco, haitiano, dominicano. Vuole essere cubano, credimi.»
Note:
1. Devo rimandare al volume di Angelo Baracca e Rosella Franconi, Cuba: medicina, scienza e rivoluzione, 1959-2014. Perché il servizio sanitario e la scienza sono all’avanguardia, Zambon, 2019 ( il contributo decisivo dei biologi italiani è discusso nel paragrafo 2.9).
Fonte
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