Gli autori del post sono Stefano Capaccioli, dottore commercialista, fondatore di Coinlex, società di consulenza e network di professionisti sulle criptovalute e soluzioni blockchain, presidente di Assob.it, autore di “Criptoattività, criptovalute e bitcoin”; ed Enrico Mariutti, ricercatore e analista in ambito economico ed energetico. Founder della piattaforma di microconsulenza Getconsulting e presidente dell’Istituto Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG). Autore di “La decarbonizzazione felice”.
A meno di un mese dal primo allentamento del blocco dei licenziamenti iniziano a fioccare le crisi industriali. In particolare, il settore dell’automotive invia segnali molto preoccupanti: tre stabilimenti hanno già inviato le lettere di licenziamento ai dipendenti e si preparano a chiudere i battenti, molti altri si preparano a farlo nelle prossime settimane o nei prossimi mesi. Ovviamente dietro a queste crisi c’è l’onda lunga della pandemia, che ha ridotto i volumi, poi con il ritorno della domanda (il mercato vive una fase di rimbalzo ma non rivede i livelli del 2019) ha fatto schizzare i costi di produzione. Ma dai bilanci emerge una prospettiva molto più inquietante.
Il caso dell’impianto GKN di Campi Bisenzio, il più grande tra quelli che hanno annunciato la chiusura, è esemplare. Il bilancio di GKN Automotive al 31 dicembre 2020 evidenzia un business apparentemente senza prospettive, che perde milioni ogni anno: lo scorso anno ha chiuso con una pesante riduzione dei ricavi e una perdita sulla gestione caratteristica di quasi 8 milioni di euro, mitigato a 4 milioni dal risultato della gestione accessoria (R&S rifatturata alla società del gruppo) e dalle imposte anticipate.
Peraltro nello stesso bilancio emerge come la società abbia avuto un lungo contenzioso con l’Agenzia delle Entrate, che ha portato all’esborso di oltre 24 milioni di euro, di cui 16,1 milioni rimborsati a seguito di due sentenze della Corte di Cassazione (Link1 e Link2) e 8 milioni ancora pendenti (iscritti in bilancio al 31 dicembre 2020 tra i crediti oltre l’esercizio).
Anche l’altro stabilimento italiano, la GKN Driveline di Brunico, non appare tanto in salute, dato che dall’ultimo bilancio risulta una perdita della gestione caratteristica di oltre 16 milioni, nonostante l’incremento dell’11% dei ricavi, nonostante gli investimenti effettuati e le nuove linee di prodotti sviluppati.
Su una situazione già molto complessa, perciò, piomba come un meteorite la transizione ecologica.
Le crisi di GKN Automotive, Giannetti Ruote e Timken, infatti, mettono a nudo alcune delle illusioni su cui abbiamo costruito la narrativa sulla mobilità elettrica e, più in generale, sulla transizione ecologica.
Che ci fosse un problema dal punto di vista della riconversione industriale e delle prospettive occupazionali, per esempio, era cosa nota.
Un’auto elettrica ha un quinto delle componenti mobili di un’auto a combustione interna, questo significa un minor fabbisogno di manodopera sia per la produzione sia per la manutenzione.
Chevy Bolt (elettrica) vs VW Golf (tradizionale)
Parti mobili + parti soggette a usura
Di conseguenza, gli outlook di settore prevedono che la riconversione dell’industria italiana della componentistica per auto, che impiega circa 600mila persone, potrebbe costare il posto di lavoro a due terzi degli addetti.
Queste prime crisi industriali, però, dimostrano che le aziende chiudono gli stabilimenti “tradizionali” in Italia e aprono quelli “elettrici” in estremo Oriente.
Quindi l’Italia non perde due terzi dei posti di lavoro, li perde tutti.
Come mai?
Il motivo, se vogliamo, è piuttosto banale.
Il nostro Paese ha una lunga tradizione nell’industria del motore a combustione. E non parliamo solamente di marchi storici come Ferrari, Lamborghini, Alfa Romeo, Lancia e Maserati, parliamo di know-how, capacità industriale, brevetti, rapporti privilegiati con i grandi produttori internazionali.
La transizione verso la mobilità elettrica, però, trasforma le automobili in “computer con le ruote”, quindi il cuore tecnologico del veicolo non è più meccanico ma elettronico.
Di conseguenza, il mercato si riorienta automaticamente verso l’Asia, che da vent’anni ha il predominio assoluto nell’elettronica di consumo.
Giro d’affari dell’industria elettronica
TOP 10, miliardi di euro
Pechino, in particolare, può contare su due asset strategici ineguagliabili: domina la supply chain delle batterie – il “petrolio” della mobilità elettrica – e può mettere sul piatto un mercato con un potenziale di crescita superiore all’Europa e agli USA messi assieme.
Un mercato, oltretutto, dove per entrare devi dare precise garanzie industriali al governo e in cui, comunque, è sempre meglio essere introdotto da un player nazionale.
Non deve stupire, quindi, che le imprese interessate a entrare nel business della mobilità elettrica e i grandi gruppi automobilistici come Volkswagen, Daimler, Bmw, Renault, facciano a gara per siglare partnership con i colossi cinesi.
Supply chain delle batterie
Cliccare sulla figura per ingrandire
Disgraziatamente, l’Italia non solo non fa alcuna politica industriale, seguendo idee altrui che mortificano il nostro interesse nazionale, ma non cerca neanche di diventare attrattiva per gli investimenti, galleggiando al 58° posto della facilità di fare impresa, con una incertezza normativa, amministrativa e giudiziaria a livelli imbarazzanti.
Ovviamente, mettendo sul piatto munifici incentivi pubblici, riusciremo ad agganciare qualche colosso internazionale ma non faremo altro che costruire cattedrali nel deserto, permettendo oltretutto arbitraggi e razzie da parte di imprese straniere.
Ma di certo queste manovre non miglioreranno le prospettive del Paese.
Il settore dell’automotive, con il suo indotto, in assenza di un’immediata inversione di rotta rischia di fare la fine dei minatori del Galles.
Qualcuno dirà che è colpa dei produttori europei, rimasti indietro rispetto a quelli asiatici. Va molto di moda paragonare la transizione dall’auto tradizionale a quella elettrica con la transizione dalla macchina da scrivere al computer. Il problema, però, è che questa rivoluzione industriale non funziona come tutte quelle che l’hanno preceduta: non è il progresso a minacciare il futuro dell’auto a combustione bensì le scelte della politica.
In poche parole, per la prima volta l’evoluzione tecnologica non è dettata dall’efficienza economica (pur essendo più semplici le auto elettriche sono più costose e meno performanti) ma è imposta per legge dai Parlamenti, nell’assoluta e colpevole mancata analisi delle conseguenze. Perciò, domandarsi che senso abbia incentivare questa transizione industriale non significa mettere in discussione il progresso o, peggio ancora, dubitare della drammaticità della crisi climatica.
Significa semplicemente chiedersi che senso ha aprire un tavolo di crisi ogni volta che chiude un impianto per la produzione di semiassi, cuscinetti a sfera o ruote, quando l’ipocrita narrativa ecologica, che trova la sua massima interpretazione a Bruxelles, genera una politica industriale che inevitabilmente li porterà a chiudere tutti nel giro di pochi anni.
Non per altro, riprendendo il caso GKN, basta analizzare la società Melrose Plc. È la società che agendo come un fondo di private equity controlla la società di Campi Bisenzio, e il cui motto è “buy, improve, sell” (compra, migliora, vendi).
Cosa dovrebbe fare un fondo di investimento se non seguire la narrativa buonista che gli stessi Parlamenti e i vari stakeholder gli impongono?
Analizzando il bilancio (Annual Report 2020) della Melrose plc, il packaging è perfetto: gender compliant, ecosostenibile, straordinariamente e stucchevolmente in linea con il pensiero all’ammasso, compresa la transizione all’auto elettrica.
Il tutto, nella rutilante propaganda infantile di coloro che, dopo aver propalato le feroci banalizzazioni del modello-Greta, ignorandone gli effetti, saranno i primi indignati a salire sulle barricate per protestare contro i licenziamenti, senza realizzare che ne è l’effetto logico.
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