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22/09/2022

USA-Taiwan, fine dell’ambiguità?

Se tre indizi fanno una prova, il quarto dovrebbe quasi garantire l’esistenza di un determinato evento o intenzione. Così dovrebbe valere anche per il presidente americano Biden, il quale nel fine settimana ha appunto per la quarta volta espresso nel corso del suo mandato l’intenzione esplicita di intervenire militarmente a sostegno di Taiwan se l’isola dovesse essere oggetto di un’aggressione militare cinese. Questa “dottrina” ostentata dall’inquilino della Casa Bianca è altamente controversa, perché non solo smentisce la posizione ufficiale degli Stati Uniti sulla cosiddetta politica di “una sola Cina”, ma così facendo minaccia di mandare in archivio anche quella “ambiguità strategica” che per quattro decenni ha garantito stabilità nello stretto di Taiwan, col rischio di far precipitare lo scontro tra Pechino da una parte e Washington e Taipei dall’altra.

La nuova polemica è scoppiata in seguito a un’intervista di Biden al noto programma “60 Minutes” della CBS rilasciata, probabilmente non a caso, in concomitanza con il vertice dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO) a Samarcanda, in Uzbekistan, che ha dato ulteriore impulso alle dinamiche multipolari in atto grazie alla partnership russo-cinese. Alla domanda se gli USA intendono difendere militarmente Taiwan in caso di aggressione da parte della Cina, Biden ha dunque risposto affermativamente, purché in presenza di “un attacco senza precedenti”. Vista la gravità delle parole di Biden, il conduttore della trasmissione ha posto la domanda in termini più precisi: “A differenza dell’Ucraina, le forze [armate] americane”, ovvero “i soldati americani difenderebbero Taiwan in caso di invasione cinese?”. Anche in questo caso la risposta è stata affermativa e senza ambiguità.

Come già ricordato, non è la prima uscita di questo genere del presidente americano. Lo scorso maggio aveva ad esempio dichiarato in un’altra intervista che le forze armate USA sono pronte a intervenire a Taiwan sulla base degli impegni presi da Washington. Nel fine settimana, così come in occasione delle precedenti prese di posizione di Biden sull’argomento, la Casa Bianca è intervenuta per “chiarire” e, in parte, rettificare le parole del presidente. Un portavoce ha garantito infatti che la posizione ufficiale americana su Cina e Taiwan non è cambiata.

Lo stesso presidente nell’intervista alla CBS ha confermato l’adesione USA alla politica di “una sola Cina”. Biden ha precisato che “Taiwan deve fare le proprie scelte in merito all’indipendenza”, mentre gli Stati Uniti “non incoraggiano” un processo diretto verso quello che Pechino considera un esito inaccettabile. Le rassicurazioni dell’amministrazione Biden appaiono però sempre meno convincenti, soprattutto agli occhi della leadership cinese, poiché si accompagnano a fatti che indicano intenzioni diametralmente opposte.

Della posizione ufficiale americana e dei pericoli che comporta un’eventuale variazione degli equilibri strategici consolidati ne aveva discusso lo stesso Biden in un articolo del 2001 che l’allora senatore democratico aveva scritto per il Washington Post. A ricordarlo è stato nel fine settimana il sito di informazione alternativa Antiwar. In quell’occasione, Biden criticava George W. Bush per avere lasciato intendere che gli USA avrebbero difeso militarmente Taiwan da un attacco della Cina. Bush jr. aveva in realtà fatto in seguito marcia indietro, ma Biden spiegava che le sue parole minacciavano comunque di “danneggiare la credibilità” americana e di alimentare le tensioni con Pechino.

Nello stesso articolo, Biden spiegava inoltre che Washington non aveva alcun obbligo di difesa nei confronti di Taiwan, per via “dell’abrogazione del trattato di mutua difesa del 1954” dopo la formalizzazione delle relazioni diplomatiche con Pechino nel 1979. Dopo il riconoscimento di quello della Repubblica Popolare Cinese come l’unico governo legittimo, gli Stati Uniti avevano interrotto le relazioni formali con Taiwan, sia pure continuando a fornire armi all’isola e mantenendo il già ricordato atteggiamento di “ambiguità strategica”. In base a essa, il governo americano evita di affermare in modo esplicito la propria intenzione di intervenire militarmente in un eventuale conflitto tra Cina e Taiwan, così da scoraggiare sia un’invasione da parte di Pechino sia una dichiarazione di indipendenza da parte di Taipei.

La realtà degli ultimi anni ha determinato tuttavia importanti cambiamenti che inevitabilmente producono rischi sempre maggiori di un conflitto nello stretto di Taiwan, in grado di coinvolgere gli Stati Uniti e altri paesi come ad esempio il Giappone. A partire almeno dall’amministrazione Obama, gli USA hanno progressivamente eroso i principi su cui si era basato il processo di distensione con Pechino promosso in funzione anti-sovietica da Nixon e Kissinger negli anni Settanta del secolo scorso.

Le direttive lungo le quali le provocazioni di Washington si sono mosse e si stanno muovendo riguardo alla questione di Taiwan sono essenzialmente tre: incremento costante della quantità e qualità delle armi vendute; visite sull’isola di personalità politiche e di membri del governo USA di grado sempre più alto; ripetuti pattugliamenti da parte di navi da guerra americane nelle acque che separano la Cina da Taiwan.

La visita ad agosto della “speaker” della Camera dei Rappresentanti del Congresso di Washington, Nancy Pelosi, aveva portato gli Stati Uniti e la Cina sull’orlo dello scontro militare come poche volte era accaduto in passato. Pechino aveva minacciato addirittura di abbattere il volo della leader del Partito Democratico se avesse cercato di atterrare a Taipei. L’amministrazione Biden, ufficialmente contraria alla visita della Pelosi, aveva a sua volta mobilitato le proprie forze navali in Asia orientale. Alla fine, il governo cinese si era astenuto dal prendere iniziative concrete, ma la crisi ha segnato un’escalation del confronto con implicazioni allarmanti per il futuro, come era apparso chiaro dalla mobilitazione senza precedenti delle forze armate cinesi per una serie di esercitazioni militari.

Le dichiarazioni di Biden nel fine settimana si accompagnano a un’attività frenetica sul fronte politico americano a favore di Taiwan. La Casa Bianca ha approvato un nuovo pacchetto di forniture militari per l’isola da oltre un miliardo di dollari, mentre la commissione Esteri del Senato ha dato il via libera a una bozza di legge che, se approvata in via definitiva, minaccia di svincolare in maniera probabilmente decisiva gli Stati Uniti dalla politica di “una sola Cina” e dagli impegni formali presi decenni fa.

Il “Taiwan Policy Act” trova appoggio bipartisan al Congresso e prevede una nuova tranche di “assistenza” per la sicurezza dell’isola pari a 6,5 miliardi di dollari. Inoltre, a Taiwan verrebbe attribuito lo status di “major non-NATO ally”, cioè un alleato di primissimo piano al di fuori del Patto Atlantico, che comporta una serie di benefici di carattere militare e tecnologico. Interazioni più strette tra le forze armate di Washington e Taipei sarebbero allo stesso modo promosse e sanzioni teoricamente molto pesanti scatterebbero nei confronti della Repubblica Popolare in caso di attacco contro l’isola.

L’ambasciata cinese in America ha reagito a queste notizie avvertendo che l’approvazione definitiva del “Taiwan Policy Act” farebbe “crollare le fondamenta su cui si basano le relazioni tra Cina e Stati Uniti”. Una mossa di questo genere renderebbe di conseguenza sempre più probabile uno scontro armato tra le due potenze, ma alcuni senatori che hanno dato voto favorevole alla legge in commissione continuano a sostenere assurdamente che il provvedimento serve da deterrente a un’ipotetica invasione cinese dell’isola.

Al momento, la sorte della legge è tutt’altro che chiara. Il voto dell’aula non è stato ancora fissato e l’amministrazione Biden ha espresso parecchie perplessità. La Casa Bianca, come testimoniano le recenti dichiarazioni di Biden, intende anch’essa insistere con le provocazioni nei confronti di Pechino, ma preferisce in questo frangente evitare azioni formali che farebbero precipitare la situazione. La strategia, ugualmente rischiosa e dissennata, sembra essere piuttosto quella di alterare progressivamente e di fatto lo status quo nei rapporti con Taiwan, riaffermando in parallelo e ormai solo nella forma l’adesione alla politica di “una sola Cina”.

La scommessa di Washington nel tentativo di contenere la “minaccia” cinese sul fronte di Taiwan, da sempre una questione vitale per gli interessi di Pechino, comporta ad ogni modo pericoli gravissimi. Come per la crisi russo-ucraina, gli Stati Uniti ritengono di poter portare gli equilibri fino al punto di rottura, nel tentativo di alzare le pressioni su Mosca o su Pechino, confidando in un passo indietro dei propri rivali un secondo prima dello scontro irreparabile.

Tutto l’assunto americano appare però poggiarsi su basi fragilissime. L’insistenza sulle provocazioni minaccia di mettere la Cina con le spalle al muro, così come è accaduto con la Russia, e di innescare una risposta militare devastante con conseguenze incalcolabili non solo per la popolazione taiwanese, come quella ucraina sacrificata senza scrupoli alle mire strategiche USA, ma anche per tutta l’Asia orientale e il resto del pianeta.

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