La tornata elettorale del 25 settembre 2022 marca diversi spartiacque storici. È chiaro quello del centrodestra – nel quale la mutazione si compie nel cambio di egemonia da un partito più legato a una multinazionale della comunicazione a uno che deve tenere in equilibrio rapporti con grandi aziende, governance europea e rabbia che viene dal basso – mentre è probabilmente meno chiaro il fatto che il centrosinistra ha esaurito il proprio percorso storico. Naturalmente una serie di riflessioni post voto che non partono da come si muove la società, ma giusto dalla lettura della legge elettorale, suggeriscono un centrosinistra nuovo entro “campi larghi” per non dire sconfinati. In realtà è la materialità del processo storico detto centrosinistra che è venuta meno e qui il problema è solo di quanto tempo avrà bisogno la politica per adeguarsi alla realtà. Di qui qualche riflessione meno legata al presente che poi sfocia negli scenari futuri di questo paese.
Passato
L’espressione politica “centrosinistra” precede di oltre dieci anni la nascita dello stato unitario italiano. Definiva uno dei due schieramenti, l’altro era ovviamente il centrodestra, del parlamento dello stato sabaudo. Dovrebbe aiutare a capire qualcosa di oggi, visti i processi di mimesi e di adattamento al presente di mondi del passato, il fatto che si trattasse di un parlamento di uno stato monarchico votato su base censitaria. Un qualcosa di simile ai consigli di amministrazione odierni eletti da un numero ristretto di proprietari di pacchetti azionari, in questo senso non molto lontano da tante forme di funzionamento delle organizzazioni del presente.
Qui troppi anni di un lessico politico, soprattutto mediale, fatto di centrosinistra come parte di un “bipolarismo”, elemento di “efficienza” che deve presidiare il “centro strategico per vincere” hanno drogato, di molto, la comprensione dei processi antropologici in politica, specie quelli della verticalizzazione del potere. Processi che, tra l’altro, ci rivelano come la statualizzazione delle relazioni sociali, dove è contenuto lo spazio istituzionale del politico, non elimina la tribalizzazione dei rapporti di potere troppo spesso banalizzati come fenomeno di folklore legato a pratiche di corruzione.
La prima stagione storica, repubblicana, del centrosinistra in Italia è comunque quella degli anni ’60, l’Unione europea è praticamente un neonato che porta ancora un altro nome. Qui l’alleanza tra forze di centro e di sinistra comincia con le riforme della scuola media e la nazionalizzazione dell’energia elettrica, importanti per la modernizzazione del paese in quel periodo ma finisce presto per impantanarsi nella lotta tra gruppi clientelari, di tutti i partiti, per l’accaparramento di risorse tramite la politica. Quando arriva il ’68 sarà quest’ultimo il volto del centrosinistra con il quale farà i conti la grande contestazione generale. Il centrosinistra degli anni ’70, successivamente rinominato pentapartito, sarà soprattutto una questione di redistribuzione ineguale di spesa pubblica tramite i partiti, predazione di risorse pubbliche, paralisi delle grandi scelte strategiche poi pagata, dal paese, dagli anni ’90 in poi.
A partire dalla vittoria di Berlusconi del 1994 il centrosinistra rinasce non come rielaborazione critica del ventennio ’60-’80 ma come risposta speculare all’emergere del centrodestra con alcune caratteristiche: definizione, sulla base soprattutto dell’esperienza americana, di un sistema elettorale bipolare dove il “centro” è comunque il terreno decisivo per vincere le elezioni e la “sinistra” un elemento portatore di voti. Questo entro due esigenze materiali: il centro, inizio anni ’90, esprimeva le esigenze ordoliberali della nascente ristrutturazione UE e della stabilizzazione sociale, la sinistra portava voti in nome dell’emergenza democratica rappresentata dalla crescita del centrodestra. Fino al secondo governo Prodi, per il centrosinistra, questo schema ha, con qualche scossone, tenuto. Con le elezioni del 2008, la sinistra parlamentare, sfinita dal consenso garantito alle ristrutturazioni economico-sociali imposte dal centro, svanisce (da 150 parlamentari a zero in una elezione) e rimane come simulacro entro un PD soprattutto attento alle esigenze delle privatizzazioni e delle politiche di bilancio e della mai sopita economia della predazione di risorse che si attua attraverso la politica istituzionale. Questa dinamica, con un PD denominato centro e sinistra assieme più qualche partito ascaro ai lati, durerà fino ai nostri giorni. Fino a oggi, periodo nel quale Fratelli d’Italia, nella analisi dei flussi di voto, fa il pieno nei ceti sociali – dai giovani al ceto medio a quelli definiti “deboli” – pensati come la struttura elettorale del centrosinistra.
Presente
È nell’evaporazione del centro la spiegazione di una delle cause fondamentali dell’esaurirsi del centrosinistra. Il “centro” pensato negli anni ’90 sia come terreno di stabilizzazione sociale espresso dai ceti medi e medio alti e inteso come terreno propulsore di ristrutturazione e innovazione. Intendiamoci, la middle class è da tempo materialmente esplosa negli Usa, paese a cui si rifà molta della letteratura elettorale italiana, trasformandosi da elemento di stabilizzazione in fattore anche socialmente e politicamente tellurico (l’esperienza Trump insegna qualcosa) ma in Italia ci sono della particolarità. La prima è il modo nel quale il centro è un fattore di destabilizzazione sociale. L’alto voto giovanile alla lista Calenda-Renzi, quella che promuove il liberismo attaccando le esigenze dei ceti deboli, è un esempio di destabilizzazione della società da parte del centro fattasi proposta politica che esprime un tipo di sociale nel quale domina la lotta per sottrarsi reciprocamente le risorse. La seconda è che le ristrutturazioni e le innovazioni promosse dall’UE, e gradite al centro, non stabilizzano la società ma la espongono a dinamiche di serio rischio che poi producono una forte domanda elettorale di ordine, quindi di destra. Il centrosinistra degli anni ’90 poggiava tra l’altro su un tessuto volontaristico e mutualistico oggi ridotto spesso a dinamiche di aziendalizzazione anche queste fattore di destabilizzazione nella produzione di solidarietà sociale. In un contesto d’invecchiamento demografico, ridotta mobilità sociale, crisi del legame sociale e d’inesistente redistribuzione della ricchezza è evidente che la sinistra trova molto difficoltosamente uno spazio materiale che, storicamente, ha visto nei più giovani un elemento propulsivo assieme alla cura del legame sociale e al conflitto inteso come dinamica di redistribuzione della ricchezza. In questo senso dovrebbe far riflettere che l’unico cartello elettorale esplicitamente di sinistra, l’allenza SI-Verdi, ha raccolto poco più del tre per cento e, a parte un programma concettualmente scheletrico, soprattutto voti tra i ceti medi riflessivi e quelli medio alti.
Il centrosinistra è quindi finito come dinamica sociale, quella degli anni ’90, con il centro strategico e la sinistra in grado di garantire i voti che mancavano per vincere le elezioni per esaurimento di una parabola sociale e politica nell’effetto impoverimento, di cui lo stesso centrosinistra ha gravi responsabilità storiche, della società italiana. Non è ancora finito come dinamica di estrazione e predazione di risorse, strategia di collocazione sociale, attraverso la politica istituzionale. In questo senso i campi larghissimi del prossimo futuro servono a questa dinamica di accumulazione di ricchezza tramite le politica, nel tentativo di aggregare i ceti politici esistenti, ma molto poco alla società.
Futuro
Ci sono due forme di aggregazione sociale che, nella politica, tendono a riprodursi nel tempo. La prima è una dinamica di centralizzazione di risorse e decisioni simile ai consigli di amministrazione o eletti da un numero ristretto di proprietari di pacchetti azionari. Come abbiamo visto è una dinamica che viene da lontano, dall’Italia preunitaria. La seconda è legata al fatto, che si riproduce nel tempo che la statualizzazione delle relazioni sociali, dove è contenuto lo spazio istituzionale del politico, non elimina la tribalizzazione dei rapporti di potere riproducendo, anche in periodi storici diversi e in formazioni “progressiste”, dinamiche di forte diseguaglianza sociale.
La forma politica del centrosinistra riproduce, nel tempo, queste due forme. La novità è che sembra proprio socialmente esaurita, la realtà, come sempre accade, è che proverà a riprodursi a prescindere da una base materiale concreta. Se il centrosinistra è socialmente finito, il problema delle sinistre è quello di trovare spazio in una società del genere, centrifuga, invecchiata, desolidarizzata, attraversata da conflitti per le risorse scarse tra ceti sociali, le cui dinamiche economiche sono pesantemente condizionate dall’alto (sia in senso finanziario sia di governance europea). Ci vogliono iniezioni di conflitto? Bisogna insistere sulla redistribuzione? Sono domande sensate ma l’impressione è che senza un modello economico, nel quale si connettono produzione di ricchezza e solidarietà diffusa riducendo fortemente la forbice sociale, a sinistra non si va da nessuna parte. E questo modello manca dalla caduta del muro di Berlino e dalla nascita della seconda globalizzazione. Da quando il centrosinistra, nella debolezza strutturale delle sinistre, si è ricavato uno spazio del politico durato circa tre decenni. Ora si aprono nuovi spazi mentre nel frattempo, come si vede, sono occupati da una destra che non ha avuto difficoltà a conquistare giovani, donne, operai, partite IVA, ceto medio, tutte categorie nelle quali è egemone nelle analisi dei flussi elettorali.
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