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29/04/2024

Israele dichiara guerra vera ai movimenti pacifisti nei nostri paesi

Naturalmente c’è da sperare che questo progetto abnorme fallisca subito. Ma il solo fatto che sia stato “pensato” getta una luce livida sul gruppo dirigente di Israele che, anche agli occhi di compassati osservatori ultra-atlantisti, appare ormai posseduto dal demone di una visione millenaristica, simile a quella dell’Isis musulmano.

Stiamo parlando del programma di “formazione di gruppi civili armati affiliati alle comunità ebraiche all’estero, per contrastare il movimento di lotta contro l’occupazione israeliana, negli Stati Uniti d’America e in Europa”, che ha il suo massimo progettista nel ministro della sicurezza di Tel Aviv, Itamar Ben Gvir.

Ossia qualcuno che in questo momento ha il potere di fare ciò che ha in testa, non un pirla qualsiasi che balla sui tavoli di una birreria sparando scemenze che diventerebbero tragedie, se messe in pratica.

Ha il potere, dunque, di creare in diversi paesi del mondo – pescando nell’ala sionista estrema delle comunità ebraiche, non certo tra i membri di associazioni come la Jewish Voice of Peace – “squadre di allerta”, ossia gruppi armati composti da civili che rientrano nel “comando del fronte interno dell’esercito”. Insomma, agli ordini del governo di Tel Aviv.

Per la formazione di queste “truppe irregolari” all’estero il governo Netanyahu si impegna a fornire “supporto professionale, compresa la formazione e il rafforzamento della risposta tecnologica di sicurezza”.

Per tranquillizzare almeno in parte i governi che si ritroveranno queste bombe in casa, per di più alla vigilia di ricevere un mandato di cattura internazionale, Ben Gvir ha assicurato “piena collaborazione con la polizia locale e le autorità competenti”.

La gravità di questo progetto è tale da sconvolgere quel che resta – non molto, in verità – della cornice costituzionale delle “democrazie liberali”.

Vediamo perché.

La difesa delle comunità ebraiche nel mondo

È completamente falsa la premessa-obiettivo. Nella storia dell’umanità non c’è mai stato, probabilmente, un periodo così tranquillo per le numerose comunità ebraiche sparse in moltissimi paesi, sia dell’Occidente che non.

Gli attentati di diversi gruppi palestinesi all’estero sono ormai un ricordo lontano di una fase della Resistenza che si era chiusa con gli “accordi di Oslo” e l’inizio della costruzione di uno Stato palestinese. Processo che la destra israeliana ha interrotto assassinando Yitzhak Rabin, il primo ministro che li aveva firmati, e intensificando l’espansione delle colonie in Cisgiordania.

Da allora, comunque, la lotta dei palestinesi è rimasta all’interno degli incerti confini di Israele e dei territori occupati, come dimostra la storia delle varie Intifada.

All’estero i pochi episodi di antisemitismo violento sono stati in genere gesti isolati oppure di lieve entità (tipo, in Italia, gli sfregi alle “pietre di inciampo”), con protagonisti i nazifascisti “classici”, o “nostalgici”, che oggi appaiono compattamente al fianco del governo Netanyahu e dello stato militarista israeliano.

C’è da ricordare, infine, che anche i gruppi più sanguinari del “terrorismo islamico” – tipo l’Isis – non hanno mai preso a bersaglio né Israele né le comunità ebraiche. Il che ha naturalmente sollevato non poche domande sulle triangolazioni teoricamente possibili...

Dunque il “nemico” individuato da Ben Gvir e Netanyahu, come esplicitamente dichiarato, sono i movimenti pacifisti che in tutto il mondo stanno premendo per isolare il governo genocida cui appartengono.

Il monopolio statale della forza

In ogni caso, e in tutti i paesi del mondo, la “difesa delle comunità ebraiche” – come di qualsiasi altro cittadino o comunità – è compito dello Stato che le ospita, tramite le sue forze armate e di polizia, non di “milizie statali straniere”.

Sappiamo che da decenni, all’interno delle comunità ebraiche, esistono nuclei di “autodifesa”, armati e con regolare porto d’ami italiano, posti a protezione delle sinagoghe e di altri luoghi simbolicamente importanti (il Ghetto di Roma, per esempio). Ma il loro ruolo è stato fin qui decisamente “difensivo”, anche se spesso in modo molto aggressivo (lo sa bene chiunque abbia provato a passare nei dintorni del Portico D’Ottavia indossando qualcosa che assomigliava ad una kefiah...).

Il programma di Ben Gvir punta però a cambiare radicalmente la funzione di questi “nuclei armati”.

La premessa, falsa, serve a nascondere il carattere eversivo del progetto israeliano: creare un corpo militare irregolare – “civili armati e sottoposti al proprio comando” – operanti in paesi sovrani, sia “alleati” che non.

Ricordiamo che ogni Stato al mondo si caratterizza per il monopolio della forza, ossia per il potere esclusivo di organizzare e sviluppare un esercito, forze di polizia, servizi di sicurezza, ecc.

Gli unici “stranieri” abilitati a portare ed eventualmente utilizzare armi sono i militari di paesi alleati con cui sono stati sottoscritti accordi di mutua assistenza (esempio classico italiano: gli statunitensi nelle basi Nato), oppure gli agenti di scorta a ministri o presidenti, temporaneamente in visita nel paese.

Una milizia composta da civili obbedienti ad un altro Stato è una bomba posta sotto l’autorità e la “sovranità” del paese che la “ospita”. A maggior ragione se – come nel caso di civili che dispongono di una “doppia nazionalità” – non esiste un obbligo di dichiarare una “priorità”.

Facciamo esempi semplici, così da facilitare la comprensione anche ai non esperti di regole istituzionali.

Un qualsiasi calciatore, se dispone di una doppia nazionalità, deve prima o poi scegliere una volta per tutte per quale paese intende giocare se convocato in nazionale. Non può insomma scegliere di volta in volta, mettendo così sempre in dubbio la sua reale appartenenza e “onestà sportiva”.

A maggior ragione, un/a potenziale soldato/essa deve scegliere per quale paese è disposto a combattere, perché non è affatto detto che le due “nazioni” che gli riconoscono la cittadinanza saranno sempre in pace tra loro.

Si sa che in questo momento circa 1.400 cittadini italiani sono stati o sono impegnati come riservisti o militari al fronte, tra Gaza e il confine con il Libano. Oggi Italia e Israele sono parecchio “complici”, ma un auspicabile cambiamento politico in uno dei due paesi potrebbe un giorno metterli in contraddizione.

Per chi combatterebbero quei miliziani sionisti? Stanti le caratteristiche note del progetto israeliano, quei miliziani sarebbero una sorta di “quinta colonna” dell’esercito di Tel Aviv in Italia. Armati e formati per combattere, ma agli ordini di un governo “straniero”. Magari considerato “nemico”. Eventualmente, insomma, anche contro un governo meno sdraiato sugli interessi di Israele.

Quasi un casus belli, secondo le regole internazionali.

Una milizia nazionalista per condizionare il quadro internazionale

Peggio ancora. La creazione di questa milizia non ha confini, riguarda potenzialmente ogni paese del mondo in cui esiste una comunità ebraica (o meglio: dove esiste un’ala “sionista combattente”).

Avremo insomma una rete militare/informativa con dimensioni quasi mondiali ma obbediente agli interessi strategici di un solo paese, oltretutto perennemente in guerra con i suoi vicini e i loro alleati. Una rete, detto altrimenti, che dissemina la logica e la pratica della guerra nazionalista praticamente dappertutto. Ad insindacabile giudizio di un governo – come detto – posseduto da una visione millenaristica, simile a quella dell’Isis musulmano...

A ben guardare, si tratta del rovesciamento finale della grandiosa storia cui tanto avevano contribuito rivoluzionari di origine ebraica. Dall’internazionalismo liberatorio al nazionalismo predatorio sul mondo, dall’uguaglianza tra tutti gli esseri umani alla pretesa di supremazia “divina” di un unico gruppo etnico-religioso.

Interferenza deliberata nella dialettica politica di altri paesi

Non è ancora finita. Queste squadre armate sioniste, già nella definizione degli “scopi”, assumono come “nemico” quella parte della popolazione e del panorama politico che non condivide affatto il genocidio in corso a Gaza e, appena meno esplicito, in Cisgiordania.

In altri termini, la finalità di queste squadre è condizionare militarmente la dialettica politica di ogni paese i cui saranno presenti. Una modalità che si aggiunge, eventualmente, a quelle ordinarie nel capitalismo attuale (basti citare l’informazione, per esempio).

Pratiche omicide

Il carattere specificamente militare di quelle “squadre”, enfatizzato peraltro dagli stessi ministri israeliani, mette esplicitamente nel mirino – in senso letterale – chiunque critichi la politica di Tel Aviv, a partire dal noto mantra secondo cui ogni obiezione a Israele sarebbe una manifestazione di “antisemitismo” (sul punto consigliamo sempre la lettura di un altro nostro articolo).

Israele si fa storicamente un vanto delle proprie pratiche di “guerra sporca”, con in testa le esecuzioni mirate. Finché questa capacità – diversi decenni fa – si limitava al rintracciare ed eliminare i criminali nazisti, nessuno trovava molto da obiettare. Anzi...

Quando ha cominciato a rivolgersi contro i dirigenti palestinesi costretti all’esilio, già era diventata una pratica intollerabile (pur se molto tollerata dai governi imperialisti). Solo a Roma tra il 1972 e il 1982 sono stati uccisi quattro dirigenti palestinesi.

Ma se “il nemico” sono i movimenti che in Occidente e altrove – sempre pacificamente e a mani nude – stanno animando le piazze a favore del “cessate il fuoco”, lo slittamento verso uno stragismo reazionario e nazionalista diventa un pericolo immediato. Secondo il linguaggio ordinario, insomma, sarebbe (o sarà) terrorismo sionista.

Conoscendo le “pratiche” israeliane non si fa fatica a immaginare un lavoro di intelligence (condotto “in collaborazione con la autorità locali”, se queste sono spianate sulle posizioni sioniste) per schedare e selezionare i “target” per poi condurre azioni “offensive”, magari graduando tra “pestaggi mirati”, “stupri punitivi” (come minacciato in piazza il 25 aprile), fino agli omicidi.

È chiaro anche che queste azioni, essendo opera di “milizie irregolari”, non sarebbero ufficialmente rivendicate (se non magari dopo anni), rimanendo avvolte nelle nebbie dei “si dice”, alimentando magari la “dietrologia” che specie in Italia ha una tradizione fognaria solidissima.

Ma è anche il caso di ricordare che questa torsione omicida dell’identità sionista, che si propone di assorbire totalmente l’identità ebraica, mette a rischio proprio le comunità che dice di voler “difendere”, esponendole a qualsiasi follia o ritorsione.

Al contrario che in Israele, infatti, gli ebrei nel mondo non vivono in una sorta di fortino fondato sull’apartheid, ma – giustamente – come tutti gli altri cittadini locali. Ovvero come individui e famiglie libere, che si riuniscono solo nelle scadenze rituali.

Militarmente indifendibili, insomma, a dimostrazione che la “premessa” alla base di questo programma è non solo totalmente falsa, ma anche terribilmente pericolosa per le comunità ebraiche.

In altri termini, come già osservato da molti ebrei non sionisti, “il più potente incentivo all’antisemitismo è proprio il governo Netanyahu”.

Riassumendo

Violazione della “sovranità” degli Stati, interferenza militare nella dinamica politica di altri paesi, violenza organizzata contro una parte delle popolazioni e specificamente i movimenti solidali...

Ce n’è abbastanza per pretendere che nessun governo europeo si presti a “collaborare” con questo programma.

Ma, chissà com’è, ci sembra che l’aria sia decisamente opposta...

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Russia - Putin non ha ordinato la morte di Navalnj. Le conclusioni dell’intelligence statunitense

Con una conclusione arrivata tardivamente, le agenzie di intelligence statunitensi hanno stabilito che il presidente russo Putin probabilmente non ha ordinato l’uccisione in carcere dell’esponente dell’opposizione Alexej Navalnj a febbraio. A renderla pubblica è stato sabato il Wall Street Journal.

Navalny, 47 anni è morto in carcere a febbraio e i suoi sostenitori avevano accusato Putin di averlo assassinato dichiarando che avrebbero fornito prove a sostegno delle loro accuse. Le accuse dirette a Putin erano rimbalzate anche nella sede del Parlamento europeo e al Congresso USA. Tutti i leader e i mass media dei paesi occidentali si erano allineati a questa chiave di lettura.

Il Cremlino aveva negato qualsiasi coinvolgimento dello Stato. Il mese scorso, Putin ha definito “triste” la morte di Navalny facendo sapere di essere stato pronto a consegnare il politico incarcerato all’Occidente in uno scambio di prigionieri a condizione che Navalny non rientrasse più in Russia. Diverse fonti, ufficiali e ufficiose, avevano confermato che tali colloqui erano in corso.

Il Wall Street Journal, citando fonti anonime che hanno familiarità con la questione, ha affermato sabato che le agenzie di intelligence statunitensi hanno concluso che Putin probabilmente non ha ordinato l’uccisione di Navalny a febbraio.

Il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov ha detto sabato di aver visto il rapporto del Wall Street Journal che, a suo avviso, conteneva “speculazioni vuote”.

“Ho visto il materiale, non direi che è materiale di alta qualità che merita attenzione”, ha detto Peskov ai giornalisti quando gli è stato chiesto della questione.

L’agenzia Reuters non ha potuto verificare in modo indipendente il rapporto del Wall Street Journal, secondo cui la scoperta era stata “ampiamente accettata all’interno della comunità dell’intelligence e condivisa da diverse agenzie, tra cui la Central Intelligence Agency, l’Ufficio del Direttore dell’Intelligence Nazionale e l’unità di intelligence del Dipartimento di Stato”.

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Cina - L'economia rallenta?

Secondo alcune stime l’economia cinese è in fase di rallentamento. In realtà per il momento il Pil è in crescita di oltre il 5%. C’è senz’altro un cambio di strategia in atto e si presentano alcuni problemi, soprattutto sociali, che la dirigenza cinese è chiamata ad affrontare.

Premessa

Da qualche tempo i media occidentali pubblicano articoli molto critici sull’attuale situazione economica cinese, prevedendo prospettive molto negative per il Paese asiatico. Bisogna a questo proposito ricordare che ormai da decenni la pubblicistica del Nord del mondo ci ha abituati a vedere sfornare in grande abbondanza previsioni catastrofiche sul Dragone, previsioni poi regolarmente smentite dai fatti.

In realtà nel 2023 il Pil cinese è cresciuto del 5,2% e le stime per il 2024 parlano di un 5,0%. I dati a consuntivo del primi trimestre sembrano confermare la plausibilità di tale valutazione; in effetti il Pil è cresciuto del 5,3%. Certo tali cifre appaiono inferiori a quelle cui Pechino ci aveva abituati in passato, ma, oltre a ricordare che questi dati sono inferiori soltanto a quelli dell’India, va anche considerato che, vista la dimensione cui è ormai giunta l’economia cinese, ottenere tassi di crescita superiori appare un’impresa assai ardua. Certamente, per altro verso, la Cina si trova oggi di fronte ad alcuni problemi di peso mentre sta cercando di cambiare alcuni aspetti del suo modello di sviluppo.

Nel testo che segue cercheremo di fare il punto sulla situazione attuale, avvalendoci anche di molte informazioni tratte da diversi media internazionali, con particolare riferimento ad alcuni articoli apparsi di recente su The Economist.

Le nuove forze produttive

L’economia cinese sta cercando di cambiare, almeno in parte, le sue strategie di crescita. Di fronte a problemi interni (si veda meglio al paragrafo successivo), al rallentamento degli scambi internazionali e all’ostilità crescente dei Paesi occidentali, di fronte anche allo sviluppo impetuoso delle nuove tecnologie, il gruppo dirigente cinese ha messo a punto linee di sviluppo abbastanza nuove.

Per quanto riguarda tali piani (The Economist, 2024, a), Xi Jinping pone l’accento sullo sviluppo delle nuove forze produttive, attraverso l’applicazione ancora più forte della scienza e della tecnologia alla produzione.

In altre parole, si tratta di una strategia di sviluppo centrata sull’innovazione e sull’innalzamento della qualità della crescita; Pechino coltiva l’obbiettivo di essere leader nella nuova rivoluzione industriale, compreso il raggiungimento dell’autosufficienza su alcune rilevanti tecnologie finora controllate dall’estero. Così per il 2024 si prevede di aumentare il budget per la scienza e la tecnologia del 10%, una percentuale molto più alta del tasso previsto di sviluppo dell’economia.

Si tratta di uno sforzo molto impegnativo anche dal punto di vista finanziario, che si troverà di fronte a possibili ostacoli. Da una parte la Cina ha bloccato qualche tempo fa lo sviluppo di alcune sue grandi imprese tecnologiche (a partire da Alibaba) che erano diventate troppo potenti, riaffermando così il primato della politica sull’economia; in questo modo però ha spaventato diversi altri gruppi e gli stessi investitori. Bisogna considerare che una parte importante degli investimenti in tecnologie era assicurata in passato a livello regionale; ma ora, anche per la crisi del settore immobiliare e per l’alto livello dell’indebitamento, le risorse disponibili a livello locale appaiono più scarse.

Più in generale le opinioni sul possibile successo del piano sono divise: mentre l’equipe di The Economist individua molti punti deboli in questa strategia (The Economist, 2024, a), Martin Wolf – il più autorevole giornalista del Financial Times – è piuttosto ottimista al riguardo (Wolf, 2024), sorreggendo le sue analisi anche su un recente testo sulle prospettive del Paese (Doku Li, 2024).

Bisogna aggiungere che ci sono altri obiettivi importanti che l’attuale gruppo dirigente mira a perseguire. Tra questi, quello di migliorare lo Stato sociale, la protezione dell’ambiente, lo sviluppo culturale e il rafforzamento del controllo del partito (Wolf, 2024).

I problemi

La lista dei problemi che le due precedenti gestioni, piuttosto immobilistiche, avevano lasciato in eredità alla presidenza di Xi era abbastanza chiara; tra questi problemi, una corruzione diffusa, diseguaglianze crescenti, rilevanti danni ambientali dello sviluppo industriale. C’è da ricordare che la nuova presidenza si è impegnata ad affrontare questi problemi.

La lotta alla corruzione ha ottenuto importanti risultati, anche se c’è da segnalare come richieda ancora sforzi impegnativi. Per quanto riguarda il secondo tema – la crescita continua nel tempo dei livelli di diseguaglianza – sette-otto anni fa la curva sembrava aver raggiunto un picco e da allora in effetti ha cominciato a decrescere di anno in anno, sia pure lentamente. Da ricordare in tale quadro la lotta ingaggiata diversi anni fa per debellare la povertà assoluta, lotta apparentemente conclusa in maniera positiva. Altri progetti stanno per essere varati. Sui danni ambientali rimandiamo ad un altro paragrafo in questo stesso testo.

Ora la lista dei problemi principali cui si trova di fronte la dirigenza cinese appare nella sostanza diversa: spiccano soprattutto la crisi immobiliare, il livello eccessivo dell’indebitamento (e però nel contempo dei risparmi), l’invecchiamento della popolazione e infine l’ostilità occidentale, con ciò che comporta e cioè la difficoltà nelle esportazioni di beni e servizi e i freni all’importazione di tecnologia (Wolf, 2024). Si potrebbero aggiungere alla lista, i consumi che al momento si dimostrano piuttosto fiacchi.

Per quanto riguarda la crisi immobiliare, i grandi gruppi operanti nel settore, dopo la grande attività pluridecennale nel portare avanti un colossale piano abitativo finalizzato ad alloggiare centinaia di milioni di persone che si spostavano dalla campagna alle città, una volta che tale grande obiettivo si è ridimensionato, si sono trovati di fronte ad un mercato in difficoltà e sono entrati in crisi. Di fronte agli allarmismi occidentali, il governo non sembra aver dato grande enfasi alla crisi del settore e sembra puntare ad un soluzione graduale del problema, come in effetti sta accadendo, tra alti e bassi, mentre ne soffrono le molte persone che si sono trovate invischiate nella vicenda.

Sull’invecchiamento della popolazione, di fronte agli allarmismi occidentali rispetto alla tendenziale riduzione di persone occupabili, il Paese può fare molto per frenarne le conseguenze (The Economist, 2024, b). Può alzare l’età pensionistica, che è molto bassa (60 anni per gli uomini e 50-55 per le donne); può aiutare la crescita dell’istruzione dei giovani, crescita che migliora in generale la produttività, mentre potrà dare una mano anche una ulteriore riduzione della popolazione agricola. Infine potrà giovare la crescente introduzione di macchine nelle attività produttive. Già oggi in Cina ogni anno viene installato nella produzione circa il 50% del totale mondiale di robot.

Per finire veniamo alla questione dei consumi. In Cina i consumi sono all’incirca il 53% del Pil, contro il 72% dei Paesi sviluppati (The Economist, 2024, c). C’è quindi un ampio spazio per la crescita, ma la crisi dell’immobiliare e quella del covid hanno fiaccato un po’ il morale dei cinesi, frenato dalle non eccezionale situazione della sanità e del sistema pensionistico, oltre che dal fatto che i lavoratori migranti, nonostante i deboli tentativi di riforma del sistema degli hoku, sono ancora oggi ostacolati nell’accesso a scuole e ospedali nelle città dove lavorano. Tutto ciò indica che ci sono ampi spazi per intervenire positivamente nella situazione.

Alla fine si tratta di problemi impegnativi, ma gestibili (Wolf, 2024).

La tecnologia

Una ricerca messa a punto da un centro studi australiano, l’Australian Policy Research Institute, sponsorizzata dal Dipartimento di Stato statunitense, che, come abbiamo ricordato in un articolo pubblicato qualche tempo fa su questo stesso sito, ha cercato di fare il punto sulla situazione delle alte tecnologie. Esaminando in particolare 44 settori produttivi avanzati, tale ricerca ha trovato che in 37 settori è la Cina a guidare la gara mondiale mentre nei restanti 7 settori appaiono in testa gli Stati Uniti, mentre l’Europa appare tagliata fuori dalla gara.

Ora, appare plausibile che la ricerca sia stata un po’ “orientata” dallo stesso Dipartimento di Stato a favore della Cina, con l’obiettivo di ottenere più fondi dal Parlamento Usa con la scusa del pericolo asiatico, ma appare indubitabile che la Cina abbia fatto passi da gigante nel settore delle nuove tecnologie e che la lotta tra le due superpotenze si svolga ormai sostanzialmente ad armi pari. È noto che la Cina appare ancora indietro in alcuni settori chiave come i chip e l'aeronautica civile, mentre in quello dell’IA sembra che gli Stati Uniti, almeno per il momento, godano di un vantaggio, peraltro non incolmabile, mentre gli stessi Stati Uniti stanno facendo di tutto per bloccare o almeno frenare i progressi cinesi, che comunque vanno avanti abbastanza rapidamente. Così nei primi tre mesi del 2024 la produzione di chip cinesi è cresciuta del 40%.

Gli investimenti in ricerca della Cina hanno raggiunto nel 2023 i 458 miliardi di dollari, avvicinandosi fortemente a quelli degli Stati Uniti. È noto, per altro verso, che il Paese del Dragone è ormai da qualche tempo in testa alla classifiche mondiali sia per quanto riguarda il numero delle domande di brevetti depositato ogni anno, sia per il numero di articoli scientifici pubblicati sulle principali riviste internazionali.

Gli stessi Stati Uniti, per contrastare l’avanzata del Paese asiatico, cercano di unire a loro vantaggio le forze nel campo tecnologico con tutti i Paesi “amici” e hanno obbligato Taiwan e Corea del Sud, i due paesi più avanzati nella produzione dei chip, ad aprire delle fabbriche negli Stati Uniti che incorporino le tecnologie più nuove nel campo delle unità centrali e delle memorie, mentre obbligano altri Paesi avanzati, come l’Olanda e il Giappone, a non vendere le macchine di produzione più aggiornate sempre nel campo dei chip.

Nel frattempo le imprese cinesi, nonostante tutte le limitazioni Usa, sono riuscite, con grandi prodezze tecnologiche, a produrre chip a 7 nanometri, mentre stanno per arrivare a farlo anche per quelli a 5 nanometri e si preparano ad andare avanti fino a quelli a 3 nanometri.

L’ecologia

La produzione industriale cinese è ormai pari a quella di Stati Uniti, Giappone, Germania, Francia e Gran Bretagna, Corea del Sud messe insieme.

In tale quadro non dovrebbe sorprendere il forte primato raggiunto nelle energie verdi (Martin, 2024). Pechino produce oggi l’80% dei pannelli fotovoltaici (il cui costo è pari al 50% di quelli europei), così come il 60% delle turbine eoliche (costo inferiore del 60%) e delle auto elettriche (costi inferiori del 30%). D’altro canto, gli investimenti cinesi nelle energie rinnovabili sono pari, annualmente, all’incirca alla metà di quelli mondiali. Gli Stati Uniti e l’UE stanno cercando di mettere freni all’espansione cinese nel settore dell’ecologia sotto i più vari aspetti (le forti sovvenzioni statali alle imprese, l’utilizzo del lavoro forzato nello Xinjang, la sovra-capacità produttiva delle imprese cinesi, lo spionaggio industriale, barriere ambientali, la mancata reciprocità di trattamento, il dumping, ecc.). Nel frattempo i produttori del paese asiatico cercano di sviluppare le loro attività nei Paesi emergenti. Così, ad esempio, un continente come l’America Latina ha una crescente dipendenza dalla tecnologia verde cinese, mentre si stringono sempre più i rapporti con i Paesi del Medio Oriente, in questo come in altri campi.

Si può registrare una apparente contraddizione nel disegno ecologico della Cina. Gli investimenti nelle centrali a carbone sono i più importanti a livello mondiale. Una spiegazione sta nel fatto che la Cina cerca di premunirsi contro possibili interruzioni dei flussi di petrolio e gas in caso di possibili ostilità future da parte degli Stati Uniti. In effetti le nuove centrali a carbone sono molto sottoutilizzate.

D’altro canto, Pechino sta rispettando i suoi programmi di riduzione dell’inquinamento ambientale. Anzi, aveva promesso di raggiungere il picco delle emissioni inquinanti nel 2030, ma è possibile che raggiungerà questo obiettivo già quest’anno o al massimo l’anno prossimo. Anche l’obiettivo della neutralità carbonica, fissato nei documenti ufficiali al 2060, potrebbe essere raggiunto prima. E l’Europa? E gli Stati Uniti?

I rapporti con l’Occidente

Sia Trump che Biden hanno cercato di alzare barriere tariffarie e di altro tipo contro le esportazioni cinesi, predicando l’acquisto dei prodotti da paesi più “amichevoli”. Ma i risultati non premiano tanti sforzi, nonostante le cifre ufficiali sembrino confermare una riduzione importante dell’import dalla Cina. Ci sono molte spiegazioni a questa apparente contraddizione. Intanto, mentre le esportazioni dalla Cina diminuivano, aumentavano invece fortemente quelle di altri paesi quali il Vietnam, l’India, il Messico e una parte di queste importazioni sono in realtà di prodotti contenenti semilavorati cinesi. Inoltre gli importatori statunitensi tendono a sottostimare il volume dei prodotti acquistati dalla Cina nelle categorie coperte dalle tariffe (Martin, 2024); (The Economist, 2024, d).

Gli Stati Uniti tendono a bloccare o a mettere dazi su quasi tutti i prodotti cinesi. Ma l’ostilità bipartizan della politica Usa nei confronti della Cina si scontra con la disponibilità di molti grandi gruppi industriali statunitensi a fare affari con il Paese asiatico, che è ormai il primo mercato mondiale per moltissimi prodotti, e pertanto è molto difficile sostituirlo per quanto riguarda la scala, l’efficienza, la velocità e l’innovazione delle sue produzioni.

La politica di Bruxelles appare prona ai voleri di Washington, ma l’atteggiamento europeo verso la Cina è, almeno in parte, meno ostile. In particolare ci troviamo di fronte alla dichiarata volontà tedesca di aumentare, e non rallentare, i rapporti economici con il Paese del Dragone.

Da ricordare, inoltre, che per molti decenni Washington ha predicato con convinzione la dottrina del libero scambio e della libertà dei mercati, in diversi casi addirittura imponendola a vari Paesi. Ora che gli altri hanno imparato a giocare meglio, è difficile dire che il gioco non vale più.

Alla fine, una qualche forma di riduzione dei rapporti economici, in particolare nei settori ad alta tecnologia, andrà avanti tra la Cina e l’Occidente, ma i legami economici tra i due blocchi sono così forti che appare scontato che le relazioni rimarranno abbastanza strette nel tempo (Escande, 2024).

In ogni caso, come abbiamo detto, il Paese asiatico, di fronte alla diminuzione dei legami con l’Occidente, sta sviluppando fortemente i rapporti economici con i Paesi emergenti.

La Cina e i paesi emergenti

L’insieme dei paesi con economie emergenti probabilmente ha già superato il livello del 60% del Pil mondiale, almeno seguendo il criterio della parità dei poteri di acquisto. E questi Paesi che un tempo venivano definiti “in via di sviluppo” tendono a chiedere in maniera sempre più forte la messa in opera di un nuovo ordine globale, che in effetti è in via di costruzione anche se in maniera confusa, contraddittoria, complicata, con forti resistenze da parte degli Stati Uniti e, in minore misura, da parte dei Paesi europei. Questo nuovo ordine non dovrebbe essere dominato dalla Cina, sia per la riluttanza di diversi Paesi ad accettare tale ipotesi, sia in ragione delle resistenze della stessa Cina a ricoprire un simile ruolo. Sembra quindi si vada configurando un nuovo ordine di tipo pluralista.

In modo embrionale si stanno muovendo in questo senso i Brics, organizzazione cui aderiscono un decina di Paesi del Sud del mondo e alla quale vogliono aderire molti altri. I paesi emergenti non sono certamente uniti su diversi fronti, ma sono d’accordo sulla necessità di cambiare i rapporti di forza a livello mondiale e di acquisire maggiori poteri di decisione nell’ambito globale.

Intorno all’organizzazione e, in misura minore alla Sco, nonché intorno alla stessa Cina, si vanno costituendo, sia pure con qualche difficoltà, organismi finanziari che dovrebbero con il tempo superare come importanza quelli tradizionali di stampo occidentale. Del resto, i grandi gruppi cinesi hanno ormai assunto dimensioni e importanza rilevantissime nel settore dei finanziamenti internazionali.

Nel gruppo dei Brics ferve in particolare la discussione su come coordinare un’uscita progressiva dal dollaro, punto di forza fondamentale della potenza Usa. I singoli paesi emergenti stanno portando avanti diverse iniziative che vanno in tale senso. La riduzione del peso della valuta statunitense appare un processo lungo e difficile, che però sembrerebbe andare avanti con determinazione.

Tra il 2000 e il 2021 la Cina ha finanziato nel mondo emergente più di 20.000 progetti infrastrutturali in 165 Paesi, molti dei quali sotto l’egida della BRI, con risorse di un valore di circa 1,3 trilioni di dollari. La Cina è da tempo la più importante fonte internazionale di finanziamento per lo sviluppo (The Economist, 2024, e).

Il sistema cinese ha mostrato qualche problema; nel periodo del covid ha visto un rallentamento della macchina, ma si va riprendendo e Pechino sta apportando modifiche che sembrano migliorative (The Economist, f). Si evita, cioè, di prestare soldi a Paesi già fortemente indebitati con la Cina, mentre ci si spinge verso quelli che presentano una buona probabilità di restituzione, o che per ragioni diplomatiche e militare interessano di più. Alcuni progetti sono partiti in tandem con i paesi del Golfo e dell’America Latina, con il concorso di produttori locali, pubblici e privati. Si registra anche qualche mutamento geografico, con una minore enfasi sull’Africa e maggiore interesse sui Paesi più vicini, su quelli che sono fonti di materie prime e su quelli dove le imprese cinesi possono schivare le tariffe occidentali (The Economist, 2024, f).

Conclusioni

I problemi che deve affrontare l’economia cinese sono certamente rilevanti, ma sembrano gestibili. Del resto, negli ultimi decenni il Paese ha saputo superare difficoltà anche più complesse. E c’è da ricordare che “la forza di 1,4 miliardi di persone che aspirano ad una vita migliore è estremamente potente” (Wolf, 2024). Comunque l’economia cresce e migliora la qualità del suo sviluppo.

Chi scrive auspicherebbe che il gruppo dirigente di Pechino cerchi di migliorare in particolare la situazione sociale del Paese, sino a ieri sacrificata, dal settore della sanità al livello delle pensioni, nonché alla regolarizzazione della situazione degli hoku. Preoccupa l’ostilità tout azimut degli Stati Uniti e il loro rifiuto di riconoscere la realtà dei fatti e lasciare una spazio adeguato al Paese asiatico e più in generale alle nuove realtà dei Paesi emergenti. Una ostilità che potrebbe portare a conseguenze molto negative per il mondo.

Testi citati nell’articolo

– Doku Li D., China’s world view, Norton, New York, 2024

– Escande P., Les risques de la démondialisation, Le Monde, 11 aprile 2024

– Martin A., Les ressorts d’une montée en puissance, Alternatives Economiques, gennaio 2024

– The Economist, Hype and hyperopia, 6 aprile 2024, a

– The Economist, An ageing autocracy, 13 aprile 2024, b

– The Economist, Spend more, please, 10 febbraio 2024, c

– The Economist, Still Coupled, 2 marzo 2024, d

– The Economist, Who’s the big boss of the global south?, 13 aprile 2024, e

– The Economist, Changing cash flows, 25 febbraio 2024, f

- Wolf M., The future of « communist capitalism « in China, www.ft.com, 12 marzo 2024

Fonte

Tassi e austerità, l’ipoteca della BCE sulla crescita europea

Il 25 aprile, mentre in Italia si manifestava contro il fascismo e in solidarietà della legittima resistenza palestinese, la BCE ha pubblicato il suo terzo bollettino economico dell’anno. Insieme a questo, tutti gli operatori economici attendevano col fiato sospeso notizie sui tassi di interessi.

Per il vicepresidente della Banca, De Guindos, il taglio di questi ultimi è già un “fatto compiuto”, e si avrà a giugno. Allo stesso tempo, però, nel documento reso pubblico viene esplicitato che si manterranno tassi restrittivi finché sarà considerato necessario.

Queste indicazioni quantomeno ambigue hanno portato il governatore di Banca d’Italia, Fabio Panetta, a riaffermare pubblicamente il suo sostegno al taglio dei tassi, senza tergiversare ulteriormente. La preoccupazione è che l’alto costo del denaro scoraggi ulteriormente gli investimenti, incancrenendo la stagnazione economica.

I tassi sui prestiti alle imprese e sui mutui ipotecari sono diminuiti di un decimo di punto a febbraio, mentre di due decimi sono aumentati i prestiti alle imprese su base annua. Numeri irrisori per far credere a un cambio di passo, e il timore è che la paura dell’inflazione blocchi qualsiasi scelta dell’Eurotower.

Essa, al di là di tutto, prevede che l’inflazione oscilli sui livelli attuali ancora per alcuni mesi, per poi raggiungere l’obiettivo del 2% il prossimo anno. Questa dinamica è dovuta, spiega il bollettino, certo alla politica monetaria e al ridursi dell’impatto della crisi pandemia ed energetica, ma anche alla “più debole crescita del costo del lavoro”.

Ovviamente, anche nelle polemiche sollevate verso la BCE dalla maggioranza italiana, nessuno ha sottolineato come l’inflazione sia stata tenuta a bada con una guerra agli adeguamenti dei salari al costo della vita. Il tutto mentre gli istituti bancari hanno visto volare i propri profitti.

Bisogna tuttavia dire che la preoccupazione per le condizioni economiche e per il malcontento dei lavoratori è tale che Panetta si è azzardato in un discorso che non sentiamo spesso. Egli ha evidenziato come discutere di salari in maniera scollegata da profitti e produttività è fuorviante.

A suo avviso le imprese “potrebbero assorbire l’aumento dei salari (e potenzialmente anche dei costi totali) riducendo i margini di profitto. Questa compensazione richiede una compressione temporanea dei margini di profitto e questo è più probabile che si verifichi quando la domanda è debole e i margini sono alti. Questo è attualmente il caso dell’area dell’euro”.

Panetta scorda di dire che servirebbe anche un po’ di intelligenza strategica e non solo di cieca fame di profitti per fare questo. Il suo non è un discorso anticapitalistico, è anzi il consiglio consapevole di chi sa che per mantenere guadagni e controllo del mercato del lavoro, bisogna sapersi muovere flessibilmente con la congiuntura economica.

Questa capacità strategica non è però il punto forte delle classi dirigenti europee, che hanno invece deciso di tornare alle vecchie ricette dell’austerità, ad esempio, e persino di peggiorarle. È ancora la BCE a confermare che il nuovo Patto di Stabilità si tradurrà in misure di consolidamento di bilancio con effetti recessivi valutati tra lo 0,2 e lo 0,4% del PIL dell’Eurozona ogni anno.

I vertici della UE vogliono sempre “la botte piena e la moglie ubriaca”. Vogliono l’austerità ma vogliono anche la crescita economica, vogliono politiche monetarie restrittive ma vogliono anche l’aumento degli investimenti.

Questo gioco sulla pelle delle classi popolari non potrà durare ancora a lungo...

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Crisi dell'egemonia Occidentale in Africa

È di pochissimi giorni fa la notizia che il Ciad, per voce del ministro delle forze armate Idriss Amine Ahmed, ha invitato il contingente militare degli Stati Uniti a fare le valigie e a lasciare il paese. Viceversa, i soldati francesi non hanno ricevuto lo stesso invito (almeno finora), anche se non è da escludere che il benservito non possa presto giungere anche a loro, dal momento che il presidente, Mahamat Idriss Deby, ha già stretto accordi con la Russia in direzione di un rafforzamento della cooperazione tra i due paesi.

Non è cosa da poco un simile ‘schiaffo’ dato agli USA da parte di un paese geograficamente centrale nell’Africa Subsahariana, anche perché non si tratta certo di un fulmine a ciel sereno.

Negli ultimi 2-3 anni, e soprattutto da un anno a questa parte, sono in aumento i paesi dell’Africa Centrale e Occidentale i quali stanno portando avanti una politica di allontanamento dai paesi europei e dagli USA, segnatamente dalla Francia, la quale, come è noto, ha mantenuto una certa egemonia nell’area fino ai giorni nostri.

Il caso più clamoroso, o quantomeno quello che ha avuto maggior risalto mediatico e che ha fatto più discutere, è stato quello del Niger. L’anno scorso l’ex premier filoccidentale Mohamed Bazoum, è stato esautorato e al suo posto è subentrata una nuova giunta, la CNSP (Consiglio Nazionale per la Salvaguardia della Patria) con a capo il neo-presidente Abdourahamane Tchiani, un generale dell’esercito. Il nuovo governo, con una decisione che ha fatto notizia, ha letteralmente espulso il contingente militare francese dal paese, suscitando l’ovvia contrarietà di Parigi, ma anche degli altri paesi della regione legati a questa. In compenso, però, ha incassato l’appoggio di altri due paesi importanti nell’area: il Mali e il Burkina Faso, i quali avevano già effettuato un passaggio simile negli anni scorsi.

I tre paesi ‘ribelli’ si sono messi in contrasto con l’Ecowas – un organismo che raccoglie i paesi dell’Africa Occidentale e che in sostanza è uno strumento dell’imperialismo euro-americano, soprattutto francese – il quale ha minacciato di adottare misure di ritorsione nei loro confronti. Per tutta risposta il Mali, il Burkina Faso e adesso anche il Niger sono usciti da quell’organismo.

Come se non bastasse, l’egemonia politico-economica e militare francese e occidentale nella zona sta subendo un altro colpo, con la recentissima elezione nel Senegal di Bassirou Diomaye Faye, nonostante i tentativi di scongiurare tale esito da parte dell’ex premier, con l’arresto di Faye (poi messo di nuovo in libertà dal tribunale) e il rinvio delle elezioni.

Il nuovo presidente del Senegal ha già espresso in modo chiaro le sue intenzioni, che sono quelle di sganciarsi dal dominio neo (post) coloniale dei paesi occidentali e di portare avanti riforme nel senso di una redistribuzione della ricchezza a favore del popolo.

Al di là dell’importanza geo-strategica, i paesi citati (quindi Mali, Burkina Faso, Niger, Senegal e Ciad, ai quali si potrebbe aggiungere anche il Sudan) hanno un peso significativo anche a livello economico, in quanto abbondanti di petrolio, gas e anche uranio.

Ma ciò che preoccupa maggiormente la Francia e gli altri paesi occidentali è anche il fattore – esempio che i paesi ‘ribelli’ possono suscitare, incoraggiando anche altri paesi dell’area ad adottare misure simili, spinti certo anche da pressioni interne.

A livello più generale una cosa appare evidente, ossia l’indebolimento dell’egemonia euro – americana nel Continente Africano e il progressivo rafforzamento di quella della Russia, della Cina e in generale dei paesi del Brics+.

Le dinamiche in corso sopra descritte infatti sarebbero state impensabili se non ci fosse stato contemporaneamente un notevole incremento dei rapporti economici, politici – e in alcuni casi perfino di collaborazione militare – da parte questi, ma anche di altri paesi africani.

Infine le due guerre in corso stanno dando un ulteriore impulso in tal senso: quella in Ucraina, in quanto Mosca è chiaramente in procinto di vincere il conflitto, nonostante abbia contro tutti i paesi occidentali, ossia quelle che fino a poco fa erano considerate le più grandi potenze economico-militari. Dimostrando così a tutto il mondo che queste non sono invincibili.

Quella nella Striscia di Gaza, in quanto gli stessi paesi – USA in testa – continuano a sostenere, in parte ad aiutare o quantomeno a non condannare Israele, nonostante stia commettendo un vero e proprio genocidio nei confronti del popolo palestinese, il che incide non poco sul prestigio e sulla credibilità dell’Occidente.

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L’Italia ha perduto la sua “innocenza”. Contestato a Tunisi il ministro Sangiuliano e lo stand italiano

A Tunisi un gruppo di attivisti filopalestinesi ha fatto irruzione nello stand dell’Italia alla Fiera del Libro di Tunisi, nel momento in cui era presente il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, intonando slogan e sventolando bandiere palestinesi, inducendo il ministro ad allontanarsi.

Gli attivisti hanno fatto irruzione nello stand, sventolando le bandiere della Palestina e della Tunisia e intonando slogan contro l’Italia. Tra gli slogan urlati c’erano frasi come “Italia fascista, Italia sionista”. Questo incidente ha indotto il ministro Sangiuliano a lasciare lo stand.

Per molti anni l’Italia e i suoi governi hanno vissuto di rendita dei buoni rapporti passati con il mondo arabo. Ma le scelte di politica estera degli ultimi venti anni hanno via via collocato progressivamente l’Italia nella pattuglia delle potenze occidentali sempre più invise al resto del mondo. Ultima in ordine di tempo la scelta di essere complici di Israele contro le istanze del popolo palestinese e l’aver inviato una flotta militare nel Mar Rosso.

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28/04/2024

Rebecca - La prima moglie (1940) di Alfred Hitchcock - Mini

Ci lascia Laurent Cantet, il Ken Loach francese

Ci ha prematuramente lasciati il 25 aprile scorso, dopo una lunga malattia, una delle voci più interessanti della cinematografia francese: Lauren Cantet.

Considerato il Ken Loach d’oltralpe, era autore di un cinema di evidente ascendenza politica, permeato di conflitti sociali, etnici, di classe.

“Risorse umane” e “A tempo pieno” (due pellicole che abbiamo proiettato al Civico 7 Liberato, durante il nostro cineforum dedicato ai temi del lavoro) e ancora “La Classe”, “Verso il sud”, “Ragazze cattive”, “Ritorno a L’Avana”, resteranno punti di riferimento imprescindibili per quella cinematografia europea d’impegno sempre più rara, ma che sa farsi riflesso analitico ed emotivo della realtà che ci circonda.

Con le sue dinamiche sociali, economiche, relazionali, sessuali.

Capace di scavare a fondo i meccanismi e i rapporti di produzione, razziali, di classe e di genere, facendone emergere le logiche stritolanti e psicologicamente più aggressive e asfissianti, Cantet ha espresso nei suoi film una critica radicale del sistema capitalista a trazione neoliberista la cui pervasività ha mutato geneticamente il panorama umano e la quotidianità emotiva che lo attraversa, fin dentro i più intimi risvolti pulsionali e desideranti.

Connotato da uno sguardo distaccato e disilluso, acuto e meticoloso nell’indagine Cantet non indulgeva in facili e vacue speranze, pur lasciando socchiusa la porta di un cambiamento di rotta individuale e sociale.

Una voce importante quella di Laurent che certo ci mancherà.

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Israele colpisce volontariamente chi porta aiuti a Gaza

Il primo aprile il raid aereo israeliano che ha portato alla morte di 7 operatori della ONG statunitense World Central Kitchen ha scosso momentaneamente l’opinione pubblica di tutto il mondo. Dopo la «strage degli affamati» di un mese prima, tale evento ha spinto ulteriormente la solidarietà internazionale con la resistenza palestinese.

Non che l’indignazione non sia passata nei media nostrani solo per il fatto che a morire questa volta non erano palestinesi, già massacrati giorno per giorno, ma bianchi occidentali. E tuttavia anche eventi del genere hanno grande importanza nello svegliare le coscienze, e certamente la legittimità delle operazioni sioniste è diminuita.

Il New York Times ha pubblicato ieri un video di quasi dieci minuti nella rubrica chiamata Visual Investigations che potrebbe, e aggiungiamo noi che dovrebbe far crollare definitivamente il sostegno a Tel Aviv. Israele, contro ogni norma internazionale, sta deliberatamente colpendo le organizzazioni che portano aiuti umanitari ai palestinesi.

È questo che si può concludere dall’esame che il giornale statunitense ha fatto di varie prove visive e comunicazioni interne tra le forze armate di Israele e sei organizzazioni umanitarie. Si tratta della World Central Kitchen, di Medici Senza Frontiere Francia, Enabel, ANERA, MAP e IRC.

I vertici sionisti hanno definito il caso del primo aprile come un errore che può succedere quando si combatte un nemico che si nasconde tra i civili, e questa scusante viene usata spesso. Ma l’ONU conta oltre 200 vittime tra gli operatori umanitari nell’arco di pochi mesi, mostrando un vero e proprio bersagliamento di queste persone.

Il NYT racconta la storia di Mousa Shawa della statunitense ANERA, che è stato ucciso in un raid alcune settimane fa. La ONG ha più volte condiviso coordinate e foto del luogo da dove Mousa portava avanti la sua attività, ma a quattro giorni dall’ultima comunicazione l’edificio è stato colpito.

Mousa non si è ritrovato per errore in mezzo alla furia dei sionisti, ma era l’obiettivo dell’attacco: la sua casa, in un’area densamente costruita, è stata l’unica a riportare danni. Avvalendosi dell’analisi di esperti di munizioni e armi, i giornalisti statunitensi hanno concluso che l’edificio dove si trovava Mousa è stato preso di mira da un bombardamento aereo.

Nel video vengono mostrati i resti di due rifugi utilizzati da Medici Senza Frontiere, debitamente comunicati alle forze israeliane e colpiti senza tante spiegazioni. Al solito, e in realtà solo nel secondo caso, si sono promesse indagini, ma sappiamo che non approderanno a nulla.

Allo stesso modo, un gruppo di edifici era stato individuato come possibile sede per attivisti dell’International Rescue Committee e di Medical Aid for Pelstinians. Come per Medici Senza Frontiere, i loghi delle organizzazioni erano ben visibili e le coordinate erano state comunicate.

Nel caso di IRC e MAP vi sono addirittura messaggi con ufficiali israeliani in cui si richiede se la zona sia sicura. Alla risposta affermativa dell’ufficiale segue la richiesta di ricevere qualsiasi aggiornamento in merito.

Bisogna poi aggiungere che questo complesso aveva ricevuto la tutela anche attraverso alti canali diplomatici britannici, e si trovava nella zona che Tel Aviv stessa ha indicato come dedicata all’impegno umanitario. Tutto questo non è bastato a impedire il bombardamento.

Le indagini ONU hanno indicato in un MK83 l’ordigno usato, cioè un’arma di fabbricazione a stelle e strisce che pesa quasi mezza tonnellata. Di questa tragedia persino il ministro degli Esteri britannico si è infine trovato a dover chiedere spiegazioni ad Israele.

Con la solita protervia che abbiamo conosciuto anche nelle recenti piazze del 25 aprile, i vertici sionisti hanno fornito alle ONG ben sei possibili spiegazioni di quello che chiamano un incidente, alcune di esse contrastanti tra loro. Interpellate dal NYT, le forze armate hanno risposto che esse non hanno proprio colpito l’edificio il giorno in cui è stato fatto saltare in aria.

L’impunità di cui gode Israele, che stermina civili, colpisce ambasciate di paesi sovrani e opera contro il diritto e le organizzazioni internazionali è arrivata al suo apice. Questa inchiesta dimostra che Tel Aviv bersaglia chi porta gli aiuti umanitari a Gaza in maniera volontaria e consapevole.

Per quanto ancora l’Occidente sarà complice di tutto ciò? Il boicottaggio a Israele, la richiesta di porre fine all’occupazione, sono elementi che oggi sono imprescindibili nel dibattito pubblico, e dividono chi sta dalla parte della giustizia e chi dalla parte del genocidio dei palestinesi.

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Yemen - Colpite tre navi, una israeliana. Abbattuto un drone statunitense

Venerdi il gruppo yemenita Ansarallah ha attaccato una nave israeliana nel Golfo di Aden. Ad affermarlo è stato il portavoce dell’organizzazione, il generale di brigata Yahya Sare’e, citato dall’emittente “Al Masirah”, spiegando che è stata presa di mira “la nave israeliana Msc Darwin con missili e droni”. “L’operazione ha raggiunto il suo obiettivo”, ha spiegato Sare’e, aggiungendo che i miliziani del gruppo hanno anche lanciato “un certo numero di missili balistici e missili da crociera contro obiettivi israeliani a Eilat”, nell’area meridionale dello Stato ebraico.

La forza missilistica ha sparato una serie di missili balistici e alati contro diversi obiettivi legati al nemico israeliano nell’area di Umm al-Rashrash, a sud della Palestina occupata.

Da parte israeliana, non c’è stato alcun commento ufficiale sugli attacchi.

Anche altre due navi, la MV Maisha e la MV Andromeda Star sono state bersaglio di un attacco da parte dei miliziani di Ansarallah nel Mar Rosso, a sud-ovest del porto yemenita di Mokha. La MV Andromeda Star, petroliera britannica battente bandiera di Panama, è stata danneggiata lievemente da due missili ma sta proseguendo il suo viaggio

L’Agenzia di sicurezza per le operazioni commerciali marittime del Regno Unito (Ukmto) ha scritto che si è verificata un’esplosione in prossimità della nave che è stata avvertita dall’equipaggio a bordo, poi il secondo attacco con presumibilmente con due missili ha provocato danni. L’attacco è stato confermato anche dal Comando Centrale degli Stati Uniti (Centcom).

Il portavoce degli Ansarallah, Ameen Hayyan ha poi rivendicato l’attacco in un post su X e ha riportato che i ribelli dello Yemen hanno anche abbattuto venerdì un drone MQ9 degli Stati Uniti nello spazio aereo del governatorato di Sa’da, nel nord dello Yemen, al confine con l’Arabia Saudita. La notizia non è stata confermata dalle autorità di Washington.

Gli Houthi, noti anche con il nome Ansar Allah, hanno lanciato queste operazioni “in solidarietà con il popolo di Gaza” e hanno ripetutamente dichiarato che gli attacchi non finiranno fino a che Israele non cesserà le operazioni militari contro la popolazione palestinese nella Striscia.

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25 aprile/4. Mussolini voleva scappare? Chiediamolo ai nazisti...

di Massimo Zucchetti

Dopo il 25 aprile, tutto crollò, per Mussolini. Il duce dimostrò, in quei giorni che gli restavano, molta confusione e indecisione, ma con il parametro costante della fuga e del tradimento, anche dei pochi che gli rimasero fedeli. I peggiori giorni della sua vita.

Spiace dover disilludere i nostalgici, ma la ricerca storica recente ha fugato i dubbi: anche con l’aiuto delle interviste ai nazisti SS della sua scorta. Molta letteratura, revisionista, ma anche non esplicitamente tale, nega l’intenzione di Mussolini di fuggire in Svizzera, basandosi più che altro sulle dichiarazioni pubbliche che l’ex-duce stesso fece nei mesi e nelle settimane precedenti.

Lo stupore ci prende ogni volta, quando viene dato credito, a volte anche da storici seri, alle dichiarazioni di Mussolini, sia pubbliche che private: era un uomo che si serviva della menzogna in maniera, per così dire, abile ed abituale [1, 2, 3].

Prima fuga: da Milano, la sera del 25 aprile

Mussolini, dopo la fallita trattativa in Arcivescovado, rientra in Prefettura e fugge da Milano, dove inizia l’insurrezione. L’ordine di partenza, impartito da Mussolini col motto “Precampo a Como!”, lascia ancora intendere ad Alessandro Pavolini, segretario del PFR e grande sostenitore del “Ridotto in Valtellina” (un progetto per trasferire quel che resta della RSI in montagna), che Mussolini ed i suoi lo attenderanno a Como per poi proseguire per Lecco e la Valtellina.

Ma prestiamo attenzione ai particolari. Appena prima di fuggire, Mussolini fa diramare un comunicato, fra gli ultimi della RSI, dove chiama tutti i fascisti della provincia o comunque nelle vicinanze a convergere su Milano, in zona Prefettura e Piazza San Sepolcro, per una estrema resistenza: un’ultima bordata di retorica basata sul “ritorno alle origini”, poiché in Piazza San Sepolcro a Milano vennero fondati nel 1919 i fasci di combattimento.

Il comunicato viene trasmesso per radio, ma anche attraverso altoparlanti a Milano: lo testimonia Sandro Pertini in una lunga intervista a Enzo Biagi.(1)

Da parte di Mussolini, questo è quindi un vero e proprio tradimento dei suoi ultimi seguaci, utilizzandoli per generare confusione ed approfittarne per svignarsela: parte per Como con i gerarchi e con la “scorta” SS del tenente Fritz Birzer. Gli ultimi fascisti milanesi lo implorano di non abbandonarli e di resistere con loro. Invano, naturalmente.

Figura 1. Mussolini esce dalla Prefettura il 25/4 sera: davanti, un motociclista tedesco e poi, con le insegne delle SS, l’auto dove probabilmente siede il tenente Birzer. Il duce sta su un’Alfa Romeo decappottabile ed ha come compagno, alla sua destra, Franco Colombo, Comandante della “Muti” (da: Pierfranco Mastalli, ‘autore del volume “L’arresto di Mussolini a Dongo e la resa della Colonna Tedesca a Morbegno e a Colico (27 e 28 aprile 1945)” [4].


Figura 2. Percorso della fuga di Mussolini (in rosso porpora, continuo). In giallo, il percorso più razionale (suggerito il 25 aprile da Pavolini e Fritz Birzer) per raggiungere la Valtellina: se non si pensava a fuggire in Svizzera, il “Precampo” lo si faceva la sera del 25 a Lecco, non a Como. In rosso tratteggiato le progettate ed abortite fughe verso la Svizzera, il 25 aprile sera da Como, e il 26 aprile, da Menaggio e Grandola [3].


Seconda fuga: da Como, la mattina presto del 26 aprile

Nelle giornate del 25 e 26 aprile, a Como, si concentrano numerosi gruppi di fascisti, provenienti dalle zone circostanti: Giorgio Bocca [2] parla della presenza di 6.000-7.000 uomini in totale a Como, ampiamente sufficienti – nonostante la demoralizzazione e la scarsa qualità – per asserragliarsi a difesa di possibili attacchi partigiani e attendere l’arrivo degli Alleati.

Invece, Mussolini scarta innanzitutto definitivamente l’opzione Valtellina: non ha nessuna intenzione di porsi alla testa dei suoi ultimi seguaci, ritenendo – forse giustamente – che quell’atto fosse soltanto il preludio alla sua cattura, evento al quale non era del tutto rassegnato.

Appare poi evidente che Mussolini – percorrendo la riva occidentale del lago di Como e non quella orientale, come aveva suggerito Pavolini la sera del 25 aprile – non si precluse la possibilità di fuga oltreconfine.

Como è molto vicina alla Svizzera, ma è anche un valico troppo noto, ed era andato riempiendosi di fascisti che si aspettavano di seguire il “capo”: ma un esodo di massa verso la Svizzera era improponibile, il valico di Chiasso era già stato chiuso dalle autorità svizzere; da qui, la decisione per la fuga antelucana di Mussolini verso Menaggio, con pochi seguaci.

Mussolini, oltre che tutti gli irriducibili di Como, cercò di ingannare anche Fritz Birzer e la scorta tedesca, che, scoperti i preparativi per la fuga da Como nelle ore antelucane del 26, volevano impedirglielo con i mitra puntati.

Assai significative sono le dichiarazioni dello stesso capo della sua scorta tedesca, Fritz Birzer, in una intervista rilasciata quasi quarant’anni dopo i fatti (Figura 3) e della quale riportiamo alcuni stralci, anche in seguito utilissimi(2):
Quando durante la sosta alla prefettura di Como, riuscii a mettermi in contatto telefonico con un aiutante dell’ambasciatore Rahn che si trovava al consolato tedesco di Milano e gli chiesi istruzioni, temendo un tentativo di fuga di Mussolini in Svizzera, la risposta che ricevetti fu: “Qui non c’è più nessuno, non so cosa dirle. Agisca come meglio crede e se Karl Heinz tenta di fuggire, lo uccida”.

Karl Heinz era il nome in “codice” usato da noi tedeschi per riferirci a Mussolini. Dopo la telefonata al consolato mi recai dal comandante del presidio militare tedesco di Como e gli dissi: “Signor Ortskommandant, sono qui col duce e temo che voglia tagliare la corda. Che cosa mi consiglia di fare?”

Mi rispose: “Io ho a disposizione trenta uomini, e lei quanti ne ha?” “Una trentina anch’io”, precisai. “Bene – osservò il capitano – allora insieme abbiamo sessanta uomini e siamo abbastanza forti per trattenerlo. Lo faccia prigioniero!”
Mussolini, davanti ai mitra puntati dei tedeschi, convinse ancora Birzer a far abbassare i mitra ai suoi ed a seguirlo verso Menaggio, teoricamente in direzione Merano e poi Brennero: in realtà, come vedremo, con un ultimo guizzo in direzione Grandola, Albogasio e la Svizzera.

Non furono da meno i gerarchi fascisti – presenti in folto numero a Como quella mattina del 26; nessuno ebbe il coraggio di restare a Como per organizzare la difesa e affrontare lo scontro coi partigiani: terrorizzati, tutti i pesci grossi seguirono Mussolini in fuga, mentre gli altri scapparono disordinatamente per proprio conto.

Terza fuga: da Menaggio verso la Svizzera, il 26 aprile 1945 pomeriggio

Mussolini e i gerarchi giungono a Menaggio verso le sei del mattino, senza incontrare ostacoli. Successivamente, dopo un breve riposo, in tarda mattinata, proseguono da Menaggio, ma non lungo il lago: imboccano una ripida strada che ascende verso Grandola e il confine svizzero lungo una valle laterale, abbandonando quindi la strada lungolago.

Grandola dista appena quindici chilometri di strada carrozzabile lungo la sponda nord del lago di Lugano; anche contando le cattive condizioni delle strade e gli ostacoli di allora, Mussolini era a venti minuti dalla salvezza in Svizzera.

Pare che Mussolini avesse avuto notizia che, nella caserma della 53a Compagnia della Milizia Confinaria di Grandola, si concentrasse ancora un numeroso contingente di militi fascisti, che avrebbero potuto liberarlo dalla sua prigionia di fatto.

Mussolini, in quella sua colonna in fuga, aveva come unica forza armata la scorta tedesca di Birzer, che assolutamente non voleva e poteva permettergli di fuggire in Svizzera. Forse il duce avrebbe potuto affrancarsi dal suo ruolo di prigioniero de facto dei tedeschi, forte di una ritrovata milizia di seguaci fascisti. Forse poteva far scontrare e uccidersi fra loro i miliziani fascisti e gli SS tedeschi, mentre lui, “Benito il coraggioso”, incurante delle perdite (altrui) scappava verso la Svizzera.

Immaginiamo la delusione dell’uomo, quando, giunto a Grandola, trovò la caserma praticamente deserta, abbandonata in gran fretta dai miliziani fascisti nei giorni precedenti.

Mussolini si trattenne a pranzo a Grandola, ma sempre prigioniero de facto delle SS di Birzer. Due gerarchi, Buffarini Guidi e Tarchi, partirono in auto costeggiando la sponda nord del lago di Lugano, direzione Albogasio e Svizzera.

Buffarini Guidi era convinto che, se anche le autorità svizzere non avessero fornito loro asilo, i due avrebbero sfondato le barriere con la macchina e “una volta di là, ci tengono”: non aveva previsto di non riuscire ad arrivarci, al confine.

Figura 3. L’intervista del 1981 a Fritz Birzer, pubblicata in due puntate (1.3.81 e 3.3.81) sul quotidiano veronese “L’Arena”.


Meta della fuga era la tranquilla cittadina di confine di Albogasio-Oria, sul Lago di Lugano, un valico con la Svizzera che si pensava fosse poco sorvegliato, a due passi da Lugano: il percorso, da farsi interamente in automobile, prevedeva di percorrere l’attuale Strada Statale 340 lungo il tratto della sponda nord del Lago di Lugano in territorio italiano, passando da Porlezza, Cima e appunto Albogasio.

Ma a metà strada fra Grandola e il confine, a Porlezza, i due gerarchi fascisti mandati in avanscoperta, nonostante i documenti falsi e la loro non eccessiva notorietà, oltretutto in piccolo gruppo, vengono comunque riconosciuti ed arrestati dai finanzieri che – anche qui come a Milano e a Dongo – collaboravano coi partigiani.

Mentre due automobili con i gerarchi in avanscoperta sono state bloccate, una terza è riuscita a tornare indietro e ad avvertire il duce. Mussolini capisce che fuggire in Svizzera non è più possibile, e torna a Menaggio, sperando di mescolarsi ai tedeschi in fuga verso la Germania.

Ancora Birzer dice:
Fu a Como che incominciai a capirlo. Per recarsi in Valtellina, da Milano, non si passa da Como, e tanto meno si sceglie la via occidentale del lago.

Ma i miei dubbi aumentarono quando Mussolini tentò di partire da Como a mia insaputa, alle 4.40 del 26 aprile. Perché voleva andarsene senza la sua scorta tedesca, da lui tante volte elogiata? E tutti sanno che glielo impedii con i mitra dei miei uomini puntati.

A Grandola poi i miei dubbi si fecero più consistenti. Perché Mussolini era salito in quella località, a pochi chilometri dal confine svizzero, abbandonando la litoranea Menaggio-Dongo? E perché aveva mandato Buffarini-Guidi e il ministro Tarchi al confine?

Soltanto al ritorno da Grandola verso Menaggio, nella sera del 26, Mussolini mi disse: “Birzer, dica ai suoi uomini di prepararsi, partiamo subito per Merano”.
Nella scorta di Mussolini – dal 26 aprile – era presente anche il Capitano Otto Kisnat (Kriminal Inspektor dei servizi segreti di sicurezza delle SS). Kisnat in una sua intervista del 1968 al giornale “Epoca”(3) (Fig. 4), riferisce un particolare riguardante l’arresto dei gerarchi Buffarini Guidi e Tarchi; Kisnat asserisce che Mussolini gli disse, a Grandola:
«Li ho mandati io a trattare con le autorità di confine la possibilità di passare in Svizzera col mio seguito... ma ora ciò non è più possibile. Partiremo domani, presto, per Merano».
Da queste testimonianze, e da un semplice sguardo ad una cartina geografica, si può quindi capire il motivo della fuga di Mussolini.

Figura 4: Intervista a Otto Kisnat del 1968. Epoca, 18 e 25 agosto, 1968, n° 934-935


Figura 5. Il progettato percorso della fuga in Svizzera di Mussolini, 26 aprile 1945, partendo da Grandola, a soli 15 km dal confine. Porlezza, dove vennero arrestati Buffarini Guidi e Tarchi, era circa a metà strada lungo questo tragitto.


Quarta fuga: da Menaggio verso la Germania, il 27 aprile mattina

Sopraggiunge a Menaggio, in serata del 26 aprile, un convoglio militare tedesco – della contraerea “FlaK” – in ritirata verso Merano e la Germania, che si ferma appunto nel paese per la notte: 38 autocarri e oltre 200 soldati ben armati. Sembra una fortunata coincidenza, anche se sono molte formazioni militari tedesche, in quelle convulse giornate, che si ritirano verso il Brennero.

Fritz Birzer, il tenente tedesco che scorta Mussolini, con il compito di condurlo in Germania, caldeggia naturalmente l’idea di aggregarsi tutti alla ben munita colonna dei camerati tedeschi, e la mattina seguente proseguire con loro per Merano e poi per l’agognato Brennero.

Mussolini e i suoi gerarchi (con le famiglie, quasi cento persone), partono verso le 6:00 del mattino del 27, aggregati alla colonna della FlaK; lunga circa un chilometro, alle 07:15, viene bloccata appena fuori dall’abitato di Musso, 12 km più a nord, da un posto di blocco delle Brigate Garibaldi: si tratta di alcuni tronchi d’albero messi di traverso in un punto molto stretto della via lungolago, presidiati da pochi uomini della 52ª Brigata Garibaldi “Luigi Clerici” [5-6], comandata da Pier Luigi Bellini delle Stelle, “Pedro”.

Dopo una breve sparatoria, i partigiani (inizialmente, non più di una dozzina, armati di pistole e mitra) intimano la resa alla colonna di oltre 200 militi. Solo fino ad un mese prima, sarebbe stata una carneficina per il gruppetto partigiano, ma ora si era a fine aprile: iniziano le lunghe trattative, che si protrarranno fino al primo pomeriggio.

Il Brigadiere della Guardia di Finanza Giorgio Buffelli, che con gli altri suoi commilitoni collaborò quel giorno a Dongo con i partigiani della 52a per mantenere l’ordine, scrisse nella sua relazione sui fatti di Musso [3].
“Alle ore 13 circa fecero ritorno i parlamentari e il comandante Pedro ci comunicò che il comando di Chiavenna aveva deciso di lasciar passare i tedeschi, armati, senza fare uso delle armi; nessun italiano però doveva passare con la colonna stessa e per cui noi dovevamo visitare tutte le macchine per tale scopo. Per cui fu deciso di far proseguire la colonna fino a Dongo dove ebbe luogo la visita a tutti gli automezzi”
Figura 6. Musso (CO), punto esatto dove la colonna tedesca con Mussolini e i gerarchi venne bloccata dai partigiani della 52ª Brigata Garibaldi, la mattina presto del 27 aprile.


L’esito della trattativa, con l’accordo con i tedeschi, non deve apparire strano: il comandante Pedro aveva già avuto informazione della possibile presenza di Mussolini e degli alti gerarchi fascisti nella colonna: era importantissimo poterli catturare.

Quinta fuga: travestimento finale!

A quel punto, ultimo colpo di teatro: Mussolini, su consiglio di Birzer e con il permesso del Comandante della colonna tedesca, indossa un cappotto e un elmetto da sottufficiale tedesco, sale sul camion numero 34 (targato WH 529507), occultandosi in fondo al pianale, vicino alla cabina di guida, ricoperto da una coperta militare: finge di dormire, come fosse ubriaco.

A nessun altro italiano sarà concesso di tentare di imitare il comportamento di Mussolini nel convoglio, nascondendosi come lui. La letteratura revisionista ha tentato di negare il travestimento del duce, sempre per malintese questioni di “onore”. La già citata intervista di Fritz Birzer chiarisce anche questo punto:
Su questo episodio nessuno può minimamente smentirmi, perché fui io stesso a ordinare a un sergente della FlaK di consegnare a Mussolini cappotto ed elmetto. Lo feci perché ritenevo che soltanto in quel modo, confondendosi con i nostri soldati, sarebbe forse riuscito a sfuggire ai partigiani.

Il capitano Kisnat era presente alla scena, ma non disse nulla, né per opporsi alla mia iniziativa né per approvarla. Claretta Petacci invece supplicò il duce di ascoltare il mio consiglio. Così Mussolini, anche se malvolentieri, indossò il cappotto della FlaK e si mise l’elmo d’acciaio sotto il braccio. Salì poi sul camion dalla parte posteriore per non essere visto dai partigiani che si trovavano davanti alla nostra colonna.
Durante l’ispezione della colonna tedesca in piazza a Dongo, – condotta dai partigiani sotto la direzione di un maresciallo della Finanza, Francesco Di Paola – Mussolini, nascosto sotto una panca del camion n. 34, viene riconosciuto dal partigiano Giuseppe Negri: viene subito avvertito il più alto in grado nelle immediate vicinanze, cioè il vicecommissario politico Urbano Lazzaro “Bill”.

Bill sale sul camion, riconosce Mussolini, lo invita ad alzarsi [6]: “Camerata!”, “Eccellenza!”, dice a voce alta Bill, ma Mussolini fa finta di nulla e non si muove. Bill allora dice a voce ancora più alta “Cavaliere Benito Mussolini!”. Al che “il duce” ha un soprassalto e lentamente si alza in piedi: Bill lo disarma del mitra e di una pistola, lo arresta e lo porta nella sede comunale.

Figura 7. Eccellente interpretazione di Rod Steiger nel film di Carlo Lizzani del 1974: “Mussolini ultimo atto” (con Lisa Gastoni e Franco Nero). Qui una immagine del film, il momento dell’arresto a Dongo.


Riferimenti

[1] Giorgio Bocca, Storia dell’Italia partigiana, Laterza 1966.

[2] Giorgio Bocca, La Repubblica di Mussolini, Mondadori, 1995.

[3] Massimo Zucchetti, Mussolini ultimi giorni, Smashwords 2018, scaricabile gratuitamente qui.

[4] Pierfranco Mastalli, L’arresto di Mussolini a Dongo e la resa della Colonna Tedesca a Morbegno e a Colico (27 e 28 aprile 1945)”, Rivista di Storia e Cultura del Territorio “Archivi di Lecco e della Provincia” n 2 (monografico), Ed. Cattaneo, aprile/giugno 2011.

[5] Pier Luigi Bellini delle Stelle, Urbano Lazzaro, Dongo ultima azione, Mondadori, Milano, 1962

[6] Urbano Lazzaro, Il compagno Bill: diario dell’uomo che catturò Mussolini, SEI, Torino, 1989

Note

1) Enzo Biagi, Pertini ricorda l’incontro con Mussolini, 25 aprile 1945. Dal minuto 6:40.

2) Jean Pierre Jouvet, Da Como a Dongo. Verità sull’arresto di Mussolini. Intervista con Fritz Birzer, Il Comandante della scorta tedesca, “L’Arena” di Verona, 1.3.81 e 3.3.81.

3) Giuseppe Grazzini, “Il Tenente (sic) Kisnat sono io”, Epoca, 18 e 25 agosto, 1968, n° 934-935.

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Non date cibo ai cani da guardia di Marco Ferri

In Italia, da tempo, il “watchdog journalism” si è tradotto in cane da guardia del potere costituito, una prassi che ormai pervade la Rai nell’era di TeleMeloni, calco delle reti berlusconiane.

Entrambi i network ormai sono diventati il circolo ricreativo di redattori dei giornali di destra, di proprietà di Angelucci, ovviamente finanziati col denaro pubblico.

La loro missione è spostare il dibattito dalle cause agli effetti, e da questi alle conseguenze.

Decontestualizzare gli episodi dal quadro generale per piegarli alle necessità politiche contingenti è sempre stato il sestante della propaganda della destra.

Un maledetto trucco col quale si sono giustificate le nefandezze della storia e dell’attualità politica: dal fascismo al colonialismo, dal revisionismo storico all’imperialismo, dallo sfruttamento alla repressione, dal razzismo al sessismo.

Il discorso pubblico viene forzato, eterodiretto e gestito dall’alto di specifici interessi lobbistici.

“Non è più il capitalismo, ma qualcosa di peggio – dice McKanzie Wark – La classe dominante del nostro tempo non governa più grazie al possesso dei mezzi di produzione, come facevano i capitalisti. Né attraverso il possesso della terra, come facevano i proprietari terrieri. La classe dominante del nostro tempo possiede e controlla l’informazione”. (“Il capitalismo è morto, il peggio deve ancora venire”, Mackenzie Wark, Nero 2021).

Questo spiega perché la politica oggi si fa sui social e sui mass media, invece che nelle istituzioni democratiche e nella realtà sociale.

È, dunque, una forte tentazione quella di ribattere colpo su colpo ai latrati di quella muta di giornalisti cani che fanno la guardia alle nefandezze del governo, della Ue, della Nato, di Israele.

Ma in questo groviglio di personalismo, narcisismo e servilismo, il dibattito è sceso a un livello talmente basso da rendere inutile ogni possibilità di dialogo.

Anche perché il metodo si è specializzato, ha mutuato dai social il famoso paradigma del “bene o male purché se ne parli”, metodo che consiste nell’ingaggiare la polemica, alimentarla con la contrapposizione in modo da tenere impegnata l’attenzione il più a lungo possibile sulla polemica stessa, invece che sulla realtà dei fatti.

I cani da guardia del potere sono affamati di polemica, che è la chiave del successo del talk show: odio e audience.

D’altronde, è lo stesso livello che esprime il committente, vale a dire la macchina propagandistica del governo. Livello ormai assunto come linea di condotta anche dall’opposizione parlamentare, nonché dai rappresentanti delle cosiddette parti sociali.

Tuttavia, ci sono urgenze politiche che non possono aspettare, segnali economici che vanno compresi, ricchezze sociali che vanno raccolte. I partiti hanno chiuso le sezioni, i loro dirigenti vanno in tv.

Se il sistema politico italiano avesse avuto in sé i tanto decantati anticorpi, gli eredi del Msi non sarebbero andati al governo, a braccetto con i reduci del berlusconismo e del leghismo.

Fuori dai polveroni, la situazione sociale, la condizione materiale, il lavoro povero, i livelli di strapotere corporativo, la neutralizzazione dei diritti per liquidare gli ultimi residui di stato sociale, devono mantenere saldo il loro posto in cima alla nostra agenda.

Non solo perché su questi terreni la propaganda del neo-regime è flaccida, gli specchi sono difficili da essere arrampicati, le bugie vengono presto a galla.

Soprattutto, perché sono essenziali a guardare avanti, a puntare l’attenzione sugli aspetti critici di un sistema che sta sbandando nel fango reazionario, diventando ogni giorno più ferocemente classista, corporativo, intollerante, bellicista.

“Meglio i tagli ai servizi pubblici che la vittoria di Putin”, si è sentito dire a Londra. “L’Europa deve diventare una potenza militare”, hanno fatto eco da Parigi. Il neoliberismo in affanno, si alimenta di bellicismo.

Siamo a un salto di qualità dei fattori che spingono alla famigerata “distruzione creativa”. Sul piano internazionale, il capitalismo finanziario occidentale in declino vuole sottomettere l’economia reale in ascesa in oriente, manu militari.

Contemporaneamente, il bellicismo spinge all’aggressione delle regole politiche, economiche e sociali, attacca le stesse consuetudini democratiche.

Le guerre in atto sono dunque la stessa guerra, la guerra è una ed è la pericolosa variabile dipendente dall’accumulazione che pretende il superamento delle attuali norme con cui si governano le contraddizioni interne ai paesi occidentali.

Abbiamo visto i manganelli nelle città italiane ed europee, li abbiamo visti nelle Università degli USA. È ormai un dato di fatto: la lenta fine dello Stato sociale equivale alla progressiva fine dello Stato di diritto.

Se è vero che i pericoli sono forti, tanto da essere già nei fatti, è altrettanto vero che essi non si combattono ponendosi come obiettivo il ritorno alla dialettica precedente.

Non basta prendere atto che il vento è cambiato, che è un vento atlantico, un’aria cattiva di sfruttamento, di repressione, di menzogna, di rivalsa revisionista, di guerra per procura, di sterminio, di sovranismo. Non è solo vento, è già tempesta.

La realtà che abbiamo conosciuto finora è stata nei fatti già superata da una nuova forma di rigidità del comando sul piano interno, di egemonia imperialista e neocolonialista sul piano internazionale.

Prenderne atto significa non perdere tempo in piccole tattiche difensive, ma ripensare, riorganizzare, riprogettare una nuova visione delle contraddizioni e di conseguenza una nuova pratica politica.

Ci sono compiti molto più importanti che stare appresso ai ditirambi nei talk show televisivi.

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Rebuilding America: Civil War di Alex Garland

di Sandro Moiso

– Chi siete?
– Siamo americani.
– Sì, che tipo di americani? (Civil War, 2024)

È racchiuso tutto in questo brevissimo dialogo, contenuto in una delle scene più drammatiche del film scritto e diretto dal britannico Alex Garland (classe 1970), non soltanto il senso di una delle opere cinematografiche più intense degli ultimi tempi, ma anche delle divisioni che hanno fatto precipitare il cuore dell’impero occidentale nella guerra civile rappresentata sullo schermo e che, anche nella realtà, covano sotto le cenerei di quel che resta dell’American Dream.

Un film che già ha fatto discutere e che in un panorama politico e culturale asfittico come quello italiano, diviso tra l’intimismo cinematografico troppo spesso travestito da impegno civile e lo sciapo dibattito “antifascista” sulla censura all’ancor più insipido monologo di chi vorrebbe atteggiarsi a novello Matteotti, esplode letteralmente sullo schermo e nello sguardo dello spettatore. Con una forza e una virulenza ormai lontane da qualsiasi prodotto della nostra intellighenzia vacua e perbenista.

Alexander Medawar Garland, scrittore di romanzi e già sceneggiatore di 28 giorni dopo (28 Days Later, 2002) di Danny Boyle, non è la prima volta che porta sullo schermo le possibili conseguenze di una violenza a lungo repressa e negata che può, però, trasformarsi in autentica guerra interna alle società che si credono più evolute e liberali. Ma nell’opera che gli ha dato la celebrità come sceneggiatore il tema era ancora collegato ad un contesto di carattere grosso modo fantascientifico e anticipatorio; invece Civil War ci parla, sostanzialmente, del qui e adesso.

Il viaggio della veterana fotoreporter di guerra Lee, dei due giornalisti Joel e Sammy e dell’aspirante e acerba fotoreporter Jessie, non è un viaggio in un futuro distopico, ma fa precipitare lo spettatore nelle contraddizioni di una guerra civile latente già visibile oggi, per gli osservatori più attenti, nelle pieghe di una società sorta da una guerra civile mai del tutto risolta e che da anni torna a presentarsi come inevitabile necessità storica1.

Sono 758 miglia quelle che separano New York, punto di partenza dell’equipe di reporter, da Washington, punto di arrivo programmato per un’ultima e incerta intervista a un Presidente degli Stati Uniti ferocemente abbarbicato al potere, ma ormai circondato dalle truppe del Fronte Occidentale, dell’alleanza tra Texas e California (i due stati più grandi dell’Unione), che hanno mantenuto le strisce bianche e rosse della bandiera nazionale riducendo però le stelle a due, e dell’Alleanza della Florida.

New York è sconvolta dalle proteste per le miserabili condizioni di vita e dagli attentati suicidi dei più disperati delle tendopoli che si sono sviluppate nelle vie della ex-Grande Mela, sul modello di quelle attuali e reali di Los Angeles. Così il viaggio, per motivi di convenienza, punterà prima ad ovest per poi rientrare verso est all’altezza di Charlottesville in Virginia. Quella Virginia che, nel 1862, durante la guerra civile “storica” vide una importante vittoria delle armate secessioniste del Sud e che proprio da lì, sotto la guida del generale Lee, decisero di attraversare il Potomac per marciare su Washington.

È un paesaggio di autostrade piene di mezzi civili e militari distrutti e abbandonati, di centri commerciali diventati zona di guerra e di campi profughi organizzati negli stadi; di crudeltà di ogni genere compiute da una parte contro l’altra, anche se ben si recepisce che le parti in gioco siano ben più di due, animate spesso da motivazioni diverse eppure guidate dalla stessa ferocia. Di cadaveri abbandonati nei parcheggi dei mall oppure nelle fosse comuni e cosparsi di calce oppure di corpi seviziati, umiliati e offesi in ogni modo, appesi ai cavalcavia se non negli autolavaggi. Di uccisioni a sangue freddo dopo interrogatori sommari oppure senza neanche il bisogno di quelli: la Land of the Free viene fotografata, letteralmente, in tutta la sua possibile barbarie, mentre la musica dei Suicide, da Rocket USA a Dream Baby Dream, funge egregiamente da viatico per l’impresa2.

È come se la guerra e la violenza esportata per decenni dall’impero occidentale nel resto del mondo, spesso sotto le spoglie di colpi di stato e guerre civili, avesse deciso di rientrare nel grembo materno, per divorare il corpo della madre dall’interno. Eppure, anche se qui e là appaiono cecchini dalle unghie smaltate, le camicie hawaiane dei Boogaloo Boys o gli sguardi esaltati che ricordano gli assalitori di Capitol Hill, non sono le milizie locali o le armi “casalinghe” a determinare il gioco delle parti, ma forze armate ben addestrate al compito di uccidere e distruggere, dotate di un arsenale e un potenziale di fuoco che comprende armi pesanti, carri armati, elicotteri, blindati Humvee e di ogni altro genere.

L’esercito si è evidentemente disgregato come la Guardia Nazionale, ma la macchina bellica e i suoi armamenti sono rimasti ben oliati e funzionanti e così, mentre le ultime truppe lealiste difendono Washington e il presidente annuncia ripetutamente, come d’uopo anche in questi giorni a proposito di Ucraina e Medio Oriente, la prossima storica vittoria delle forze del bene, tutto viene distrutto oppure violato, insieme alle ultime difese, al Lincoln Memorial e alla stessa Casa Bianca.

La violenza dispiegata è ben più terribile di quella immaginata ai tempi dei film che prevedevano invasioni sovietiche e nord-coreane degli Stati Uniti, come Alba rossa (Red Dawn, 1984) di John Milius. Quarant’anni non sono trascorsi invano, né nella storia reale del declino dell’impero né, tanto meno, per l’immaginario cinematografico americano che spesso, anche là dove non osa parlare della possibile guerra civile che attende l’impero, non smorza certo i toni della critica al dominio imperiale sul resto del mondo, sia nelle serie televisive che, in maniera mediata dalla fantascienza epica, in produzioni come Dune I e II del canadese Denis Villeneuve.

Non ci dice il film a quale campo appartenga il presidente, se repubblicano o democratico, in fin dei conti non occorre, anche se certamente tanta critica ben pensante nostrana e tanto pubblico avrebbero preferito una situazione più definita, per poter almeno parteggiare per una delle due parti in causa. Ma ciò che realmente conta è che il dollaro americano ha perso il suo valore e che la vita può esser considerata normale soltanto una volta accettata la normalità della guerra.

La produzione anglo-americana è seria. Sa che una guerra civile di tali proporzioni non è il prodotto di una semplice e retorica battaglia tra democrazia e autoritarismo oppure riconducibile ad una “lotta di classe” ridotta a teatrino tra due facilmente riconoscibili e “pure” classi in lotta: borghesia e proletariato. Come si è già affermato in un testo di alcuni anni or sono, la categoria di guerra civile può infatti costituire:

un elemento più adeguato per l’interpretazione di un insieme di contraddizioni sociali e di lotte manifestatesi a livello internazionale con una certa frequenza e intensità nel corso degli ultimi anni, la cui eterogeneità organizzativa e di scopi può difficilmente essere ancora rinchiusa soltanto all’interno della più tradizionale, e forse riduttiva, formula di lotta o guerra di classe. Contraddizioni sul piano sociale, economico e ambientale agite da attori multipli, cui gli Stati, indipendentemente dalla loro collocazione geopolitica, hanno dato, quasi sempre, risposte di carattere repressivo ed autoritario3.

Ma che proprio negli Stati Uniti potrebbe trovare, come ci indica il film di Garland, il suo punto finale di espressione. Anche se non è soltanto Garland a suggerirlo, ma anche svariati e attenti studi sulla realtà americana4.

Tralasciando, per ora, il contenuto più evidentemente politico e sociologico del film, oltre a sottolineare l’essenzialità della regia di un film a medio costo e la bravura delle interpreti e degli attori, da Kirsten Dunst (Lee), Wagner Moura (Joel), Stephen McKinley Henderson (Sammy), Cailee Spaeny (Jessie) fino a Jesse Piemons (nei panni di un militare ultranazionalista), quello che occorre qui ancora sottolineare è un altro e importante aspetto delle vicende narrate.

Si tratta della differenza che intercorre tra fotografare la realtà della guerra oppure descriverla in un articolo. La differenza tra lo sguardo e la parola e il diverso collegamento tra occhio e mente rispetto a quello tra la facoltà di scrivere e la riflessione necessaria per metterla in atto. La prima azione è immediata e non può permettersi il lusso della mediazione, mentre la seconda fa della capacità di mediazione interpretativa il suo punto di forza. In altre parole: il reporter, se vuole, può re-inventarsi la guerra, rimuovendo ciò che potrebbe ferirlo di più, mentre il fotoreporter deve per forza accettarne gli aspetti più dolorosi, pena il venir meno alla sua funzione.

Questa semplice e immediata considerazione sembra riflettersi nel carattere dei personaggi, nelle loro scelte e nel loro destino. Apparentemente più cinica e distaccata appare la fotoreporter più vecchia, pienamente in grado, però, di trasmettere alla sua giovane “erede” la capacità di cogliere il momento attraverso lo scatto, costi quel che costi sia sul piano fisico che emozionale. Uno sporco mestiere in cui l’”attimo fuggente” è tutto e richiede di saper scollegare la sensibilità dalla disposizione ad agire automaticamente per mezzo della macchina fotografica, anche a costo di perdere la propria umanità, proprio per trasmettere al grande pubblico la disumanità di ogni guerra. Oppure conservarla dentro di sé, fimo ad esserne straziati, come accade a Lee, che proprio in virtù di questo è, però, ancora l’unica capace di un gesto estremo.

Mentre il giornalista può comunque prendere tempo per narrare i fatti attraverso la mediazione della scrittura. In viaggio, sul campo di battaglia oppure in uno di quegli hotel per giornalisti tipici delle zone di guerra che nel film, almeno per una volta, non sono più soltanto in Medio Oriente, Asia, Africa o sui confini orientali d’Europa, ma in una New York in cui l’attentato alle torri gemelle dell’11 settembre 2001 sembra costituire, più che un preavviso o un avvertimento, soltanto un pallido ricordo, mentre il cratere di Ground Zero sembra aver davvero inghiottito definitivamente tutto.

Note

  1. Si veda in proposito quanto precedentemente affermato dall’autore di questo articolo qui, qui e qui.  

  2. A proposito del seminale gruppo musicale americano si veda qui  

  3. S. Moiso, Miseria, repressione e crollo delle verità/mondo: ovvero perché parlare ancora di guerra civile, introduzione a S. Moiso (a cura di), Guerra civile globale. Fratture sociali del terzo millennio, Il Galeone Editore, Roma 2021, pp. 9-10.  

  4. Si veda in proposito, solo per citare alcune riflessioni più recenti, la Parte III del numero 3/2024 di Limes, Mal d’America, con i saggi di Chris Griswold, Michael Bible, Kenneth J, Heineman, Tiziano Bonazzi, Jeremy D. Mayer, Mark J. Rozell e Jacob Ware, pp. 201-248.

Fonte