Settantotto anni fa, il 25 luglio del 1943, monarchia sabauda e grande capitale decidevano che fosse giunto il momento di gettare a mare un fardello troppo pesante, con cui erano convolati a nozze più di vent’anni prima, ma che ora impediva loro l’unione con un partner in quel momento più promettente e anche molto più potente.
La monarchia sabauda fascistizzata faceva arrestare il capo del fascismo e del governo, Benito Mussolini, decretando con ciò la fine ufficiale del regime fascista in Italia. Un paio di settimane prima le forze americane, vincendo le resistenze di Winston Churchill, che insisteva per un attacco sul fronte dei Balcani, erano sbarcate in Sicilia, cominciando la risalita della penisola che, a tappe molto rallentate e con grossolani errori tattici (Anzio, per esempio), li avrebbe condotti a Roma quasi un anno dopo e poi fino al nord Italia dopo altri dieci mesi.
L’ansia di mettere al sicuro titoli e capitali, aveva affrettato i passi capital-nobiliari e aveva deciso le sorti del regime; almeno per il momento.
Questo in estrema e molto lacunosa sintesi.
In tale quadro non sembra fuori luogo, specie in tempi di ricorrenti quanto volute amnesie storiche, ricordare una relazione a prima vista alquanto strana tra caduta del fascismo in Italia e Esercito Rosso sovietico. Ma come, si dirà, la caduta del fascismo fu decisa dallo sbarco americano in Sicilia; perché andare a scomodare il fronte orientale?
Vediamo. Sin dagli inizi del 1942, Winston Churchill aveva detto categoricamente che Mosca non poteva aspettarsi l’apertura di un secondo fronte in Europa occidentale prima del 1944; e, a ben vedere, tenne fede a quella dichiarazione.
Dopo l’attacco tedesco del giugno ’41 all’Unione Sovietica, e soprattutto dopo i numerosi smacchi dell’Esercito Rosso ancora nel 1942, la leadership occidentale, nonostante le dichiarazioni di appoggio all’URSS nella guerra contro i nazisti, non avrebbe scommesso un centesimo sulle sorti del conflitto a est e, semplicemente, rimaneva a guardare come sarebbe andata a finire.
La svolta venne nel febbraio del ’43, con la strepitosa vittoria sovietica a Stalingrado. Ma, nonostante tutto, i tedeschi resistevano e, in alcuni casi, passavano ancora all’attacco. Tant’è che, appunto nel luglio del 1943, decisero di riprendere massicciamente in mano le redini del conflitto e assestare un colpo poderoso all’Esercito Rosso.
Nell’area di Kursk, con l’avanzata sovietica, era venuto a formarsi un saliente, “racchiuso” tra le zone di Orël, a nord e di Belgorod, a sud. Tale “cuneo” penetrava nelle linee tedesche per una profondità di 150 km e un fronte di oltre 550 km.
Il comando della Wehrmacht, con l’operazione “Zitadelle”, aveva deciso di annientare le forze sovietiche lì concentrate e riprendere in mano l’iniziativa strategica. Sfortunatamente per i tedeschi, il controspionaggio militare sovietico scoprì per tempo i piani tedeschi e riuscì ad approntare le proprie contromosse.
La battaglia di Kursk, che forse più ancora di Stalingrado decise le sorti dell’invasione nazifascista in URSS, si protrasse dal 5 luglio al 23 agosto 1943; si trattò in pratica di tre operazioni strategiche condotte dall’Esercito Rosso nell’area del saliente di Kursk con l’obiettivo di neutralizzare la “Zitadelle” tedesca: la prima operazione (propriamente nell’area di Kursk, dal 5 al 23 luglio) di carattere essenzialmente difensivo; la seconda (nell’area di Orël, dal 12 luglio al 18 agosto) e la terza (nell’area Belgorod-Kharkov, dal 3 al 23 agosto) di carattere offensivo.
Per “Zitadelle”, la Wehrmacht aveva concentrato 50 divisioni, di cui 16 corazzate e meccanizzate; l’appoggio aereo era assicurato da circa 2.050 velivoli. In totale: oltre 900.000 uomini, circa diecimila pezzi d’artiglieria e mortai, oltre 2.500 carri armati. Si trattava di una forza che rappresentava il 70% delle forze corazzate, il 30% di quelle motorizzate, oltre il 20% delle divisioni di fanteria e più del 65% della forza aerea tedesca impegnata sul fronte orientale: tutta concentrata in un settore che costituiva appena il 14% dell’intero fronte sovietico-tedesco.
Da parte sovietica erano impegnati i Fronti “Centrale” (al comando di Konstantin Rokossovskij), “di Voronež” (Nikolaj Vatutin) e “della steppa” (Ivan Konev), per un complesso di 1.900.000 uomini, circa 27.000 pezzi d’artiglieria e mortai, poco meno di 5.000 carri armati e artiglierie semoventi, circa 2.900 aerei. Tale forza sopravanzava quella tedesca di 2,1 volte in uomini, 2,5 volte per le artiglierie, 1,8 volte per carri e semoventi e 1,4 volte per aerei.
Per ostacolare l’attacco tedesco, il 12 luglio il Fronte di Voronež intraprese un contrattacco, che si concretizzò nello scontro di carri armati nella piana di Prokhorovka, una delle più grandi battaglie di carri armati di tutta la Seconda guerra mondiale: quasi 1.500 carri e semoventi, complessivamente tra sovietici e tedeschi.
Nel corso della battaglia attorno a Prokhorovka, la Wehrmacht perse circa 10.000 uomini e oltre 360 carri; l’Esercito Rosso contò circa 3.000 uomini tra morti e feriti e 350 carri armati distrutti o danneggiati. Alla fine di quella giornata, entrambi i contendenti passarono alla difensiva.
La battaglia di Kursk fu una delle più imponenti e decisive di tutta la Seconda guerra mondiale. Complessivamente, per l’intera sua durata, vi furono impegnati da entrambe le parti oltre 4 milioni di uomini, oltre 69.000 pezzi d’artiglieria, poco meno di 1.550 carri armati e semoventi e quasi 12.000 aerei.
Per dire, nell’intera operazione in Sicilia, tra luglio e agosto ’43, secondo fonti ufficiali presero parte 250.000 uomini dell’8° Armata britannica e circa 230.000 della 7° Armata USA.
Secondo gli storici sovietici, nel corso della battaglia di Kursk la Wehrmacht perse 30 Divisioni, di cui 7 corazzate, oltre 500.000 uomini, 1.500 carri armati e artiglierie d’attacco, oltre 3.700 aerei e 3.000 cannoni. Le perdite sovietiche ammontarono a oltre 250.000 morti e circa 601.000 feriti.
È dunque in questo scenario che va collocata la decisione “alleata” di anticipare in qualche modo il proprio ingresso in Europa occidentale. Tra febbraio e giugno, l’Esercito Rosso aveva compiuto un’avanzata piuttosto sostenuta e gli anglo-americani rischiavano di rimanere a bocca asciutta. Lo sbarco in Sicilia – tra l’altro, a quanto si dice, messo a punto in maniera non propriamente eccellente – rispondeva più che altro alla logica di non lasciare troppo l’iniziativa in mano sovietica.
Dunque, anche nel caso della Sicilia e, in pratica, della caduta di Mussolini, la guerra sul fronte orientale appariva decisiva.
Quando si dice – questo, per carità, lo dicono soltanto gli inveterati comunisti – che fu l’Unione Sovietica, fu l’Esercito Rosso a sconfiggere il nazifascismo, in tale affermazione c’è una verità generale, ma ci sono anche verità particolari.
Nell’estate del ’44, allorché a ovest gli anglo-americani, dopo lo sbarco in Normandia, rischiano di esser ributtati in mare, Mosca lancerà l’offensiva “Bagration” su Bielorussia, Polonia orientale e Paesi baltici, costringendo la Wehrmacht a trasferire numerose divisioni a est.
Nel gennaio del 1945, l’operazione “Vistola-Oder” – iniziata nell’autunno 1944; dopo la sosta forzata a dicembre, necessaria alle truppe sovietiche per riorganizzare le linee ormai troppo allungate, la ripresa delle operazioni era fissata per fine gennaio – di nuovo, venendo incontro alle richieste di Churchill di alleggerire la pressione sugli alleati inchiodati nelle Ardenne, Stalin anticiperà l’inizio dell’offensiva al 12 gennaio e così gli americani potranno districarsi da una situazione per loro non propriamente rosea.
Così era avvenuto nel luglio del 1943: i successi sovietici avevano costretto gli Alleati a mettersi in moto e, a Roma, si decise che fosse tempo di andare al divorzio col consorte mussoliniano.
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