Del ruolo avuto dall’informazione in questi tempi di guerra, se ne parlerà parecchio, in saggi, studi e in pubblicazioni accademiche. Se ne parlerà anche più della guerra stessa. Se ne parlerà, ma non ora, in un futuro più o meno prossimo. Magari tra venti o trent’anni, quando il mondo sarà cambiato.
O, a pensarci bene, magari non se ne parlerà perché il mondo non ci sarà più, scenario drammatico ma niente affatto fantasioso. Perché di guerre l’umanità ne ha fatte, viste e raccontate tante. Ma mai, neanche nei piani più ambiziosi dei deliri “goebbelsiani” o nelle visioni distopiche orwelliane, si erano viste tante penne trasformate in baionette, tante teste infilate sotto la sabbia, tante mezze verità da non farne una buona.
Del resto, già l’oplita greco Eschilo, reduce dalle battaglie di Salamina e Maratona, arrivò a dire che in guerra la prima vittima è la verità. Assunto di grande equilibrio politico ma di difficile comprensione se si considera che in quel tempo a contendersi tributi in terra ed acqua c’erano da una parte la Grecia, che illuminava il mondo con i primi vagiti di democrazia, e dall’altra l’oscuro impero persiano del Dio-Re Serse.
Non sappiamo se lo stesso Eschilo avesse la piena consapevolezza dell’assoluta e millenaria verità di quanto detto, quello che è certo è che tale verità la ritroviamo forte e tragica ancora oggi nel conflitto in Ucraina.
Dalla fine di febbraio di quest’anno, tv, stampa, rete, social, hanno arruolato tutti noi in guerra, e poco importa se quello stesso conflitto persista da quasi un decennio in quegli stessi territori senza sollevare o almeno solleticare l’interesse anche minimo di chicchessia, quello che conta è che adesso questa è la nostra Guerra.
La mobilitazione è stata immediata e di massa: attori, rock star, sportivi, intellettuali, chef, influencer, hanno affiancato le truppe scelte e quelle di riserva dell’informazione nazionale, e quando leggiamo che il conflitto è tra ucraini e “filorussi” o “separatisti”.
Che le Repubbliche popolari del Donbass sono “cosiddette” o nei casi migliori “autoproclamate” (come se esistesse una forma diverse oltre l’autoproclamazione per dirsi repubblica).
Che chi combatte in favore del Donbass è un “mercenario” e chi ha ripreso il proprio lavoro nei territori sotto il controllo russo è un “collaborazionista”, viene da pensare che anche la lingua italiana abbia deciso di schierarsi a favore della delirio giallo-azzurro.
“In tutto questo bailamme di bugie, contro bugie, colpi bassi e tradimenti, i giornalisti dove sono? Tutti arruolati, fra le fila dei patrioti o fra quelle dei conservatori, combattenti armati di carta e penna a esaltare ognuno la propria causa”.[1]
Parole di Ennio Remondino che evidentemente già aveva ben chiara la collocazione dei rappresentanti del quarto potere: da una parte o dall’altra della barricata a scambiarsi cannonate.
Già, peccato che di parte, in questo caso, ce n’è una sola. Il 24 febbraio per la storia, quella con la esse minuscola, la Russia ha “invaso” l’Ucraina. A leggerlo così sembra il titoletto di un bignami di storia per le scuole medie, un po’ come Cesare che varca il Rubicone, e invece è stato il tenore generale che i media ci hanno fornito sul conflitto.
Informazione diretta, schietta, quasi anglosassone direbbe qualcuno. Poco conta che non sia dato sapere il perchè e non vengano fornite argomentazioni se non che probabilmente il presidente Russo, Vladimir Putin è un pazzo e un criminale. Migliaia di “professionisti dell’informazione” si sono così riversati nel paese divenuto simbolo della libertà ferita e della democrazia che resiste.
Abbiamo ascoltato le voci tremanti di chi raccontava l’assedio di Kiev (che non c’è mai stato), le testimonianze di una guerra etnica (chissà tra quali etnie) fatta di stupri e fosse comuni (certificati da Zelensky e da Rete 4), lo sbarco dei russi a Odessa (avvenuto non si sa bene quando).
E poi, in un crescendo continuo, abbiamo appreso che il grano ucraino sfama il Terzo mondo, che se stacchi i cartelli stradali l’esercito invasore può sbagliare strada, che i russi che controllano la centrale nucleare di Zaporizhia vengono bombardati dai russi, che la controffensiva ucraina da nord, anzi da sud ma forse da centro sta avendo successo e i nuovissimi carrarmati ucraini (in realtà non proprio ucraini ma noleggiati dai polacchi che li hanno acquistati dei tedeschi) sono riusciti a portare la guerra al confine russo, cioè nel Donbass, dov’è dal 2014.
Un panorama desolante, di più, tragicamente pericoloso. “Tentativi di controllo della stampa stavano realizzandosi in zone di guerra. In molti casi ciò avveniva riducendo, per i giornalisti, mezzi tecnici e logistici; in altri, i professionisti più scomodi erano rimossi e sostituiti; in altre circostanze, infine, le eliminazioni di tutele e sicurezze faceva sì che gli stessi rimanessero coinvolti, spesso tragicamente, nelle azioni e negli scontri militari”.[2]
Come ci insegna la storia di Andrea Rocchelli, fotoreporter freelance italiano che ha documentato quanto stava avvenendo alle porte d’Europa fin dal 2014. La sua storia e purtroppo la sua morte, in un agguato teso da bande paramilitari ucraine mentre documentava gli orrori del post-Maidan nell’est del paese, si guadagnerà a mala pena alcuni trafiletti sulla stampa italiana.
Nessuna celebrazione, nessun ricordo, nessuna giornata in sua memoria. Le sue foto rimangono eredità e testimonianza del folle prezzo da pagare per chi con professionalità e coraggio svolge il proprio lavoro.
Ma anche il giornalismo anglosassone, tradizionalmente immune alle sirene del potere, agli interessi lobbistici e di casta sembra aver dimenticato la propria vocazione. Ne sa qualcosa Graham Phillips.
Giornalista della britannica BBC e corrispondente in Ucraina già dal 2012 durante gli europei di calcio. Quando due anni dopo esplode la guerra civile, mentre gli occhi dei media di tutto il mondo luccicano sul Maidan di Kiev, lui decide di seguire, unico tra i suoi colleghi occidentali, quanto stava accadendo in quelle stesse giornate nel Donbass.
Per otto lunghi anni ha provato a raccontare una guerra che sembrava non interessare nessuno. Evidentemente neanche la sua emittente che senza troppe spiegazioni lo licenzia in tronco. Senza lavoro, e quindi senza risorse, e in un paese in guerra, continua a produrre decine di reportage, centinaia di ore di girato, migliaia di interviste che rimangono straordinaria testimonianza della guerra “a bassa intensità” ma ad alto numero di vittime civili che proprio non piace ricordare alla parte importante del mondo.
Neanche alla neo-premier britannica Liz Truss che con atto unilaterale ha sanzionato il giornalista bloccando il suo conto corrente della Nationwide e sequestrando le sue proprietà. Perché le sanzioni che l’Ue ha reiterato contro la Russia sono un po come le bombe a grappolo, colpisco a caso e spesso colpiscono chi non dovrebbe essere colpito, amici compresi.
“L’idea di castigare l’aggressività di Putin con un isolamento economico di Mosca è impraticabile. Sarebbe in realtà un suicidio. La Russia di oggi assomiglia ben poco a quel gigante povero e in bancarotta che nel 1998 doveva chiamare in aiuto il Fondo monetario internazionale”.[3]
Parole di Carlo de Benedetti e Federico Rampini (proprio lui, proprio loro) che nel 2008 sembravano avere le idee chiare sui rapporti di forza tra Bruxelles e Mosca. Eppure, da più di sei mesi gli stessi, direttamente o indirettamente attraverso il gruppo editoriale che rappresentano, non perdono un giorno per ricordarci la bontà, l’utilità, la necessità dei pacchetti di sanzioni che con cadenza settimanale vengono votati nei parlamentini di tutta Europa.
Cambiare opinione, si sa, è caratteristica delle persone sagge, ma il sospetto che dietro a tutto ci sia la più classica delle genuflessioni al patto atlantico è molto forte. Insomma, si comincia a parlare di guerra, di informazione, di etica nel giornalismo e si finisce a parlare di marchette. Ognuno con la sua, in fondo anche gli aspiranti “professionisti dell’informazione” delle decine di microtestate “indipendenti” stanno sfruttando la guerra per riempirsi il piatto. Di lenticchie ovviamente.
“Nel giornalismo attuale ogni tromba che chiama all’assalto vuole un suo trombettiere. Allargando il campo al servilismo militante, possiamo aggiungere che ogni lottizzatore ha bisogno di un lottizzabile. La questione se sia la guerra a corrompere l’informazione, o se, viceversa, sia l’informazione satura di volontari trombettieri a dare il peggio di sé, somiglia all’eterno litigio sul primato tra uovo e gallina.
È come discutere se sia la prostituzione ad aumentare gli utenti del sesso a pagamento o la domanda di peccato ad aumentare l’offerta. Si tratta sempre di puttane e puttanieri”.[4]
Appunto...
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La foto in apertura fu scattata da Andrea Rocchelli nel 2014, quando già allora era uno dei pochi reporter occidentali che aveva avuto il coraggio di documentare gli effetti sulle popolazione del Donbass di quello che in questa parte del mondo veniva esaltata come la rivoluzione del Maidan. Di cosa in realtà si trattasse la sperimentarono, poco dopo, i lavoratori di Odessa nel 2 maggio del 2014 e lo stesso Andrea, quando fu assassinato il 24 maggio.
Note
[1] Ennio Remondino, NIENTE DI VERO SUL FRONTE OCCIDENTALE da Omero a Bush, la verità sulle bugie di guerra. Rubbettino 2009
[2] AA.VV. SE DICI GUERRA UMANITARIA, guerra e informazione e guerra all’informazione. Besa 2005
[3] Carlo De Benedetti, Federico Rampini, CENTOMILA PUNTURE DI SPILLO come l’Italia può tornare a correre. Mondadori 2008.
[4] Ennio Remondino, op. cit.
Fonte
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