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30/09/2022

Il terzo uomo (1949) di Carol Reed - Minirece

Gas russo, soddisfazione yankee e precipizio “europeista”

Le esplosioni al Nord Stream possono portare a un conflitto fatale con l’Occidente, titolava due giorni fa Komsomol’skaja Pravda, specificando che nell’area degli scoppi che hanno reso inservibili i gasdotti, erano stati notati vascelli NATO.

Se verranno confermate le «supposizioni secondo cui dietro i sabotaggi ci sono servizi speciali americani e NATO, significa che l’Occidente è passato alle dirette azioni di guerra contro la Russia, a cui noi dovremo rispondere in maniera adeguata. Sembra che il conto delle ‘ore del Giudizio universale’, che segnano il tempo rimanente prima di un conflitto globale, stia già segnando i secondi».

La Russische Nachrichten riporta l’opinione secondo cui il sabotaggio di entrambe le linee del gasdotto è la reazione americana al referendum nelle Repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk e nelle regioni di Kherson e Zaporož’e. In ogni caso, scrive la stessa fonte, con questo atto, la UE è diventata teatro di guerra.

Ora è chiaro che non si tratta dell’Ucraina, ma di una guerra degli USA contro la Russia, diretta anche contro la Germania. Non è più solo una guerra economica tra Occidente e Russia; è una dichiarazione di guerra USA agli europei: alla Germania è stata dichiarata guerra dal suo principale alleato.

Stando ai fatti, scrive Andrej Baranov ancora su Komsomol’skaja Pravda, la stazione sismografica svedese, situata poco distante dalla zona degli incidenti, ha registrato due forti esplosioni subacquee, di una potenza equivalente a 100 kg di tritolo.

A questo, vanno aggiunti, oltre le note dichiarazioni fatte a febbraio da Joe Biden e due giorni fa dall’ex Ministro degli esteri polacco Radek Sikorsky, la presenza in loco, al momento dei fatti, di una squadra USA guidata dalla nave da sbarco “Kearsarge”, l’annuncio fatto al Congresso americano di esercitazioni svolte da palombari britannici proprio in quell’area e la decorazione di due marinai britannici per aver svolto importanti missioni in acque internazionali.

In ogni caso, il Nord stream è fuori uso, con ogni probabilità definitivamente.

In tale situazione, il presidente dell’americana Teucrium Trading, Sal Gilbertie, osserva su Forbes che le riserve di gas nei paesi UE finiranno presto e ciò costituirà una tragedia, senza il gas russo, dato che in inverno la domanda di gas supera il volume di estrazione: «Per eliminare lo squilibrio stagionale tra domanda e offerta, è necessario stoccare i volumi di gas in eccesso prodotti durante l’estate. Quando arriva l’inverno e la domanda di gas supera la produzione, questo squilibrio può essere compensato attingendo ai depositi».

Secondo Gilbertie, sembra che la Germania e altri paesi europei siano riusciti a economizzare abbastanza gas in estate, ma la perdita di gas russo è come la perdita totale di salario per una famiglia, mentre GNL, gasolio, carbone e persino legna da ardere non sono altro che un introito simile a quello dato da un lavoretto accessorio temporaneo.

«Sulla scala del fabbisogno energetico di un paese, tale “introito accessorio” aiuterà a coprire i bisogni base (gas per riscaldamento, cucina, strutture sanitarie, servizi d’emergenza) e, forse, alcune spese aggiuntive per “i giorni di festa” (gas per piccole imprese, uffici, industria leggera). Ecco come appare l’attuale situazione energetica in Europa».

Poi, aggiunge, sarà solo peggio: le riserve nei depositi si esauriranno verso metà inverno, a condizione che questo non sia particolarmente rigido e i flussi energetici alternativi siano adeguati. Sarà ancora peggio, se la prossima estate non si riuscirà a riempire i depositi: l’inverno 2023 potrebbe risolversi in una «catastrofe economica e tragedie umane».

Purtroppo, conclude Gilbertie, la «dura realtà consiste nel fatto che quest’inverno sarà duro, ma tra un anno l’Europa potrebbe di nuovo trovarsi nelle condizioni di quel consumatore disoccupato, le cui risorse sono appena sufficienti per i beni di prima necessità».

Questo, detto da un americano a proposito dell’Europa.

Non appaiono migliori le “previsioni” (o gli auspici) di altri americani riguardo l’economia russa. Quelli di Bloomberg si stanno fregando le mani, annunciando la caduta del PIL russo per la mobilitazione parziale decretata nei giorni scorsi. A detta degli analisti yankee, a fine 2022 la caduta si aggraverà di uno 0,25%, raggiungendo il 3,75%, mentre l’inflazione nel 2023 crescerà di 0,5 punti percentuali, attestandosi al 6,5%.

Ma, osserva Realtribune.ru, quelle previsioni, pure nelle condizioni della mobilitazione, della deindustrializzazione e di un’estrema dipendenza dalle importazioni, sono tutte interne all’economia di mercato e non tengono conto di una possibile introduzione di una «pianificazione statale, anche solo allo stadio primitivo, di una standardizzazione industriale, di un monopolio statale su ricerca scientifica e infrastrutture»: tutte misure, insomma, che pur non uscendo dalla cornice di rapporti capitalistici, sono estranee alle previsioni fatte dagli “esperti” americani.

Tanto più, osserva Realtribune, che disponiamo ancora di «un modello super produttivo di sostegno del Tesoro: di fatto, un sistema statale di calcolo di cassa, con tassi di interesse minimi (in decimi percentuali), in grado di sostituire l’intero settore bancario... Non dimentichiamo, che le previsioni rappresentano quasi sempre uno strumento di guerra informativo-economica, volto a influire sulle decisioni altrui e a vantaggio di qualcun altro».

La Russia attuale non svolta certo verso il socialismo: è solo in grado, se lo vuole, di sfruttare gli strumenti che ogni economia mercantile ha (avrebbe) a disposizione per difendere il capitale nazionale, se solo avesse un briciolo di volontà e di indipendenza.

Tra l’altro, l’analista turco Arif Asalıoğlu scrive su IARex.ru che si sta osservando una crescita vertiginosa di imprese aperte in Turchia con capitali russi. Oltre a esser divenuta praticamente l’unica via di transito aereo da e per la Russia, a causa della chiusura dello spazio aereo dei paesi occidentali, nel numero delle imprese aperte a Antalya e Istanbul negli ultimi sei mesi, quelle russe costituiscono la schiacciante maggioranza.

A parere di Bartu Soral, le società occidentali che hanno lasciato la Russia vengono sostituite da società turche, mentre l’embargo russo sulle importazioni viene aggirato passando dalla Turchia; lo stesso per le esportazioni: ciò «rappresenta una minaccia per l’embargo? Sì. Infatti, né UE, né USA vogliono che la Russia si accaparri il nostro mercato. La mia interpretazione è che si assiste a un mondo che cambia, un brusco cambiamento negli equilibri».

Anche l’economista Bahadir Ozgur rileva come, a partire dal marzo scorso, ci sia stata una crescita esplosiva nel numero di nuove società a partecipazione russa. Negli ultimi tre mesi, la quota di società con capitale russo, sul totale, è del 96%. Si tratta principalmente di «aziende che operano nel commercio estero e anche l’IT/software è un’area interessante; ma, in termini di capitale, al primo posto ci sono aviazione e industria mineraria».

Tutto ciò, scrive Edvard Česnakov su Komsomol’skaja Pravda, non ha impedito alle banche turche di rifiutare il sistema di pagamento russo “MIR”: «formalmente, sotto pressione USA». Al tempo stesso, sempre quest’anno e nonostante l’isteria statunitense, la Turchia ha acquistato un secondo reggimento di sistemi missilistici S-400. E se qualcuno si domanda come faccia Mosca a tollerare lo sgarbo di Ankara per il “MIR”, altri si chiedono come facciano gli USA a tollerare le mosse del Sultano.

Di fatto, osserva Česnakov, sia Mosca che Washington hanno un «disperato bisogno di Erdogan. La Russia, quale giocatore neutrale nel periodo della Operazione speciale. Immaginate, se la flotta britannica entrasse nel mar Nero attraverso il Bosforo e i Dardanelli per aiutare l’Ucraina... Erdogan non la lascia entrare. Non per amore verso di noi, ovviamente, ma perché, se lo facesse, non potrebbe più fungere da principale e unico moderatore del conflitto. Anche gli USA, però, hanno bisogno della Turchia, come secondo esercito più potente della NATO».

Certo è che, con un’inflazione che in agosto superava l’80%, ogni sogno di “Grande Turan” sarebbe poco proponibile a «un elettore con il frigorifero vuoto».

Il miracolo che potrebbe risollevare l’economia turca, conclude Česnakov, con le elezioni politiche previste per l’estate del 2023, potrebbe aversi se la Turchia rompesse con l’Occidente, integrandosi nell’Unione economica eurasiatica, ponendosi così in grado di ricevere risorse energetiche a basso costo. «Ora sembrano fantasie. Ma 8 anni fa, quando combattenti filo-turchi abbatterono un Su-24 russo sulla Siria, anche l’attuale neutralità di Istanbul sembrava impossibile».

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Mentre l’Occidente affonda, Cuba continua a mostrarci la strada


Con la vittoria delle destre a trazione FdI, Giorgia Meloni potrebbe diventare la prima premier della storia del nostro Paese.

Se così fosse, dopo la Von der Leyen alla Commissione europea e la Lagarde alla BCE, un’altra casella del potere verrebbe ricoperta da una donna, rendendo evidente come questo sistema non offre alcun orizzonte di emancipazione ma che anzi il capitalismo non si fa problemi di genere quando c’è bisogno di gestire il potere e scaricare la crisi sulle classi popolari, sui giovani, sugli stranieri, sulle donne.

Da Draghi alla Meloni il passaggio delle consegne sarà pacifico e scontato, non vi sono infatti divisioni su quali siano gli interessi economici e i posizionamenti internazionali da difendere.

A Cuba invece ieri sera si sono recati alle urne più di 6 milioni di elettori, il 74%, ed è stato approvato con il 67% il nuovo Codice della famiglia. L’ultima tappa di un lungo processo democratico che evidenzia i punti di forza del sistema politico cubano e che, come dichiarato dal presidente Diaz-Canel, ha avuto a che fare con la costruzione di una norma equa, necessaria, aggiornata, moderna, che dà diritti e garanzie a tutte le persone e alle diversità delle famiglie.

Per inserire nella Costituzione la figura del matrimonio tra persone dello stesso sesso, la possibilità di gestazione solidale, la multiparentalità e altri diritti, ci sono stati ampi dibattiti, che hanno portato a venticinque versioni dello stesso progetto, una prima consultazione popolare conclusasi a maggio a cui hanno partecipato 6.481.200 elettori con 336.595 interventi in più di 79.000 incontri.

Il testo viene così approvato dopo due processi di partecipazione cittadina – uno di consultazione popolare e l’altro di referendum – e che è quindi frutto del dibattito popolare, del bisogno sociale, del riconoscimento dell’eterogeneità della nostra società.

Cuba quindi continua ad espandere il suo esercizio democratico e partecipativo all’interno della costruzione socialista, mentre da noi vediamo solo l’arretramento sociale, culturale e politico dell’Occidente. Nessuna emancipazione verrà da questo sistema economico-sociale, sicuramente non basta mettere una donna al governo, né far finta di essere diversi quando si porta avanti la stessa agenda politica, ma bisogna mettere in discussione tutto. Come ci insegna Cuba, esempio che continueremo a seguire nelle piazze, nelle scuole, nelle strade.

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L’estrazione di valore dall’Europa e la sua inetta classe politica

L’aggressione militare del governo USA ai gasdotti nel mar Baltico è un atto enorme di guerra che evidenzia varie criticità.

La prima criticità è la risposta da inetti dei governi europei che sono talmente eterodiretti da rimuovere completamente la denuncia dell’evidente autore yankee del sabotaggio (mancano solo le foto di rito) che opera per i suoi interessi strategici infischiandosene sia dei danni ai paesi a lui sottoposti (Unione Europea), sia al clima per il rilascio di enormi quantità di metano in atmosfera.

Molti pensano che lo scopo principale delle guerre degli USA in atto da 30 anni, dopo la modifica aggressiva della Nato del 1991, sia solo egemonico (minacciare e costringere i paesi al suo dominio), in realtà l’obiettivo immediato dei governi yankee (sia pseudo democratici sia repubblicani) è quello di estrarre ricchezza, ovvero valore, dagli altri paesi, a cominciare dall’Europa e solo successivamente, facendo fallire gli stati, estrarne valore.

L’Europa, quella occidentale in particolare, ha goduto di 70 anni di pace, ha accumulato ricchezza e ha industrie e società efficienti, che quindi diventano agli occhi dei governi yankee oggetti di predazione a fronte di un paese, gli USA, che ha un enorme debito pubblico, ha esternalizzato le industrie manifatturiere, perde potere di estrarre valore dal mondo con il dollaro quale moneta di scambio (da comprare ma che è solo carta straccia), infine ha una situazione interna sociale precaria e povera.

Andare a prendersi la ricchezza dagli europei è perciò scelta immediata e facile, dato il servilismo dei governi UE.

Con l’immediato l’estrazione di valore degli USA avviene già adesso costringendo gli europei a comprare il loro fracking-gas (e dal prezzo esorbitante grazie anche alla speculazione borsistica), le loro armi e il loro grano OGM, ma avere interrotto l’importazione di gas dallo Stream 1, e credibilmente a breve anche dagli altri gasdotti dalla Russia, metterà in ginocchio l’industria europea, e si può stare sicuri che la produzione, per gli alti costi energetici, verrà spostata fuori dell’Europa, andando anche negli USA.

La seconda criticità è l’appiattimento dei mass media alle “narrazioni” fasulle provenienti da Washington e Bruxelles, dove non solo accettano acriticamente le “veline” provenienti da chi ci domina, ma si fanno carico anche di agire da censori quando qualcuno sta per dire verità scomode: esempio lampante è la giornalista Berlinguer che zittisce e interrompe interlocutori se stanno per dire cose scomode sulla guerra in Ucraina.

La terza criticità è l’atteggiamento amorfo dei popoli europei (e italiano in particolare).

A fronte di un atto militare degli yankee contro l’Europa, la minaccia di una guerra atomica, l’aumento esorbitante delle spese militari, la gente comune non protesta, anzi appare assente e amorfa, in alcuni casi scherza sulla situazione rimuovendo il problema: siamo stati tutti narcotizzati al punto tale che è meglio farsi scorrere tutto addosso e se qualcuno evoca queste questioni è redarguito perché portatore di ansia che tanto si conosce già.

Credo che su quest’ultima questione in particolare, la guerra e le sue conseguenze economiche, tra i compagni è necessario un dibattito a come smuovere dal torpore la popolazione, anche perché mi aspetto che il PD e i suoi cespugli invece di concentrarsi su questi argomenti ci ammorberanno con girotondi e sardine varie sui post-fascisti al governo, che faranno danni, ma non è il problema dirimente.

Non dobbiamo cadere come comunisti nelle false proteste che serviranno solo a parlare del nulla, perché la destra razzista, al di la dei danni che farà, attuerà le stesse politiche capitaliste e NATO della destra liberista.

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Belgio - Blitz con morto contro neonazisti e tentato sequestro di un ministro

Due eventi traumatici a distanza di pochi giorni si sono abbattuti sul Belgio, uno dei paesi fondatori dell’Unione Europea. Una persona risulta uccisa durante un’operazione anti-terrorismo contro ambienti di estrema destra ad Anversa. L’indagine riguardava “un gruppo sospettato di appartenere all’estrema destra” e fatti di “violazione della normativa sulle armi”, e prevedeva una decina di perquisizioni nelle zone di Gand e Anversa.

Durante una di queste si è verificato lo scontro a fuoco tra la polizia e una delle persone presenti in un edificio, nel quartiere di Merksem ad Anversa, rimasto ucciso nel blitz.

Le perquisizioni, evidenzia la procura federale, “hanno consentito il sequestro di un ingente numero di armi e munizioni, il cui conteggio e analisi dovranno essere effettuati nei prossimi giorni. Alcuni armi erano legalmente registrate”.

Il Ministro della Giustizia del Belgio ha dichiarato che i principali sospettati nell’ambito dell’indagine sui preparativi per un attacco terroristico e sui reati legati alle armi nell’ambiente dell’estremismo di destra erano nella lista dei terroristi dell’OCAM. Secondo la Procura federale, a Merksem sono state trovate più di 100 armi, oltre a una grande quantità di munizioni, gilet tattici, visori notturni e termici.

La sorveglianza in Belgio sui gruppi di estrema destra da parte dei servizi segreti e della magistratura è stata intensificata dopo il recente caso di Jürgen Conings, un soldato con legami con l’estrema destra fuggito dalla sua caserma con armi e munizioni nella primavera del 2021. Il soldato 46enne, inserito nell’elenco dell’agenzia belga di analisi della minaccia terroristica, era sospettato di voler attaccare i rappresentanti dello Stato belga e un noto virologo. È stato trovato morto in un’area boschiva nella provincia di lingua olandese del Limburgo, nel nord-est del Paese, dopo essere stato braccato per più di un mese. Le indagini hanno concluso che si è suicidato con un’arma da fuoco.

La Sicurezza di Stato e l’OCAM sono da tempo convinti che l’estremismo di destra sia in crescita nel Paese. Lo dimostra il fatto che ci sono più di 60 estremisti di destra nella lista dei terroristi. Ciò significa che sono considerati potenzialmente estremisti violenti.

Il giornale belga Le Soir rivela che queste persone sono state seguite per mesi in totale segretezza. “In linea di principio, una persona inserita nella lista dei terroristi non può avere il permesso di portare un’arma. È possibile derogare a questo principio nel contesto dell’indagine per non allarmare il sospetto e quindi non far deragliare l’indagine”, ha spiegato il ministro della giustizia belga Van Quickenborne.

Ma lo stesso ministro della Giustizia Van Quickenborne, solo una settimana fa, era stato al centro di un fatto clamoroso: un tentato sequestro da parte di non meglio identificato “narcotrafficanti”.

Il piano è stato sventato quasi per caso dalla polizia, grazie a un casuale controllo di un veicolo e alla collaborazione con i colleghi olandesi. Tutti e quattro i presunti autori del rapimento sono stati arrestati nei Paesi Bassi. E secondo i media belgi si tratta di narcotrafficanti. Lo stesso ministro della Giustizia, in un videomessaggio diffuso dalla televisione belga, parla di “mafia della droga”.

Nel video Van Quickenborne ha raccontato di essere stato avvertito dal procuratore federale dell’esistenza di un piano per il suo rapimento. “Per il momento sarò posto sotto stretta sorveglianza e non potrò partecipare ad alcune attività programmate nei prossimi giorni. Non è piacevole, ma è comprensibile”, ha spiegato il ministro.

Giovedì della scorsa settimana, una pattuglia della polizia ha individuato un veicolo con targa olandese nelle vicinanze della villa occupata dal ministro e dalla sua famiglia nel sobborgo residenziale di Kortrijk, dove Van Quickenborne è sindaco. Secondo i media locali al suo interno sono stati rinvenuti “almeno” un fucile d’assalto, nastro adesivo e bottiglie di benzina in un’altra auto, anch’essa immatricolata nei Paesi Bassi. Il veicolo ha condotto gli inquirenti sulle tracce di quattro sospetti.

Si tratta di tre uomini, di 20, 29 e 48 anni, che sono stati arrestati nei Paesi Bassi sulla base della descrizione del loro veicolo, ritenuti però non gli organizzatori ma gli esecutori di un piano di rapimento ideato da trafficanti di droga. Il Belgio ha chiesto immediatamente la loro estradizione. Domenica, intorno alle 15, il quarto ricercato è stato arrestato in una strada della stessa città. Un olandese di 21 anni, secondo le autorità locali.

Da circa un decennio, il Belgio viene ritenuto uno degli hub europei di ingresso principale della cocaina. Lo scalo di Anversa, secondo i dati di un report dell’Europol, si è guadagnato il record del porto con il maggior traffico di cocaina in Europa: lo scorso anno, sono state sequestrate 66 tonnellate di cocaina, contro le cinque del 2013.

Subito dopo risulta esserci il vicino porto olandese di Rotterdam. La crescita dei flussi di droga è stata accompagnata da un progressivo aumento della presenza delle mafie sul territorio, dalla ‘Ndrangheta calabrese a quella albanese, passando per l’emergente Moccro Maffia, un gruppo composto da immigrati marocchini. A testimoniare la loro presenza sul territorio, c’è stato l’aumento di omicidi e sparatorie, in particolare a Bruxelles e ad Anversa.

Ma il tranquillo Belgio non è nuovo a fenomeni di criminalità politica. Tra il 1982 e il 1985 impazzarono i brutali omicidi de “La Banda del Brabante” (28 morti) che risultarono possedere coperture tra le forze di polizia e che ha portato all’arresto di un poliziotto per depistaggio nelle indagini. Nel 1989 venne sequestrato l’ex Primo Ministro Paul Vanden Boeynants, precedentemente condannato per frode fiscale.

Nel 1991 venne addirittura ucciso il segretario del Partito Socialista Andrè Cools per una vicenda legata ad appalti nelle forniture militari (c’entrò anche l’italiana Agusta e i suoi elicotteri) e finì indagato un ministro come mandante.

Insomma, l’immagine di una Europa culla della civiltà e del benessere deve sempre fare più spesso con i “mostri” che prosperano al suo interno. Anche nel tranquillo Belgio.

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La guerra dell'energia - Chi ha bucato il Nord Stream?

Il fallimento della politica britannica sottolinea l’urgenza di ridurre la dipendenza dagli USA

Ci sono in genere molti modi di leggere gli shock improvvisi alla situazione economica e monetaria. Ma nel caso della recentissima crisi inglese, addirittura con la prima mossa della neo-premier Liz Truss, c’è invece una clamorosa unanimità mondiale: la mossa sbagliata nel momento peggiore.

Il giornale cinese Global Times, però, riesce a trarre qualche conclusione generale che non a tutti fa piacere trarre: i problemi inglesi, ma solo i loro, dipendono da un sistema internazionale incentrato sull’egemonia del dollaro.

Anche la Cina, in questi giorni, è dovuta intervenire per limitare l’impatto sistemico dei violenti aumenti dei tassi di interesse Usa, che stanno provocando un massiccio afflusso di capitali verso i mercati statunitensi e un parallelo aumento del valore del dollaro. Che per un verso appesantisce le esportazioni Usa (meno, guarda un po’, quelle di gas e petrolio, ormai uno dei pochissimi comparti in cui gli Stati Uniti hanno ancora qualcosa da vendere al mondo), per l’altro riduce drasticamente il peso delle importazioni (praticamente di ogni merce immaginabile).

Il tutto in cambio di una moneta che dipende totalmente e soltanto dalle decisioni unilaterali delle autorità statunitensi, senza alcun “sottostante” certo (a far data dal 1971, quando venne abolita la parità con l’oro). Detto in modo rozzo, gli Stati Uniti pagano beni reali con pezzi di carta che vanno accettati solo perché altrimenti ti sparano addosso.

Ridurre questa dipendenza mondiale e preparare soluzioni alternative, necessariamente di “rottura” dell’attuale sistema, è da tempo l’obiettivo di una sempre più lunga lista di paesi, a cominciare proprio dalla Cina. È la base materiale, economica-finanziaria-monetaria, di un multipolarismo non conflittuale perché poggiante su relazioni win-win, non di pura rapina come quello statunitense.

Qualcosa che servirebbe, oggi, proprio al paese più legato, per ragioni storiche, ideologiche ed economiche, agli Stati Uniti.

Alla faccia della “nuova Margareth Thatcher”, incapace di capire che alla fine di un ciclo non si può ripartire dalle stesse basi.

*****

Il FMI ha apertamente criticato gli aggressivi tagli fiscali e i piani di spesa del governo britannico volti ad aiutare le famiglie e le imprese a gestire lo shock energetico, avvertendo che le misure rischiano di aumentare le disuguaglianze e di accrescere le pressioni che gravano sull’inflazione, come ha riferito mercoledì la BBC.

Il FMI “non raccomanda pacchetti fiscali ampi e non mirati in questa fase, poiché è importante che la politica fiscale non operi in modo opposto alla politica monetaria”, ha dichiarato un portavoce del FMI in un comunicato di martedì.

Le critiche sono arrivate un giorno dopo che la sterlina britannica è crollata ai minimi di 37 anni rispetto al dollaro USA. Il crollo della valuta britannica ha evidenziato lo scetticismo del mercato sulla competenza economica del nuovo governo britannico e l’ansia degli investitori per un’inflazione alle stelle.

I prezzi al consumo nel Regno Unito sono aumentati del 9,9% ad agosto rispetto a un anno prima, con una leggera attenuazione del livello di inflazione rispetto al mese precedente, ma i prezzi continuano a crescere rapidamente. Attualmente, la capacità del Regno Unito di ridurre l’inflazione è diventata una delle maggiori preoccupazioni del mercato finanziario.

La scorsa settimana, George Saravelos, responsabile globale della ricerca sui cambi della Deutsche Bank, ha addirittura chiesto un “segnale forte” da parte della Banca d’Inghilterra che sia “disposta a fare ‘tutto il necessario’ per ridurre rapidamente l’inflazione” per riguadagnare la credibilità del mercato, come riporta Bloomberg.

Tuttavia, vale la pena notare che sia l’alta inflazione nel Regno Unito sia la debolezza della sterlina sono in realtà il risultato dei continui aumenti dei tassi di interesse da parte della Federal Reserve statunitense e di un dollaro forte. Finché il ciclo di rialzi dei tassi d’interesse degli Stati Uniti rimarrà invariato, la fiducia del mercato nella capacità del Regno Unito di contenere l’inflazione e sostenere la propria valuta rimarrà debole anche se la banca centrale britannica seguirà l’esempio dell’aumento dei tassi.

Le crescenti difficoltà incontrate dal Regno Unito nel resistere agli shock di un dollaro forte e di un’inflazione elevata attraverso aggiustamenti di politica interna hanno di fatto evidenziato la crescente mancanza di una politica economica indipendente, data la forte dipendenza globale dal dollaro.

Quanto maggiori sono le turbolenze economiche e finanziarie globali, tanto maggiore sarà il flusso di capitali verso le attività denominate in dollari. Il fatto che le economie siano da tempo profondamente legate al dollaro in termini di commercio, finanza e transazioni determina la difficoltà di elaborare politiche efficaci in grado di risollevare rapidamente le loro economie dalle difficoltà.

È ipotizzabile che se il dollaro continua a essere il fattore dominante che influenza le economie di tutto il mondo, nonché il commercio e la finanza di vari Paesi, questi ultimi continueranno a essere vittime del cambiamento della politica monetaria e dei cicli economici degli Stati Uniti.

Pertanto, piuttosto che lavorare su una risposta a breve termine, è meglio concentrarsi sulla soluzione a lungo termine che potrebbe consentire ai Paesi di rompere l’egemonia del dollaro, rendere il proprio sistema finanziario più indipendente e migliorare lo status delle proprie valute.

In altre parole, se il dollaro continua a rafforzarsi, causando turbolenze economiche globali, l’egemonia del dollaro è destinata a indebolirsi e a finire.

In effetti, il dilemma politico del Regno Unito e il crollo della sua valuta sono un segnale per le economie asiatiche, in particolare per i mercati emergenti. Se persino un Paese sviluppato come il Regno Unito sta ancora incontrando difficoltà nel resistere all’impatto di un dollaro forte e di un’inflazione elevata, è possibile che anche le economie asiatiche possano fare affidamento sulle politiche fiscali e monetarie per difendere le loro valute e le loro economie e che debbano affrontare la prova della fiducia dei mercati.

Sebbene le economie asiatiche abbiano registrato un significativo aumento della scala economica con una migliore struttura delle riserve valutarie, di fronte alle turbolenze finanziarie globali, è ancora essenziale riconoscere la crescente urgenza per i Paesi regionali di approfondire ulteriormente la cooperazione finanziaria per ridurre la dipendenza dal dollaro USA.

Oltre alla politica monetaria irresponsabile che ha causato scompiglio in tutto il mondo, gli Stati Uniti hanno anche usato sempre più spesso la loro egemonia sul dollaro per imporre sanzioni economiche ad altri Paesi, il che evidenzia anche l’urgenza per i Paesi di ridurre la dipendenza dagli Stati Uniti.

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La fortuna di non essere pazzi

Avete mai notato che i nemici dell’occidente non sono mai altri paesi o gruppi sociali o nemmeno governi, ma sempre e soltanto individui, sempre immancabilmente isolati, dispotici e pazzi?

Oggi ce la vediamo con un’ex spia sovietica. Un pazzo e un sadico, non v’è dubbio alcuno.

Ma nel 2011 il pazzo era un presidente siriano, ricordate?

Poco prima, nello stesso anno, era stata la volta di un colonnello libico. Stravagante quanto pazzo.

E nel 1991 e nel 2003 il pazzo era un iracheno, talmente pazzo che lo fu due volte.

Nel mezzo, esattamente nel 1999, fu il turno di un pazzo nazionalista serbo. Mai fidarsi dei serbi.

Ma prima il pazzo era un tale barbuto saudita, rifugiatosi in Afganistan. Brutto e pazzo.

Tutti amici – potete scommetterci – di un altro pazzo, il nordcoreano, che ha già fatto assassinare la sorella e lo zio per ben tre volte. Se non è pazzo quello...

E così si potrebbe andare a ritroso, fino al pazzo originario, il tedesco. Che, però, oggi lo sappiamo, doveva essere segretamente amico del pazzo georgiano, che era pure peggio.

Ecco perché, nonostante tutte le difficoltà, e il dolore per gli altri popoli così sfortunati, dovremmo tirare un sospiro di sollievo qui in occidente.

Siamo incredibilmente fortunati, noi, a non essere guidati da pazzi. Ché quasi, a volte, non ci si crede.

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29/09/2022

Un cane andaluso (1929) di Luis Buñuel - Minirece

I gasdotti sabotati inutilizzabili per sempre? Un atto di guerra


Nonostante la disinformazione diffusa sui e dai media occidentali, il quadro delle responsabilità sul sabotaggio ai gasdotti che portavano il gas russo in Germania ed Europa si va definendo fin troppo chiaramente.

Il livello dei danni causati da sabotaggi condotti con “estrema professionalità”, in zone marine controllate dalla Nato, è coerente con l’obiettivo dichiarato di paesi come Usa, Polonia, Gran Bretagna e Repubbliche Baltiche di interrompere irreversibilmente le arterie energetiche tra Russia e Germania/Europa, una dinamica che non lascia troppi dubbi.

Il sabotaggio di una infrastruttura strategica come i due gasdotti presenta tutte le caratteristiche di un’azione bellica operata da “una parte della Nato” contro la Russia, ma anche un punto di non ritorno contro ogni “tentennamento europeo” sulle forniture di gas russo.

La guardia costiera svedese ha confermato una quarta perdita di gas nei due gasdotti Nord Stream. Lo riferisce al quotidiano Svenska Dagbladet il portavoce della guardia costiera, Jenny Larsson, secondo cui la quarta falla si trova nel gasdotto Nord Stream 2, a un livello intermedio fra le altre due riscontrate nel Nord Stream 1.

Secondo Larsson, delle quattro perdite di gas, due si trovano nella zona economica esclusiva della Svezia e le altre in quella danese, due aree sotto stretto controllo della Nato. Come dimostra la mappa in pratica è “il cortile di casa” della Nato.

A Berlino le orecchie fischiano dolorosamente. Fonti degli apparati di sicurezza tedeschi affermano che tre delle quattro condotte dei gasdotti Nord Stream 1 e 2 nel Mar Baltico potrebbero essere inutilizzabili per sempre a seguito delle falle che si sono aperte nelle tubature. Il primo è operativo da anni, il secondo è stato bloccato unilateralmente dalla Germania su esplicita pressione degli Stati Uniti.

Secondo tali fonti, se l’infrastruttura non verrà riparata rapidamente, le condotte saranno corrose dall’acqua del mare. Il ministero degli Esteri tedesco ha costituito una specifica unità di crisi per indagare e seguire le conseguenze dei sabotaggi ai due gasdotti che collegano la Russia con la Germania. Come primo passo, sono stati intensificati i controlli della Polizia federale nelle acque della Germania, in particolare lungo le rotte rilevanti per le infrastrutture critiche.

Gli incidenti sui gasdotti Nord Stream 1 e 2 sono avvenuti in una zona controllata dall’intelligence statunitense ha dichiarato la portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharova, secondo quanto riferisce l’agenzia di stampa russa Ria Novosti.

La Zacharova ha ricordato che gli incidenti si sono verificati nella zona economica esclusiva di Danimarca e Svezia, due paesi “legati alla Nato” e “completamente controllati dai servizi speciali statunitensi”. La Zakharova ha espresso la sicurezza che gli Stati Uniti avrebbero “il pieno controllo della situazione”.

La Procura generale russa ha comunicato l’apertura di un’indagine per terrorismo internazionale sui danni subiti dai gasdotti Nord Stream 1 e 2 nel Mar Baltico. Sul proprio canale Telegram, la magistratura ha affermato che, “non più tardi del 26 settembre 2022, presso l’isola di Bornholm, sono stati commessi atti intenzionali volti a danneggiare” le due infrastrutture. Tali incidenti hanno “inflitto alla Russia notevoli danni economici”.

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Carobollette - Lunedì 3 manifestazione alla Cassa Depositi e Prestiti

USB denuncia gli speculatori: “fermate i prezzi e restituite il maltolto”.

Lunedì 3 ottobre l’Unione Sindacale di Base presenterà alla Procura di Roma una denuncia contro tutte le condotte poste in essere dalle società che commerciano gas, energia elettrica e prodotti petroliferi ai danni della collettività, speculando sulle differenze tra quanto hanno pagato le materie prime e il prezzo al quale ce le stanno rivendendo.

Nella denuncia di USB si chiede che vengano sequestrati e/o acquisiti:

1) gli extraprofitti dei traders italiani o i documenti relativi agli stessi;

2) tutti i documenti attestanti i ricavi dell’ultimo anno degli operatori italiani che commerciano gas naturale;

3) i documenti relativi agli utili del Ministero dell’Economia e delle Finanze nonché di CDP S.p.A., e i documenti relativi alle comunicazioni al Ministero dello Sviluppo Economico dei prezzi praticati.

Nell’attesa delle risposte dalla Procura è stata già depositata istanza di accesso agli atti per chiedere a tutti i soggetti che hanno un ruolo in questa speculazione qualsiasi documento o atto che possa giustificare gli aumenti.

Nel pomeriggio di lunedì 3, a partire dalle ore 16, l’USB organizza una manifestazione davanti alla sede di Cassa Depositi e Prestiti in via Goito. Cassa Depositi e Prestiti è azionista di maggioranza di ENI, una delle tante società che hanno goduto di extraprofitti per una somma complessiva di circa 40 miliardi.

Riguardo alla notizia riportata oggi dai media per cui dal 1° ottobre cambierà il metodo per calcolare il prezzo del gas (dal TTF al PSV italiano) l’USB segnala che l’andamento storico del prezzo del gas in Italia ha seguito esattamente quello della Borsa di Amsterdam e che pertanto siamo di fronte a un semplice cambiamento di facciata.

È urgente non solo recuperare gli extraprofitti, cioè il furto conclamato a milioni di cittadini/utenti, ma anche bloccare il prezzo di gas e luce al consumatore.

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Gran Bretagna - Truss sbaglia tutto e la BoE diventa “keynesiana”

Il tracollo del neoliberismo come sistema di regolazione dell’economia capitalistica appare ormai alla luce del sole.

Avevamo scritto qualche giorno fa, a proposito della prima mossa della neo-premier britannica Liz Truss (un taglio mostruoso alle tasse per i super-ricchi): “La mannaia thatcheriana mirava a una quantità di “grasso” disponibile per una ben diversa ripartizione sociale. Oggi siamo alla fine di quel ciclo. Le società – le classi – sono piuttosto ‘magre’ e la crisi in atto è il risultato obbligato di 40 anni di neoliberismo. Ma, come tutti i tossicodipendenti, Liz Truss pensa che la soluzione stia in una dose maggiore della stessa droga.”

In poche ore abbiamo avuto un oceano di conferme. Persino il Fondo Monetario Internazionale ha stroncato questa mossa (150 miliardi di sterline in meno per le finanze pubbliche britanniche), mentre “i mercati” hanno messo immediatamente sotto tiro sia la moneta sia i titoli di stato, i mitici Gilt, evidentemente ritenendo improbabile che in futuro la Gran Bretagna possa onorare le scadenze sul debito.

A quel punto si è mossa la Bank of England secondo la più classica metodologia keynesiana: l’acquisto di titoli di stato propri. Una vera eresia da quattro decenni a questa parte.

Ricordiamo che in Italia, per esempio, questa mossa è impedita per legge da quando Beniamino Andreatta – il maestro economico di Romano Prodi e tutta la genia di “tecnici” amati dal Pd – sancì il “divorzio” tra Banca d’Italia e Ministero del Tesoro.

Era il 1981, da allora Palazzo Koch non può più comprare in sede d’asta i Btp e altri titoli emessi dal tesoro. E, da quando esiste la Bce, neanche sul “mercato secondario” (cioè dopo l’asta di emessione), per non influenzare gli andamenti del prezzo e dei rendimenti. Ossia, in pratica, per limitare gli esborsi di denaro pubblico (del tesoro...) per ripagare il debito.

Una regola aurea del neoliberismo trionfante era del resto proprio questa: gli Stati dovevano essere ricondotti a forza sotto la sferza dei “mercati”, limitando la propria spesa sociale e il debito pubblico.

Il risultato, ovunque nel mondo, dagli Stati Uniti a noi, è stato esattamente l’opposto. Nel 1981 il debito pubblico italiano in confronto al Pil era intorno al 60% (come sarà poi prescritto dagli accordi di Maastricht), ora viaggia verso il 160% nonostante Monti e Draghi. Negli Usa idem...

Così, mostrando di non tenere in alcun conto l’ideologia liberista ma solo l’interesse immediato, i mercati hanno festeggiato la mossa della banca centrale inglese.

Per poche ore, però, perché la minaccia più grave è ancora il probabile rialzo dei tassi di interesse anche da parte della Bce: un +0,75% che renderà praticamene certa la recessione economica in tutto il mondo euro-atlantico.

Nonostante questo qualcosa di buono può accadere: in Gran Bretagna si stanno interrogando se non sia il caso di togliersi dai piedi quella pazza furiosa della Truss, prima che arrivi al punto di premere il bottone nucleare...

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L'Italia dopo il voto: Giorgia l'atlantica e la trappola dell'antifascismo delle ZTL

In Ucraina gli Stati Uniti agiscono aggirando la Nato

Qui di seguito un illuminante intervento di George Friedman, il fondatore di Stratfor, quella che in gergo viene chiamata la “Cia ombra” (da cui attinge le informazioni Maurizio Molinari, oggi direttore de La Repubblica, ndr).

Stratfor è una piattaforma di intelligence a pagamento alla quale accedono governi, fondi investimento e apparati di intelligence di tutto il mondo.

Questo intervento è illuminante perché è stato fatto al Chicago Council for Foreign Affairs nel 2015, ben sette anni prima dell’attacco russo all’Ucraina. Colpiscono due fattori centrali dell’analisi di Friedman:
a) spezzare i legami tra Germania e Russia (vedi i boom sui gasdotti);
b) la totale subordinazione dell’Ucraina ai diktat di Washington.

A voi tirarne le conclusioni, buona lettura

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Ci saranno conflitti in Europa. Ci sono già stati conflitti in Europa: in Jugoslavia e ora in Ucraina. Per quanto riguarda i rapporti dell’Europa con gli USA, noi non abbiamo relazioni con l’“Europa”. Noi abbiamo rapporti con la Romania, con la Francia, e così via, ma non c’è una “Europa” con cui gli USA abbiano qualche tipo di relazioni. Noi abbiamo altri interessi geopolitici.

I principali interessi di politica estera degli USA per tutto il secolo passato, nel corso della Prima, della Seconda e della Guerra fredda mondiali, si sono concentrati sui rapporti tra Russia e Germania.

Questo perché, unite, esse costituiscono l’unica forza che rappresenti la principale minaccia vitale per gli USA. E il nostro obiettivo principale è sempre stato quello di non consentire una loro unione... Se voi siete ucraini, cercherete gli unici che possano sostenervi e questi sono gli Stati Uniti.

La scorsa settimana, cioè una decina di giorni fa, è stato in Ucraina il Comandante in capo delle forze di terra USA in Europa, generale Ben Hodges. In quell’occasione, egli ha dichiarato che arriveranno presto ufficialmente in Ucraina consiglieri militari USA.

Ha anche decorato soldati ucraini con medaglie militari USA, la qual cosa, cioè decorare stranieri con medaglie, è proibita dal regolamento militare USA. Ma egli lo ha fatto, perché intendeva con ciò dimostrare che l’esercito ucraino è il suo esercito.

Ora gli USA riforniscono di armi, artiglieria e altri armamenti Stati baltici, Romania, Polonia e Bulgaria e questo è un aspetto molto interessante. Ieri gli USA hanno dichiarato la propria intenzione di rifornire di armi l’Ucraina; e nonostante che ciò in seguito sia stato smentito, le armi verranno fornite.

In tutte queste azioni, gli Stati Uniti agiscono aggirando la NATO, dal momento che le decisioni della NATO possono essere adottate solo con l’unanimità di tutti i membri NATO.

Il succo di tutto questo è che gli USA stanno realizzando un “cordone sanitario” attorno alla Russia. E la Russia lo sa. La Russia crede che gli USA abbiano intenzione di smembrare la Federazione russa. Io credo che noi non vogliamo uccidere i russi, ma solo ferirli un po’ e arrecare loro danni.

In ogni caso, noi siamo tornati al vecchio schema. E se voi chiedete cosa ne pensi il polacco, l’ungherese o il romeno, essi vivono in una dimensione completamente diversa dai tedeschi; mentre i tedeschi, a loro volta, vivono in una dimensione diversa dagli spagnoli; ed è così dappertutto.

In poche parole: in Europa regna il disaccordo. Però, per quanto riguarda gli ucraini, posso dirvi esattamente cosa faranno: essi cercheranno di fare di tutto per non suscitare la collera USA.

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Colombia - La destra ribolle contro il presidente Petro

La riforma tributaria, l’aumento del prezzo della benzina e le occupazioni di terre hanno portato migliaia di persone legate ai partiti di opposizione nelle strade della Colombia lunedì, nella prima manifestazione contro l’amministrazione del presidente Gustavo Petro, insediatosi meno di due mesi fa.

La cosiddetta “Grande Marcia Nazionale” ha promosso marce, raduni e sit-in in più di 20 città colombiane e in diverse città degli Stati Uniti, del Messico, di Panama e della Svizzera, ha dichiarato all’agenzia Efe l’architetto Pierre Onzaga, uno degli organizzatori della mobilitazione, annunciando una seconda giornata il 24 ottobre.

Il malcontento che hanno manifestato riguarda, tra l’altro, la riforma fiscale presentata dal ministro delle Finanze José Antonio Ocampo lo scorso agosto, che mira a raccogliere 25 mila miliardi di pesos all’anno (circa 5,55 miliardi di dollari al cambio attuale) ma che colpisce i settori a più alto reddito. Colpiti nelle proprie tasche, i settori sociali e i loro partiti sconfitti nelle elezioni sono scesi in piazza.

“Basta Petro”, “siamo sulla strada sbagliata”, “vuole eliminare tutto”, sono state le frasi più ricorrenti a Bogotà, dove due cortei partiti da diverse zone della città hanno raggiunto Plaza de Bolivar, qui ci sono stati alcuni accenni di scontri tra i sostenitori del presidente Petro che hanno circondato i manifestanti e hanno lanciato oggetti contro di loro, ma la situazione non è degenerata.

Un altro punto focale delle manifestazioni è l’opposizione all’accordo “pace totale” tra il governo e le organizzazioni guerrigliere. Giovedì scorso a New York, dove ha partecipato all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Petro ha annunciato che nel giro di pochi giorni verrà proposto un cessate il fuoco multilaterale con diversi gruppi armati che si sono avvicinati al governo nel suo progetto di “pace totale”.

I manifestanti hanno inoltre concentrato le loro critiche contro il ministro delle Miniere, Irene Vélez, e sul Ministro della Difesa, Iván Vélasquez.

“Siamo lavoratori, ma qui nel nord del Cauca non abbiamo alcuna protezione quando gli indigeni invadono le fattorie”, ha dichiarato ai giornalisti un uomo che ha detto di possedere una fattoria dove coltiva la canna da zucchero che poi vende agli zuccherifici.

In Colombia i casi di occupazione di terre sono aumentati in diverse regioni del Paese: sono stati rilevati 108 casi, il 36% dei quali nel dipartimento di Cauca (sud-ovest). La maggior parte di queste occupazioni sono effettuate da popolazioni indigene che affermano di voler “liberare la madre terra” dall’eccessivo sfruttamento. Nel nord del Paese ci sono anche occupazioni di terre da parte di contadini che reclamano terreni che sostengono siano stati loro sottratti durante il conflitto.

“Il governo Petro sta dimostrando che le sue riforme non sono popolari, non sono accettabili per la grande maggioranza dei colombiani”
, ha dichiarato Enrique Gómez, un ex pre-candidato alle presidenziali e feroce oppositore del governo. Anche Paloma Valencia, senatrice del partito di opposizione Centro Democratico, ha affermato che un’altra ragione delle proteste ha a che fare con il divieto di esplorazione di gas e petrolio “per comprarlo – secondo lei – dal Venezuela, lasciando la Colombia senza sovranità energetica”.

E proprio sul fronte delle relazioni con il Venezuela – conflittuali e tese con i governi colombiani precedenti, – va segnalato che lo scorso lunedì, mentre l’opposizione uribista manifestava contro il governo, con una stretta di mano tra il Presidente colombiano Gustavo Petro e il Ministro dei Trasporti venezuelano, è iniziato il processo di riapertura della frontiera colombiano-venezuelana dal Ponte Internazionale Simón Bolívar; un evento storico che segna il recupero delle relazioni diplomatiche e della pace tra i due Paesi. All’evento hanno partecipato, da parte venezuelana, l’ambasciatore del Venezuela in Colombia, Félix Plasencia, il governatore dello Stato di Táchira, Freddy Bernal, il Ministro dell’Industria e della Produzione Nazionale, Hipólito Abreu, e José David Cabello, oltre ai sindaci dei comuni di confine di Bolívar, Ureña e García de Hevia.

Una disamina delle ragioni dell’opposizione e delle sue manifestazioni di protesta portano ad affermare che il governo Petro in Colombia si sta muovendo nella direzione giusta.

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La sinistra tedesca alla prova della crisi e della guerra

Pubblichiamo un editoriale di Nico Popp dal giornale della sinistra alternativa tedesca Junge Welt. È un articolo molto interessante anche per noi in Italia per due motivi:
a) radiografa le difficoltà in cui si dibatte la sinistra in Germania dentro una fase di crisi e di guerra;
b) conferma come il punto di difficoltà della sinistra tedesca, così come per quella italiana, sia la “connessione sentimentale” con i settori popolari.
Decisiva poi è la conclusione di Nico Popp quando richiama il dato fondamentale per cui il primo nemico è quello nel proprio paese. Buona lettura

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Senza connessione

Il movimento contro l’impoverimento e l’inflazione è qui, e chi preferisce non mentire a se stesso deve ammettere, al più tardi in vista dei raduni e delle manifestazioni di lunedì, che gli attori e le reti di destra hanno un certo successo nell’attivare lo stato d’animo della protesta che cresce di giorno in giorno. In ogni caso, con maggior successo rispetto agli sforzi organizzativi della sinistra.

Il Partito della Sinistra (Die Linke, ndr) è riuscito finora a organizzare una sola grande manifestazione, quella del 5 settembre a Lipsia; la successiva giornata di azione “in tutta la Germania” del 17 settembre è stata un fiasco. I gruppi, i partiti e le associazioni più a sinistra non stanno certo meglio. Ci sono sforzi locali qua e là, ma finora hanno raramente dato frutti.

Non c’è bisogno di arrovellarsi sulle cause dell’ultimo atterraggio di fortuna del Partito della Sinistra: una parte del suo personale dirigente ha difficoltà a nascondere la propria antipatia nei confronti dei manifestanti, e l’altra parte ha accettato, nello stile della banale politica di proposta, di spingere il governo ad assorbire la crisi dell’inflazione in termini di politica sociale – e in modo tale che non si parli della causa di questa crisi, che è evidente a tutti. Se non stai al gioco e non dici “guerra economica”, sei nei guai.

Un partito che si subordina così coraggiosamente alle dichiarazioni di politica estera del nemico non deve sorprendersi se nessuno vuole manifestare con lui per la “giustizia sociale”.

Più eccitante delle azioni di questo partito moribondo, tuttavia, è ciò che sta accadendo attualmente nel dibattito della sinistra più ristretta. Innanzitutto, sembra che la prova definitiva, ora fornita anche dalla pratica politica, sia che la sinistra radicale rimasta in Germania non è in grado di agire nemmeno in una grande crisi politica e sociale e non può più stabilire alcun legame comunicativo con le – per usare un termine antiquato – “masse”.

Ciò non significa, tuttavia, che il compito principale di questa sinistra non sia quello di lavorare politicamente e organizzativamente con tutte le sue forze a questo collegamento. Tuttavia, le forze scarsamente disponibili devono essere concentrate su questo aspetto.

È tuttavia sorprendente notare che, anche a distanza di mesi dall’attacco russo, la foga con cui vengono fabbricate e discusse dichiarazioni di ogni tipo sulla guerra in Ucraina è ancora di gran lunga superiore all’interesse per la questione di come intervenire nel movimento di massa alle porte di casa propria e cercare così di ricavarne almeno qualcosa che assomigli – altra parola polverosa – a un movimento rivoluzionario contro la guerra.

Questo è il significato politico dello slogan secondo cui il nemico principale è nel proprio Paese. Si può fallire su tutta la linea, ma il tentativo sarebbe la via d’uscita dalla passività.

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28/09/2022

The new world - Il nuovo mondo (2005) di Terrence Malick - Minirece

ll centrosinistra è finito

La tornata elettorale del 25 settembre 2022 marca diversi spartiacque storici. È chiaro quello del centrodestra – nel quale la mutazione si compie nel cambio di egemonia da un partito più legato a una multinazionale della comunicazione a uno che deve tenere in equilibrio rapporti con grandi aziende, governance europea e rabbia che viene dal basso – mentre è probabilmente meno chiaro il fatto che il centrosinistra ha esaurito il proprio percorso storico. Naturalmente una serie di riflessioni post voto che non partono da come si muove la società, ma giusto dalla lettura della legge elettorale, suggeriscono un centrosinistra nuovo entro “campi larghi” per non dire sconfinati. In realtà è la materialità del processo storico detto centrosinistra che è venuta meno e qui il problema è solo di quanto tempo avrà bisogno la politica per adeguarsi alla realtà. Di qui qualche riflessione meno legata al presente che poi sfocia negli scenari futuri di questo paese.

Passato

L’espressione politica “centrosinistra” precede di oltre dieci anni la nascita dello stato unitario italiano. Definiva uno dei due schieramenti, l’altro era ovviamente il centrodestra, del parlamento dello stato sabaudo. Dovrebbe aiutare a capire qualcosa di oggi, visti i processi di mimesi e di adattamento al presente di mondi del passato, il fatto che si trattasse di un parlamento di uno stato monarchico votato su base censitaria. Un qualcosa di simile ai consigli di amministrazione odierni eletti da un numero ristretto di proprietari di pacchetti azionari, in questo senso non molto lontano da tante forme di funzionamento delle organizzazioni del presente.

Qui troppi anni di un lessico politico, soprattutto mediale, fatto di centrosinistra come parte di un “bipolarismo”, elemento di “efficienza” che deve presidiare il “centro strategico per vincere” hanno drogato, di molto, la comprensione dei processi antropologici in politica, specie quelli della verticalizzazione del potere. Processi che, tra l’altro, ci rivelano come la statualizzazione delle relazioni sociali, dove è contenuto lo spazio istituzionale del politico, non elimina la tribalizzazione dei rapporti di potere troppo spesso banalizzati come fenomeno di folklore legato a pratiche di corruzione.

La prima stagione storica, repubblicana, del centrosinistra in Italia è comunque quella degli anni ’60, l’Unione europea è praticamente un neonato che porta ancora un altro nome. Qui l’alleanza tra forze di centro e di sinistra comincia con le riforme della scuola media e la nazionalizzazione dell’energia elettrica, importanti per la modernizzazione del paese in quel periodo ma finisce presto per impantanarsi nella lotta tra gruppi clientelari, di tutti i partiti, per l’accaparramento di risorse tramite la politica. Quando arriva il ’68 sarà quest’ultimo il volto del centrosinistra con il quale farà i conti la grande contestazione generale. Il centrosinistra degli anni ’70, successivamente rinominato pentapartito, sarà soprattutto una questione di redistribuzione ineguale di spesa pubblica tramite i partiti, predazione di risorse pubbliche, paralisi delle grandi scelte strategiche poi pagata, dal paese, dagli anni ’90 in poi.

A partire dalla vittoria di Berlusconi del 1994 il centrosinistra rinasce non come rielaborazione critica del ventennio ’60-’80 ma come risposta speculare all’emergere del centrodestra con alcune caratteristiche: definizione, sulla base soprattutto dell’esperienza americana, di un sistema elettorale bipolare dove il “centro” è comunque il terreno decisivo per vincere le elezioni e la “sinistra” un elemento portatore di voti. Questo entro due esigenze materiali: il centro, inizio anni ’90, esprimeva le esigenze ordoliberali della nascente ristrutturazione UE e della stabilizzazione sociale, la sinistra portava voti in nome dell’emergenza democratica rappresentata dalla crescita del centrodestra. Fino al secondo governo Prodi, per il centrosinistra, questo schema ha, con qualche scossone, tenuto. Con le elezioni del 2008, la sinistra parlamentare, sfinita dal consenso garantito alle ristrutturazioni economico-sociali imposte dal centro, svanisce (da 150 parlamentari a zero in una elezione) e rimane come simulacro entro un PD soprattutto attento alle esigenze delle privatizzazioni e delle politiche di bilancio e della mai sopita economia della predazione di risorse che si attua attraverso la politica istituzionale. Questa dinamica, con un PD denominato centro e sinistra assieme più qualche partito ascaro ai lati, durerà fino ai nostri giorni. Fino a oggi, periodo nel quale Fratelli d’Italia, nella analisi dei flussi di voto, fa il pieno nei ceti sociali – dai giovani al ceto medio a quelli definiti “deboli” – pensati come la struttura elettorale del centrosinistra.

Presente

È nell’evaporazione del centro la spiegazione di una delle cause fondamentali dell’esaurirsi del centrosinistra. Il “centro” pensato negli anni ’90 sia come terreno di stabilizzazione sociale espresso dai ceti medi e medio alti e inteso come terreno propulsore di ristrutturazione e innovazione. Intendiamoci, la middle class è da tempo materialmente esplosa negli Usa, paese a cui si rifà molta della letteratura elettorale italiana, trasformandosi da elemento di stabilizzazione in fattore anche socialmente e politicamente tellurico (l’esperienza Trump insegna qualcosa) ma in Italia ci sono della particolarità. La prima è il modo nel quale il centro è un fattore di destabilizzazione sociale. L’alto voto giovanile alla lista Calenda-Renzi, quella che promuove il liberismo attaccando le esigenze dei ceti deboli, è un esempio di destabilizzazione della società da parte del centro fattasi proposta politica che esprime un tipo di sociale nel quale domina la lotta per sottrarsi reciprocamente le risorse. La seconda è che le ristrutturazioni e le innovazioni promosse dall’UE, e gradite al centro, non stabilizzano la società ma la espongono a dinamiche di serio rischio che poi producono una forte domanda elettorale di ordine, quindi di destra. Il centrosinistra degli anni ’90 poggiava tra l’altro su un tessuto volontaristico e mutualistico oggi ridotto spesso a dinamiche di aziendalizzazione anche queste fattore di destabilizzazione nella produzione di solidarietà sociale. In un contesto d’invecchiamento demografico, ridotta mobilità sociale, crisi del legame sociale e d’inesistente redistribuzione della ricchezza è evidente che la sinistra trova molto difficoltosamente uno spazio materiale che, storicamente, ha visto nei più giovani un elemento propulsivo assieme alla cura del legame sociale e al conflitto inteso come dinamica di redistribuzione della ricchezza. In questo senso dovrebbe far riflettere che l’unico cartello elettorale esplicitamente di sinistra, l’allenza SI-Verdi, ha raccolto poco più del tre per cento e, a parte un programma concettualmente scheletrico, soprattutto voti tra i ceti medi riflessivi e quelli medio alti.

Il centrosinistra è quindi finito come dinamica sociale, quella degli anni ’90, con il centro strategico e la sinistra in grado di garantire i voti che mancavano per vincere le elezioni per esaurimento di una parabola sociale e politica nell’effetto impoverimento, di cui lo stesso centrosinistra ha gravi responsabilità storiche, della società italiana. Non è ancora finito come dinamica di estrazione e predazione di risorse, strategia di collocazione sociale, attraverso la politica istituzionale. In questo senso i campi larghissimi del prossimo futuro servono a questa dinamica di accumulazione di ricchezza tramite le politica, nel tentativo di aggregare i ceti politici esistenti, ma molto poco alla società.

Futuro

Ci sono due forme di aggregazione sociale che, nella politica, tendono a riprodursi nel tempo. La prima è una dinamica di centralizzazione di risorse e decisioni simile ai consigli di amministrazione o eletti da un numero ristretto di proprietari di pacchetti azionari. Come abbiamo visto è una dinamica che viene da lontano, dall’Italia preunitaria. La seconda è legata al fatto, che si riproduce nel tempo che la statualizzazione delle relazioni sociali, dove è contenuto lo spazio istituzionale del politico, non elimina la tribalizzazione dei rapporti di potere riproducendo, anche in periodi storici diversi e in formazioni “progressiste”, dinamiche di forte diseguaglianza sociale.

La forma politica del centrosinistra riproduce, nel tempo, queste due forme. La novità è che sembra proprio socialmente esaurita, la realtà, come sempre accade, è che proverà a riprodursi a prescindere da una base materiale concreta. Se il centrosinistra è socialmente finito, il problema delle sinistre è quello di trovare spazio in una società del genere, centrifuga, invecchiata, desolidarizzata, attraversata da conflitti per le risorse scarse tra ceti sociali, le cui dinamiche economiche sono pesantemente condizionate dall’alto (sia in senso finanziario sia di governance europea). Ci vogliono iniezioni di conflitto? Bisogna insistere sulla redistribuzione? Sono domande sensate ma l’impressione è che senza un modello economico, nel quale si connettono produzione di ricchezza e solidarietà diffusa riducendo fortemente la forbice sociale, a sinistra non si va da nessuna parte. E questo modello manca dalla caduta del muro di Berlino e dalla nascita della seconda globalizzazione. Da quando il centrosinistra, nella debolezza strutturale delle sinistre, si è ricavato uno spazio del politico durato circa tre decenni. Ora si aprono nuovi spazi mentre nel frattempo, come si vede, sono occupati da una destra che non ha avuto difficoltà a conquistare giovani, donne, operai, partite IVA, ceto medio, tutte categorie nelle quali è egemone nelle analisi dei flussi elettorali.

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Bollette di gas e luce più alte. Corsa contro il tempo per il nuovo governo

A partire dal prossimo primo ottobre le bollette dell’elettricità, sul mercato tutelato, aumenteranno del 60%. La stima è del centro studi Nomisma Energia in previsione dell’aggiornamento delle tariffe di Arera (l’Authority per l’energia, ndr) previsto per domani.

Anche per intercettare in modo immediato le eventuali iniziative nazionali ed europee di contenimento dei prezzi, l’Arera ha deciso di non utilizzare più come riferimento le quotazioni a termine del mercato all’ingrosso, ma la media dei prezzi effettivi del mercato all’ingrosso PSV italiano, aumentando al contempo la frequenza di aggiornamento del prezzo che diventa mensile, non più trimestrale.

Il nuovo metodo, legato alla situazione di emergenza, sarà in vigore fino al termine della tutela gas, ad oggi previsto a gennaio 2023, termine che l’Autorità ha chiesto più volte venga allineato a quello del fine tutela elettrico, previsto per gennaio 2024.

“Prezzi troppo elevati, una guerra in corso ed un chiaro uso del gas come leva geopolitica ci chiamano ad interventi straordinari, per cercare di garantire la difesa del consumatore e la sicurezza della fornitura – afferma il presidente dell’Arera, Stefano Besseghini – Il ricorso ad un meccanismo più dinamico di formazione del prezzo permetterà di non trasferire al consumatore i costi di copertura del rischio e di trasferirgli invece, immediatamente, i vantaggi derivanti da eventuali decisioni, come il tetto al prezzo del gas, che si dovessero assumere a livello europeo”.

“L’intervento adottato, pur non potendo agire strutturalmente sugli eccezionali livelli dei prezzi di mercato, mira a rendere più sicure le forniture ai consumatori” – scrive l’Arera – “Le perduranti tensioni geopolitiche, infatti, hanno acuito le incertezze sulla disponibilità di gas dalla Russia, aumentando le criticità per i venditori nel reperire sui mercati all’ingrosso il gas necessario a soddisfare i propri clienti, anche domestici, per il prossimo anno termico che parte dal 1° ottobre”.

Dovrebbe tenersi sempre domani il Consiglio dei ministri per dare il via libera a un nuovo decreto teso a fronteggiare l’emergenza dei rincari sull’energia. L’esecutivo uscente è a caccia di circa dieci miliardi ma non è detto che si arrivi alla cifra prestabilita.

Si tratta di fondi che serviranno soprattutto per prorogare alcune scadenze, in particolare a beneficio delle imprese. Si va, per esempio, verso la proroga del credito di imposta sulle bollette delle imprese energivore ma anche sulla cassa integrazione per due mesi.

“Senza interventi del governo – ha dichiarato il presidente di Nomisma Energia, Davide Tabarelli – l’incremento della bollette della luce sarebbe addirittura del 100%”.

Il prezzo dell’elettricità toccherà un nuovo massimo di 66,6 centesimi per Kwh. Per quanto riguarda il gas, alla luce del nuovo metodo di calcolo, l’aggiornamento ci sarà a inizio novembre. In ogni caso, Nomisma stima un rialzo del gas del 70%.

Il nuovo esecutivo uscito dalle elezioni di domenica secondo la Cgia di Mestre “ha già una ipoteca da 40 miliardi di euro e sarà quasi impossibile mantenere, almeno nei primi 100 giorni, le promesse elettorali annunciate in questi ultimi due mesi; come, ad esempio, la drastica riduzione delle tasse, la riforma delle pensioni, il taglio del cuneo fiscale”.

Senza contare, afferma la Cgia, che “se il nuovo inquilino di Palazzo Chigi vorrà intervenire con ulteriori provvedimenti per mitigare il caro energia saranno necessari altri 35 miliardi di euro per ridurre di almeno la metà i rincari che si sono abbattuti quest’anno su famiglie e imprese”.

Il governo uscente deve presentare la Nota di aggiornamento al documento di economia e finanza (Nadef), mentre spetterà al nuovo esecutivo redigere entro il 15 ottobre il Documento programmatico di bilancio (Dpb) ed entro il 20 ottobre il disegno di legge di bilancio. Scadenze, queste ultime due, che quasi certamente non potranno essere rispettate, visto che la prima seduta delle nuove Camere è stata fissata il 13 ottobre. Anche approvare in tempo la finanziaria 2023 non sarà facile: per legge il voto definitivo deve avvenire entro il 31 dicembre, altrimenti scatta l’esercizio provvisorio.

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L'Italia dopo il Voto. E se nel Mezzogiorno scoppiasse una Rivolta?

[Contributo al dibattito] - Adesso tocca alla Meloni

Oggi la Meloni arriva al 26% dei voti, ieri era toccato a Salvini cantare vittoria, prima era stato Grillo e prima ancora Renzi, per non parlare di Berlusconi a suo tempo. Tutti questi “vittoriosi”, escludendo per ora solo l’ultima arrivata, sono inesorabilmente precipitati dalle stelle alla stalle.

Questo andamento ciclico del sistema politico italiano, resosi ormai palese, non è certo casuale ma rispecchia una difficoltà egemonica delle classi dominanti che ricorrono a strumenti che vanno dall’allarme politico – con il decisivo supporto del sistema informativo – all’esaltazione del salvatore della patria, da Monti a Draghi, pur di risollevare le sorti del “Made in Italy”; naturalmente facendole pagare alle classi subalterne e predisponendole ad una nuova svolta “populista”, “sovranista”, “filofascista” e chi più ne ha più ne metta.

Naturalmente questa situazione non è il prodotto di “complotti”, ma una sapiente modalità di gestione di contraddizioni politiche reali, una volta superato il “pericolo comunista”, volgendole a favore delle classi dominanti; una modalità che è stata costruita e sperimentata sul campo dagli anni ’90 dal “think tank” del gruppo editoriale de La Repubblica e del suo fondatore Eugenio Scalfari.

Adesso siamo ad un nuovo stadio della patologia politica nazionale dove il pericolo fascista sarebbe direttamente alle porte, lo dimostra la fiamma missina che sta sul simbolo di “Fratelli d’Italia”, e probabilmente assisteremo nei prossimi mesi ad appelli, mobilitazioni, rappresentazioni gestiti da chi questo pericolo lo ha coltivato e preparato.

Magari mandando in avanscoperta la CGIL o l’associazionismo collaterale al PD, con al seguito una sinistra “antagonista” ma subalterna ai richiami del movimentismo.

Ovviamente il responsabile di tutto ciò è il Partito Democratico che, pur perdendo sistematicamente tutte le elezioni dal 2008 in poi, escluse le europee del 2014 con Renzi, riesce comunque a svolgere un ruolo governativo dannoso per il paese ma non certo per i grandi gruppi imprenditoriali, la finanza, l’Unione Europea, la Nato.

Ad ulteriore testimonianza di ciò si manifesta sia la tendenza sempre più forte all’astensionismo prodotto da una politica sfacciatamente trasformista, sia la cantonata presa da Letta sul M5S che, “espellendolo” dal campo largo, lo ha condotto a nuova vita.

Peraltro nel PD c’è l’abitudine di bruciare i propri dirigenti per ipercompetizione interna e per poter continuare ad avere una funzione di “controllore” conto terzi sul sistema politico nazionale.

Certo è che questa funzione, di fronte ad una ennesima sconfitta elettorale, rischia di portare ad una sua disgregazione dopo aver perso Bersani, Renzi, Calenda e molti altri.

Non è certo possibile fare previsioni in questo senso, ma la prospettiva del PS francese ormai ridotto al lumicino è oggi una possibilità reale anche per questo nido di vipere.

Ma veniamo alla questione posta dal passaggio elettorale e cioè che un partito erede diretto del MSI di Almirante vince le elezioni e aspira alla presidenza del consiglio.

È indubbio che questa organizzazione abbia mantenuto il suo DNA missino, né cerca di nasconderlo troppo quando i suoi dirigenti e militanti fanno il saluto romano, oppure festeggiano qualche loro ricorrenza o quando vomitano frasi razziste classiche del loro repertorio reazionario. Ovviamente lo ritengono un elemento identitario, valutandolo utile al loro rafforzamento.

Purtroppo va preso atto anche del “sorpasso” fatto dalla Meloni, con circa un 27% di voto delle donne, sulle femministe del PD che tanto parlano ma che poi si mostrano incapaci di cambiare la dirigenza politica del partito, femminista a parole ma maschilista di fatto.

Agli aspetti più reazionari che emergeranno andrà data la risposta più dura possibile con le mobilitazioni e la lotta, impedendo al governo futuro di nascondersi dietro un fasullo maquillage democratizzante.

Ma anche i neofascisti devono fare i conti con la realtà che oggi significa guerra, crisi economica e sociale, ma soprattutto rispetto dei dettami dell’Unione Europea.

D’altra parte qualsiasi fascismo non si è mai affermato senza la complicità della grande borghesia che oggi invece ama rappresentarsi in modo soft, “democratico”, a difesa dei diritti, dell’ambiente e di tutto il repertorio ideologico che ci viene quotidianamente squadernato sui mass media.

Dunque il governo di destra dovrà affrontare e gestire una dura fase di regressione sociale ed economica tradendo la propria retorica contro le grandi imprese, la finanza e perfino l’Unione Europea; e già si vedono i primi sintomi di questa riconversione.

Nella conferenza stampa sull’esito elettorale la Meloni ha detto che è giunta “l’ora della responsabilità”, sta rassicurando Draghi e l’élite europea proponendo di scrivere la prossima legge finanziaria a quattro mani con il premier uscente e, come prima prova, intende mantenere l’impegno di eliminare il reddito di cittadinanza in ossequio alle regole UE sul rispetto del rigore di bilancio.

Paradossalmente ci troviamo di fronte ad un ribaltamento delle funzioni politiche della sinistra e della destra avute negli ultimi decenni. Negli anni ’90 e fino alle elezioni del 2006 era il centrosinistra che si faceva carico delle politiche di austerità, colpendo e facendo regredire economicamente e socialmente la propria base elettorale.

Oggi è proprio questa destra “antisistema” che si deve fare carico degli interessi del sistema se vuole rimanere a governare, altrimenti è pronto un trattamento “rude” attuato già con Berlusconi nel 2011, come preannunciato dalla Von der Leyen, presidente della Commissione europea.

Insomma, ci troviamo probabilmente di fronte ad un film visto più volte, dove il vincente elettorale di turno diviene vittima sacrificale delle politiche antipopolari della UE, oggi anche guerrafondaie.

A suggello di questo c’è già stata la giravolta di 180° della Meloni, sostenendo la NATO e le politiche imperialiste Euroatlantiche, in netto contrasto con quando simpatizzava con la Russia e con Putin, come invece continuano a fare in qualche modo i suoi alleati della Lega e Berlusconi, che cercano di non apparire troppo voltagabbana.

Se consideriamo che il quadro politico nazionale sarà questo, non possiamo non valutare i risultati avuti dalla lista alla quale abbiamo dato come RdC il nostro sostegno politico ed organizzativo, cioè l’Unione Popolare.

Il risultato dell’1,5% ha le sue motivazioni certamente nel modo in cui la Unione Popolare è stata letteralmente trascinata nell’agone elettorale, praticamente nei giorni successivi alla sua prima assemblea politica, il 9 luglio, pensando di poter contare su un periodo di alcuni mesi per definire un progetto politico che avesse una sua credibilità, strutturazione e radicamento sociale.

La crisi dell’“inaffondabile” governo Draghi, la scelta di Mattarella di andare subito alle elezioni ed il periodo estivo ci hanno costretti ad un tour de force che comunque ha permesso la partecipazione elettorale ed un risultato inadeguato, ma che ha dimostrato, anche con una campagna elettorale dinamica e articolata, una realtà presente nel paese.

Passata però la tempesta elettorale è indispensabile tornare a riflettere per definire bene gli obiettivi per costruire una rappresentanza politica di settori sociali penalizzati, quindi il carattere organizzato che deve assumere la stessa Unione Popolare ed anche il processo da seguire per trasformare le parole in fatti, con un percorso complesso che purtroppo non si presta a semplificazioni.

Bisogna avere chiara la dimensione della questione che ora ci apprestiamo ad affrontare, relativa alla condizione delle classi subalterne nel nostro paese; subalterne non solo come condizione materiale ma soprattutto sul piano ideologico, con gli effetti politicamente devastanti che possiamo verificare ad ogni passaggio elettorale.

Per noi il risultato elettorale ottenuto ha avuto una funzione positiva con la promozione di un momento e di un percorso collettivo, che però è solo il presupposto di una possibilità, di una potenzialità, tutta da costruire.

Infatti non possiamo non fare una valutazione obiettiva del dato quantitativo raggiunto dalla lista, la quale supera di poco – circa 30.000 voti in più – quello ottenuto da Potere al Popolo nel 2018, cioè in una condizione molto simile a quella attuale, con la convergenza del PRC.

Insomma se la carica soggettiva ne è stata positivamente amplificata, cosa diversa è trovare la strada che vada oltre quello che è lo stretto ambito, pur importante, della sinistra più radicale presente nel paese ma ad oggi assolutamente insufficiente ad aprire prospettive più ampie.

Il punto torna ad essere un forte radicamento sociale, il rapporto di massa organizzato nel mondo del lavoro e tra i giovani e soprattutto i militanti che lavorino su questo obiettivo, in quanto una società ripiegata su se stessa non esprime spontaneamente opposizione cosciente, ma solo una rabbia passiva e senza prospettive, come troppe volte abbiamo visto in questi anni.

Questa possibilità nasce dalla presa d’atto delle prospettive che si concretizzeranno nei prossimi mesi ed anni con i caratteri strutturali e di lungo periodo della crisi apertasi già con la pandemia.

Questa riguarderà i dati meramente economici, dall’inflazione ai salari, alla precarietà; quelli politici, con una stretta democratica già avviata da Draghi e Mattarella, e soprattutto l’epoca di guerra in cui ci stiamo inoltrando.

Di fronte alla crisi sistemica non basta la tattica politica classica dove il posizionamento politico sugli eventi è la pratica principale e prevale sulla progettazione, bisogna prendere atto che quello che manca è la costruzione della forza, dell’organizzazione politica radicata nella società.

Per rispondere alla necessità di modificare i rapporti di forza, e non limitarsi alla sola rappresentazione, alcuni elementi vanno indicati esplicitamente nella prospettiva da costruire.

Il primo è quello di porsi come forza che punta chiaramente al superamento dell’attuale assetto sociale capitalista verso un altro modello sociale legato alla prospettiva socialista. L’identità non è una cosa che va nascosta, d’altra parte abbiamo FdI che ha nel suo simbolo la storia missina e dunque abbassare la propria identità significa semplicemente sparire nell’ordinaria amministrazione.

L’altro è quello dell’organizzazione, che non è mai una questione organizzativa, nel senso che è un processo di costruzione nel tempo che deve prendere atto della realtà da cui si parte.

UP è composta da diverse forze, più o meno organizzate, le quali devono trovare il modo di andare a sintesi pazientemente ed in una situazione molto complessa dove le accelerazioni sono controproducenti.

Nel dna dell’Unione Popolare deve esserci la costruzione di un rapporto di massa con i settori sociali che non sia episodico ma progettuale, con capacità di promuovere movimenti generali di lotta e fuori dagli apparati politici e sindacali che ci hanno portato a questo punto.

In sintesi come si dice in questi casi, al lavoro e alla lotta.

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Cuba eletta alla presidenza del “Gruppo dei 77 più la Cina”

Le autorità cubane hanno espresso la loro gratitudine per la decisione, che implica il riconoscimento della loro difesa degli interessi del Sud globale.

Cuba è stata eletta questo venerdì alla presidenza del Gruppo dei 77 più la Cina (G77+Cina) per l’anno 2023, nel contesto della 77ª sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (ONU).

Dopo aver appreso il consenso dei ministri degli Esteri riuniti a margine dell’Assemblea Generale, il ministro degli Esteri del Paese caraibico, Bruno Rodríguez Parrilla, ha espresso la sua gratitudine per la decisione presa a nome del popolo e del governo cubano.

Da parte sua, il direttore generale del Ministero degli Esteri cubano per gli Affari multilaterali e il Diritto internazionale, Rodolfo Rodríguez, ha dichiarato sul suo account Twitter che “guidare i lavori di questo ampio e diversificato gruppo di consultazione politica non è solo una grande responsabilità, ma anche un riconoscimento della nostra difesa degli interessi del Sud“.

Il G77+Cina è un’organizzazione intergovernativa che riunisce nazioni provenienti da quasi tutta l’America Latina, l’Africa e l’Asia meridionale, con lo scopo di promuovere il sostegno nelle organizzazioni internazionali e la difesa degli interessi comuni.

Sebbene la Cina non sia considerata un membro ufficiale, il governo cinese partecipa e collabora con il gruppo all’esterno, motivo per cui l’organizzazione viene spesso indicata come “G77+Cina”.

Il gruppo comprende attualmente 134 nazioni, che rappresentano i due terzi dei membri delle Nazioni Unite.

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Fuori uso il gsdotto North Stream, possibile sabotaggio

Vedremo presto se si tratta di “sfortunati incidenti” oppure di una deciso passo avanti nell’escalation bellica. Il gasdotto che collega la Russia alla Germania, il Nord Stream, è stato interrotto contemporaneamente su tre linee differenti.

Lunedì Nord Stream aveva annunciato che si era verificata un’emergenza nelle acque danesi presso il Nord Stream 2, con una diminuzione della pressione su una delle linee offshore. Successivamente, Nord Stream ha riferito che è stata registrata una diminuzione della pressione anche su altre due linee di Nord Stream.

Per quanto le infrastrutture sottomarine possano subire danni per i più diversi motivi, una tripla rottura contemporanea ha le stesse probabilità di un sei al Superenalotto.

I danni «avvenuti nello stesso giorno contemporaneamente su tre linee di sistema dei gasdotti offshore del sistema Nord Stream non hanno precedenti», secondo l’agenzia di stampa russa Ria Novosti che riporta il commento di uno degli operatori.

Come conseguenza immediata il prezzo del gas sul TTF di Amsterdam torna a salire (+6,64%) a circa 187 euro al megawattora, dopo tre giorni consecutivi di cali.

La perdita nello specifico si sarebbe verificata a sud-est di Dueodde, nella parte meridionale dell’isola di Bornholm, a metà strada tra Svezia e Polonia. Lo stesso Nord Stream ha affermato che “è impossibile dire quando i flussi potrebbero riprendere”.

La foto aerea qui di fianco mostra chiaramente l’entità della perdita, tanto che la guardia costiera svedese e la marina “hanno inviato un avvertimento di navigazione per le navi mercantili che dovrebbero stare lontano dall’area”.

Le navi devono mantenere una distanza di almeno cinque miglia nautiche, equivalenti a poco meno di dieci chilometri, dalla perdita. Il gasdotto è stato completato, ma i suoi rubinetti nel tratto costiero della città tedesca di Greifswald non sono stati aperti, in parte a causa dell’invasione russa in Ucraina a febbraio.

Anche la Germania, comunque, non esclude un sabotaggio, che equivarrebbe a una escalation della situazione di stallo energetico tra Russia ed Europa. Antony Blinken, segretario di stato Usa, ha dichiarato che gli Stati Uniti stanno esaminando le notizie secondo cui le perdite sarebbero “il risultato di un attacco o di un qualche tipo di sabotaggio”.

Il quotidiano di Berlino Tagesspiegel scrive che la Germania non considera la contemporanea interruzione dei gasdotti una “coincidenza”. E anche la marina danese sembra avere pochi dubbi: “La nostra fantasia non riesce a trovare uno scenario diverso dall’ipotesi di un attacco mirato”, ha detto una fonte citata dal Tagesspiegel. “Tutto fa pensare che non sia stato un caso”.

Naturalmente il principale indiziato è lo schieramento Nato, sia per la posizione geografica dell’“incidente”, sia per la storica contrarietà statunitense a questa infrastruttura che collega Berlino e Mosca intorno ad un interesse strategico.

Per “coincidenza”, nella stessa giornata di ieri è stato inaugurato un altro gasdotto che passa nel Baltico, ma che collega i giacimenti della Norvegia, nel Mare del Nord, con la Polonia. Anche dal punto di vista simbolico, insomma, il messaggio non potrebbe essere più chiaro: si tagliano i ponti tra Europa e Russia, se ne aprono altri più “euro-atlantici”.

Lo stesso Blinken, commentando l'“incidente”, ha sottolineato la disponibilità Usa e fornire un po’ più di gas Gnl, ovviamente a un prezzo molto superiore a quello russo.

A completare il quadro va citato un tweet di Radek Sikorski, ex primo ministro polacco e ora presidente della delegazione UE-USA al Parlamento Europeo, decisamente lapidario: “grazie Usa!”

Non servono del resto grandi esperti per capire che sul fondo del mare è difficile realizzare “attentati” con qualche miliziano poco addestrato. Occorrono sommergibili o batiscafi, siluri, ecc. Tutta roba di cui la Nato, in zona, ha grande disponibilità.

Il portavoce del Cremlino Dmitri Peskov, nell’evidente intento di non aggravare la tensione, ha detto che “il Cremlino non esclude che la distruzione delle linee del gasdotto Nord Stream possa essere il risultato di un sabotaggio”, aggiungendo che “l’emergenza sulle linee del Nord Stream è un problema che riguarda la sicurezza energetica dell’intero continente”.

Una mezza ammissione di colpevolezza viene comunque anche da Tim McPhie, portavoce della Commissione Europea, che ha tenuto a precisare che “è prematuro speculare” sulle cause delle fughe di gas.

La situazione sta diventando ogni giorno più esplosiva, è proprio il caso di dire...

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Tutto questo per tacere del disastro ambientale determinato da simili quantità di gas metano liberate nell'ambiente.

27/09/2022

La guerra lampo dei Fratelli Marx (1933) di Leo McCarey - Minirece

Ucraina, referendum e resa dei conti

Le operazioni di voto nelle quattro regioni ucraine sotto il controllo totale o parziale della Russia stanno giungendo a termine con i risultati parziali che indicano il prevedibile netto successo del ricongiungimento con la Federazione Russa. A differenza di quanto sostiene la propaganda occidentale, la soluzione del referendum è l’esito inevitabile di una gestione della crisi ucraina, da parte di Kiev, Washington e Bruxelles, che va fatta risalire al golpe neonazista del 2014 e che ha avuto come obiettivo non la risoluzione pacifica del conflitto, ma l’accerchiamento della Russia e l’intensificazione delle pressioni sul Cremlino.

La settimana appena iniziata promette cambiamenti dalle implicazioni geo-strategiche eccezionali che costringeranno i governi occidentali e, soprattutto, europei a scelte cruciali per i futuri equilibri transatlantici ed euro-asiatici. I seggi negli “oblast” di Donestk, Lugansk, Kherson e Zaporizhzhia chiuderanno martedì 27 e subito dopo i due rami del parlamento russo ratificheranno la richiesta di annessione alla Federazione. Secondo fonti parlamentari russe, citate dall’agenzia Tass, già nella giornata di venerdì il presidente Putin potrebbe mettere la sua firma su un provvedimento che aggiungerà alla Russia oltre 100 mila chilometri quadrati di territorio e più di 5 milioni di abitanti.

Questa nuova realtà con cui ciò che resta dell’Ucraina e i suoi sponsor occidentali dovranno fare necessariamente i conti si accompagna alla mobilitazione parziale delle forze armate russe, annunciata settimana scorsa dallo stesso Putin. L’evoluzione della “operazione militare speciale”, lanciata il 24 febbraio scorso, in guerra vera e propria avrà principalmente lo scopo di consolidare la difesa dei quattro nuovi territori. Un attacco contro uno di questi ultimi rappresenterà così un attacco contro il territorio russo, con tutte le conseguenze del caso, di cui il Cremlino ha esaustivamente avvertito il regime di Zelensky e i governi occidentali.

I drammatici eventi che si sono succeduti nei giorni scorsi prospettano un’aggiunta di circa 300 mila uomini alle forze russe e del Donbass impegnate in battaglia e una campagna di bombardamenti ancora più massiccia contro obiettivi ucraini spesso risparmiati nei primi sette mesi di guerra, come le infrastrutture strategiche civili e i centri di comando militari, dove è con ogni probabilità presente un numero imprecisato di ufficiali NATO.

L’escalation russa minaccia di essere ancora più devastante se, come già spiegato, dovessero proseguire i bombardamenti ucraini con armi occidentali contro i territori delle quattro regioni che stanno per unirsi alla Federazione Russa. Il rischio serissimo di un aggravamento del conflitto tra Mosca e la NATO, facilmente prevedibile se quest’ultima eventualità dovesse verificarsi, deriva principalmente dalla convinzione prevalente a Washington e a Bruxelles che la mossa di Putin sia stata dettata dalla posizione interna presumibilmente sempre più debole del presidente russo.

In base a questo assunto, l’Occidente ritiene che non sia il momento di fare un passo indietro ed esplorare la via della diplomazia per scongiurare un conflitto anche nucleare, ma piuttosto di intensificare le pressioni per convincere un Putin disperato a ritirare le proprie forze di occupazione da tutto il territorio ucraino. Se ci sono evidentemente divisioni all’interno della classe dirigente europea sull’opportunità di proseguire sul sentiero suicida delle (auto-)sanzioni e del trasferimento di armi al regime di Zelensky, a Washington continua a prevalere la volontà del confronto con Mosca, col risultato di mancare l’opportunità che le stesse recenti decisioni di Putin sembrano avere offerto per intavolare una qualche forma di negoziato.

L’allargamento di fatto dell’ombrello militare russa alle quattro regioni che stanno votando in questi giorni per unirsi alla Federazione rappresenta in altre parole una manovra che dovrebbe consentire a Kiev e all’Occidente di ripensare alle conseguenze di un’intensificazione del conflitto, in particolare per un’Europa che si sta preparando a un inverno difficilissimo dal punto di vista economico ed energetico.

I segnali arrivati finora non sono tuttavia incoraggianti, quanto meno sul fronte della retorica. Politici e media ufficiali continuano a condannare i referendum in corso senza tenere in minima considerazione i fattori storici e le circostanze più recenti che hanno portato agli sviluppi di questi giorni. La versione proposta dall’Occidente disegna una situazione in larga misura immaginaria fatta di una brutale occupazione russa di territori i cui abitanti anelerebbero invece tornare sotto il controllo del governo “democratico” di Kiev.

I votanti nel referendum-farsa sarebbero così costretti dai militari russi a recarsi ai seggi per votare l’annessione alla Federazione, in modo da ratificare una realtà imposta appunto dal Cremlino per via delle aspirazioni imperiali del suo occupante. Questo scenario è d’altra parte coerente con il racconto superficiale e di parte offerto dai media “mainstream” fin dal 2014 e in maniera ancora più accentuata dopo l’inizio delle operazioni militari a fine febbraio.

L’affluenza per i referendum sul ricongiungimento con la Russia a Donetsk, Lugansk, Kherson e Zaporizhzhia sta avvenendo invece spontaneamente, come confermano anche numerosi osservatori occidentali, e in linea con le aspirazioni di popolazioni filo-russe che hanno accolto le forze di Mosca come liberatori dal giogo di un regime infestato di neo-nazisti. Gli abitanti di queste regioni stanno anzi esprimendo il loro voto sfidando la minaccia delle bombe ucraine e le potenziali rappresaglie di un’eventuale ritorno di queste terre sotto il controllo del regime di Kiev.

A partire dall’indipendenza dell’Ucraina, gli “oblast” orientali hanno ovviamente sempre manifestato inclinazioni filo-russe, favorendo candidati e partiti che proponevano politiche di integrazione e collaborazione con Mosca. Così è stato anche dopo il colpo di stato promosso dall’Occidente nel 2014. Lo stesso Zelensky era stato eletto a valanga grazie a un’agenda incentrata sulla risoluzione pacifica del conflitto nel Donbass, in primo luogo con l’implementazione degli accordi di Minsk.

Zelensky avrebbe però ben presto cambiato rotta sotto la spinta degli ambienti più radicali interni e dei sostenitori occidentali dell’Ucraina, intenzionati a fare di questo paese un’arma per mettere la Russia con le spalle al muro. A ciò va aggiunto il vero e proprio tentativo di genocidio perpetrato dal 2014 nei confronti delle popolazioni filorusse del Donbass, costato qualcosa come 14 mila vittime civili tra l’indifferenza di Stati Uniti ed Europa. L’annessione alla Russia di questi territori è dunque un’aspirazione ampiamente diffusa e legittima tra le rispettive popolazioni e, a differenza di quanto sostiene la propaganda occidentale a proposito delle mire del Cremlino, per lungo tempo respinta dallo stesso Putin.

Fino a pochi mesi fa, il governo russo aveva lavorato a un accordo diplomatico con Kiev e l’Occidente, lasciando la porta aperta a un ripensamento delle politiche di muro contro muro ordinate da Washington per le proprie esigenze strategiche. In quest’ottica, l’indipendenza delle auto-proclamate repubbliche del Donbass o la loro integrazione nella Federazione Russa erano soluzioni che Mosca riteneva troppo provocatorie e preferiva quindi evitare o tutt’al più rimandare. Va ricordato inoltre che l’eventuale ratifica degli accordi di Minsk avrebbe consentito all’Ucraina di conservare i territori del Donbass, sia pure all’interno di una struttura federativa e con la garanzia di un certo livello di autonomia. La scelta deliberata fatta da Kiev, Washington e Bruxelles è stata invece di segno opposto, col risultato di spingere la crisi verso il punto di non ritorno e un epilogo pressoché inevitabile.

Davanti alla minaccia dell’intera NATO, la Russia si è ritrovata con l’unica opzione possibile per far fronte a una minaccia niente meno che esistenziale: mobilitazione (parziale) delle forze armate e integrazione nel proprio territorio delle regioni ucraine a maggioranza russofona. La decisione di Putin deve essere stata valutata con estrema attenzione e, quasi certamente, coordinata con i partner della Russia all’interno dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO).

Quest’ultimo fattore, anche se quasi del tutto trascurato dai media ufficiali in Occidente, ha un’importanza cruciale, soprattutto nella prospettiva più ampia delle dinamiche multipolari in atto a livello globale che si intrecciano con la guerra in Ucraina. Nel recente vertice del SCO a Samarcanda, in Uzbekistan, dietro le quinte la crisi ucraina è stata al centro delle discussioni. È molto probabile che Putin abbia ottenuto rassicurazioni principalmente dal presidente cinese, Xi Jinping, sulla gestione del conflitto, tenendo presente la possibile collaborazione reciproca sul fronte Taiwan, oggetto delle continue provocazioni americane.

Resta il fatto che l’accelerazione di Mosca sul referendum e l’annessione dei quattro “oblast” ucraini non cambia di una virgola la posizione internazionale della Russia, “isolata” solo nelle fantasie di un Occidente sempre più allo sbando. In un’analisi pubblicata dal sito Strategic-Culture.org, Pepe Escobar ha riassunto efficacemente gli sviluppi degli ultimi giorni: “Il vertice SCO di Samarcanda e l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite hanno dimostrato ampiamente come virtualmente tutto il ‘Sud Globale’ al di fuori della NATO non intende demonizzare la Russia”, ma “comprende la posizione di Mosca e, addirittura, trae profitto da essa, come la Cina e l’India che acquistano grandi quantità di gas pagandolo in rubli”.

Messa di fronte al rilancio di Putin, l’Europa dovrà scegliere in fretta se abbandonare l’insensata politica delle sanzioni e delle armi, per abbracciare le occasioni di sviluppo che si aprono a Oriente, o continuare sulla strada dell’auto-distruzione economica e militare per assecondare, dietro la logora retorica della “democrazia” e dei “diritti umani”, quello che resta delle velleità egemoniche dell’impero.

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