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18/07/2021

Scuola. I risultati delle prove Invalsi alla luce della Didattica a Distanza

La diminuzione delle capacità di lettura degli studenti, il fatto che per loro leggere delle terzine di Dante equivale a confrontarsi con una lingua straniera, la povertà delle capacità interpretative sono fenomeni che registriamo da anni, e sono conseguenza di tutta la politica di distruzione della scuola portata avanti da Berlinguer (dall’Autonomia scolastica, in verità) in poi.

Sostenere che queste abilità sarebbero drasticamente peggiorate dallo scorso anno è ridicolo, e i risultati INVALSI sembrano proprio corrispondere a una profezia che si autoavvera, dal momento che coincidono con quello che veniva diffuso tra la stampa mainstream già all’inizio della pandemia, quando non si aveva ancora alcun dato disponibile. Ovvero che le scuole che avevano da tempo applicato i princìpi riformatori, stavano affrontando con successo l’esperienza della DAD.

Aggiungo che è un fenomeno (con buona pace di come vengono strumentalizzati i test OCSE-PISA, nei quali non a caso non viene rilevata una particolare differenza tra i nostri studenti e quelli delle nazioni più blasonate) che riguarda tutte le giovani generazioni europee.

D’altra parte, chiunque abbia una sufficiente esperienza di scambi internazionali, non si è mai confrontato con studenti che, rispetto ai nostri, sarebbero chissà quali fulmini di guerra.

Un anno mi è capitato anche di partecipare al progetto Europa Haus di Aurich dove, sulla base di un progetto comune, si confrontavano classi provenienti da Olanda, Spagna Germania e Italia.

Beh, non solo per quanto riguarda il confronto sul piano delle capacità rielaborative, la differenza era notevole, e tutta a favore dei nostri studenti. Ma, soprattutto, è stato importante il confronto con i colleghi (olandesi e tedeschi, in particolare i primi) i quali invidiavano decisamente il nostro modo di insegnare, costretti loro ad approcci empirici effettivamente limitanti.

E, nel momento in cui cercavamo di deviare da tali approcci – così affermavano – trovavano un’indisponibilità da parte degli studenti, ormai abituati a risolvere i problemi in modo meccanico. E i risultati, sul piano proprio dei lavori prodotti, si vedevano.

Questo per dire che ci troviamo di fronte a un regresso culturale che coinvolge l’intero mondo occidentale, e sulle cui motivazioni si espresse mirabilmente Lucio Russo in un incontro alla Casa della Cultura di circa un paio d’anni fa.

Andiamo a fare qualche proposta. Prima di tutto, rispetto a tali problemi (contestualizzati, storicizzati e non fatti dipendere demagogicamente dalla DAD) riprendere l’iniziativa noi docenti, e respingere la demagogia dei Gavosto, ANP e Raimo, per la quale sarebbe l’impreparazione degli insegnanti a determinare tali risultati, e non gli effetti catastrofici di un processo riformatore decennale.

Eliminare dalla scuola quelle attività introdotte con il proposito esplicito di destrutturare l’attività didattica (PCTO, progetti ridicoli di varia natura), ritornare a dedicarsi in modo opportuno a obiettivi credibili in modo sistematico, concentrando l’attenzione sullo specifico disciplinare. Non cedere alla tentazione della semplificazione (metodologica, in merito agli strumenti) che aggraverebbe il problema.

Quando nel testo chiave sulla “flipped class” si legge: «Un’idea di sostituire la lettura con la visione di filmati, poiché anche la lettura può far parte del materiale assegnato prima della lezione». O peggio: «Il vecchio materiale didattico, però, fatto di libri e fotocopie, non è certamente lo strumento più coinvolgente per i cosiddetti “nativi digitali”».

Ebbene, non è da questa idea offensiva verso gli studenti che ha origine il drammatico problema che stiamo discutendo? Non siamo di fronte a una demagogia pedagogica? Queste idee flipped in questi anni (ma già dei precedenti) hanno o no prodotto e giustificato quella capacità di lettura e di comprensione dei testi di cui parliamo?

Tenendo conto che non è affatto vero che gli studenti si demotivino quando devono confrontarsi con i propri limiti linguistici, metodologici e contenutistici (certo, qui la personalità del docente conta, ma la mia esperienza mi dice proprio che solo non compiacendoli si ottiene la loro partecipazione).

È chiaro che dobbiamo lottare contro un apparato mediatico che seduce gli studenti perché fa loro credere che tutto possa risolversi ad attività ludica, a sensazioni edonistiche, senza alcuna sfida della ricerca.

Tentativo di semplificazione (dagli esiti nefasti) perseguito per esempio dalla Commissione guidata da Serianni (e qui so di colpire alcune sensibilità).

Mentre Settis, in una famosa audizione parlamentare, diceva che lo scarso numero di studenti che sceglievano la traccia storica era un motivo per intensificarla, investirvi di più, e non per annullarli.

Serianni ha scelto la strada della semplificazione: percorsi guidati, citazioni richiamate, elenco numerico dei comandi, praticamente una struttura già decisa in anticipo, che impediva proprio un processo di riflessione personale e che dava luogo a prove sostanzialmente uniformi, impedendo qualsiasi autentica originalità.

Una mia alunna, bravissima a scrivere, mi fece giustamente notare: «ma prof., neanche per il tema di ordine generale possiamo scrivere quello che pensiamo?».

Detto ciò, noi dobbiamo in classe lavorare sugli stessi obiettivi, ovvero imparare a sciogliere in un lavoro condiviso quei livelli di difficoltà che appaiono irraggiungibili; non rinunciarvi in anticipo.

Per esempio: il tema di storia non lo si fa più. Ma io, quando termino un’unità didattica, propongo sempre un titolo di un tema di storia possibile riferito all’argomento appena affrontato, per provare a strutturarlo – in maniera discorsiva, al momento, tutti insieme – confrontandoci. Ovvero vedendo insieme come si decifra un testo in apparenza complesso e come si realizza una struttura rispetto alla quale impostare una trattazione.

Cioé: il lavoro che la versione “Serianni” consegnava già bello e confezionato allo studente proviamo a costruirlo noi, ovviamente in relazione al contesto, alle capacità e alle situazioni singolari, e sempre valorizzando il contenuto disciplinare a partire le sue peculiari caratteristiche metodologiche.

L’idea che la prova d’esame sia sostitutiva del lavoro didattico che il docente deve svolgere nel corso dell’anno è esiziale.

Rimane aperto il discorso di come inserire il “digitale” (che utilizzo spesso) in un percorso formativo di tale genere. Ovviamente, va respinta – e qui il nucleo delle argomentazioni di Gavosto, ANP e Raimo – l’idea che questi risultati (farlocchi) dell’INVALSI siano dovuti al non sapere utilizzare la DAD da parte degli insegnanti, che ci sarebbe stato chissà quale metodo miracoloso (lo dicono tutti, senza entrare poi mai nel merito) per renderla più efficace ancora della lezione in presenza.

Questa è un’idea assurda che va totalmente respinta. E che accusa gli insegnanti in merito a un’attività che tutto sommato ha loro permesso di limitare i danni.

Il fatto che non ci indigniamo per questa falsa accusa e non pretendiamo si riconoscano i nostri meriti dice già tutto del disorientamento che percorre la nostra categoria professionale.

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