Mission impossible. A leggere con serietà il discorso che Mario Draghi ha consegnato ieri a La Hulpe, intervenendo a una conferenza organizzata dalla presidenza di turno belga dell’UE, emerge con nettezza un quadro disperante per il futuro dei paesi del Vecchio Continente.
E non sarà con le furbizie retoriche – di cui Draghi è ormai maestro applaudito – che si potrà uscire da una fossa che l’Unione Europea ha scavato con le proprie mani, obbedendo alle indicazioni della sua presunta “locomotiva”, la Germania.
L’ex governatore della Bce (ex vicepresidente di Goldman Sachs, ex governatore della Banca d’Italia, ex presidente del consiglio italiano, ecc.) evita accuratamente di nominare l’elefante nella stanza, ma il tanfo della sua presenza aleggia dall’inizio alla fine dello speech.
L’esercizio retorico parte con una pretestuosa critica a Krugman, che già 30 anni fa aveva messo in guardia la classe dirigente europea dal cadere nella “pericolosa illusione della competitività” invitandola ad occuparsi semmai di come aumentare la produttività dei fattori produttivi continentali.
In effetti, cincischia Draghi, a distanza di tempo quell’invito “sembra” giusto, visto che il “modello mercantilista” teutonico – bassi salari e meno diritti per rendere più competitive le esportazioni – ha distrutto sia la domanda interna che il “modello sociale europeo”. Però l’errore, a suo parere, è da far risalire a “su cosa” si è cercato di far crescere la competitività, non sul tentativo di svilupparla.
In pratica, dice SuperMario, abbiamo scatenato la competitività “all’interno della UE” invece che con l’esterno. Tutti i paesi europei a tagliare la spesa, anche quella con grandi ricadute sulla produttività, per allinearsi a un ridisegno delle filiere produttive esistenti (a centralità tedesca, ovviamente), mentre “gli altri” – Cina, Stati Uniti, gli “emergenti” – investivano (chi più chi meno) in nuove tecnologie, nuovi prodotti, altre materie prime e componenti fondamentali.
A forza di essere “austeri” ci scopriamo – come europei, nell’insieme – più poveri, sguarniti, fuori mercato, senza una progetto, senza essere un soggetto. Senza strategie sui punti di crisi fondamentali. Ma Draghi non può dirla neanche in questo modo, perché dovrebbe accusare pubblicamente – oltre alla Germania e agli altri “paesi frugali” che ancora oggi chiedono di stringere i cordoni della spesa pubblica (altrui) – anche se stesso.
Non si sta al vertice per venti anni (otto dei quali alla Bce, l’unica istituzione continentale dotata di veri poteri) per poi far finta di cadere dal pero. E non c’è neanche tempo di cercare le colpe o correggere qualche dettaglio.
La UE, nella forma attuale, congelata in trattati concepiti come “gabbia” per le politiche non autorizzate, è stata costruita “per il mondo di ieri“. Quel mondo è già finito e degenera verso la guerra, forma suprema della “competitività”.
Anche l’area “euro-atlantica” non basta più a definire il campo d’azione di un continente senza strategie unitarie. Gli Stati Uniti, già da anni, “reinternalizzano” settori produttivi e alzano barriere protezionistiche. E non c’è molta differenza tra Biden e Trump, su questo fronte.
La Cina ha ripreso a crescere a ritmo sostenuto, ma soprattutto controlla intere filiere (dalle materie prime agli impianti ai prodotti finiti), specie nei settori ad alto valore aggiunto (tutto il “green”, in primo luogo), ha un altro modello sociale che assicura consenso di massa, mentre qui si moltiplicano le ragioni e le occasioni del malcontento sociale.
La UE è senza una politica industriale collettiva e benefica per tutti (i paesi), è senza un esercito proprio mentre gli Usa “se ne stanno andando” per concentrarsi sul Pacifico. È senza una ricerca scientifica all’altezza, tranne che in quella “pura”, ma con scarsa capacità di trasformarla in tecnologie per le imprese.
Soprattutto, ripete continuamente Draghi, è “senza una strategia“. Sia complessiva che rispetto ai singoli fronti di crisi.
Non paradossalmente – ma è paradossale che la critica venga da lui, “il privatizzatore” per eccellenza del patrimonio pubblico italiano – la colpa di tanta debolezza e nanismo in settori decisivi, come le telecomunicazioni, è “l’eccesso di operatori” (34 o forse più, in Europa). Ossia nella “troppa concorrenza”!
Fino all’ammissione suicida – per un neoliberista senza se e senza ma – che “le interconnessioni richiedono decisioni su pianificazione, finanziamento, approvvigionamento di materiali e governance che sono difficili da coordinare“. Una cosa è insomma la libera concorrenza tra ristoratori e pizzaioli, ma quando si arriva ai “beni comuni” (l’energia, per esempio) il gioco si fa diverso e serve sia “unitarietà” del soggetto decidente che “pianificazione” di lungo termine.
Ce ne sarebbe abbastanza per accennare magari alla necessità di un po’ di “socialismo”, ma sarebbe chiedergli troppo. Il capitale privato resta l’alfa e l’omega del suo meditare e cercare soluzioni. Che quindi non ci sono... La sua Europa ha il solo vantaggio della “dimensione” (più o meno equivalente a quella di Usa e Cina), ma “la frammentazione” impedisce di sfruttare anche questo vantaggio.
Sembra di sentire uno dei tanti leaderini della “sinistra radicale” in tempi di elezioni: “uniamoci per non far vincere quegli altri!”. Ma se non hai strategia, pratiche, “produttività” e “truppe”, quell’appello resta un urletto strozzato. Anche se ti chiami Draghi.
A differenza di quei leaderini, certo, SuperMario sa dove vuole andare ed anche la strada per arrivarci. Ma è la realtà ad ostacolare il cammino.
Intanto sul piano “istituzionale”. La UE è stata costruita su un altro schema, che ha sedimentato una classe politica, automatismi amministrativi, una tecnoburocrazia monocorde e terrorizzata dall’improvvisazione o dall’uscita dai binari. Una “cultura diffusa” che ora è tanto più difficile da sostituire quanto più è stata imposta con successo.
Le leve del comando, insomma, quand’anche fossero movimentabili a piacere, agiscono su una stratificazione di ingranaggi mal disegnati, non funzionali, “resistenti” all’innovazione strategica. Su questo la “proposta che non si può rifiutare” è quella di lasciar perdere le lunghissime modifiche dei trattati e “andare avanti con chi ci sta“, e gli altri si arrangino.
Ma soprattutto manca il tempo. Il “cambio di strategia”, di passo, di ambizioni e visioni (star da soli al mondo, anche senza il tutor Usa) sarebbe stato comunque difficilissimo se avviato – e “pianificato” – parecchi anni fa. Ora, con una finestra di agibilità ridotta a pochi anni, se non addirittura mesi, quell’inversione di marcia (non “di rotta”!) appare più un sogno al risveglio che non un progetto.
Mission impossible, dicevamo...
*****
Il discorso di Mario Draghi
Buongiorno a tutti,
Questa, in sostanza, è la prima volta che ho l’opportunità di iniziare a condividere con voi l’insieme – non la filosofia, non siamo ancora a quel punto – ma come nel complesso il design e la filosofia del rapporto si stanno delineando.
Per molto tempo, la competitività è stata una questione controversa per l’Europa.
Nel 1994, l’economista, Nobel, Paul Krugman, definì il concentrarsi sulla competitività una “pericolosa ossessione“. Il suo argomento era che la crescita a lungo termine proviene dall’aumento della produttività, che beneficia tutti, piuttosto che cercare di migliorare la propria posizione relativa agli altri e catturare la loro parte di crescita.
L’approccio che abbiamo adottato alla competitività in Europa dopo la crisi del debito sovrano sembrava confermare il suo punto di vista. Abbiamo intrapreso una strategia deliberata per cercare di abbassare i costi salariali relativi l’uno all’altro – e abbiamo combinato tutto questo con una politica fiscale prociclica – l’effetto netto è stato solo quello di indebolire la nostra stessa domanda interna e minare il nostro modello sociale.
Il problema principale non è che la competitività sia un concetto difettoso. È che l’Europa ha avuto il focus sbagliato.
Ci siamo rivolti verso l’interno, vedendo i nostri concorrenti come noi stessi, anche nei settori della difesa e dell’energia dove abbiamo profondi interessi comuni. Allo stesso tempo, non ci siamo abbastanza rivolti verso l’esterno: con un saldo commerciale positivo, dopo tutto non abbiamo considerato la nostra competitività esterna come una seria questione politica.
In un ambiente internazionale benigno, abbiamo confidato nel campo da gioco globale e nell’ordine internazionale basato sulle regole, aspettandoci che gli altri facessero altrettanto. Ma ora il mondo sta cambiando rapidamente, e ci ha colto di sorpresa.
Soprattutto, altre regioni non stanno più giocando secondo le regole e stanno attivamente elaborando politiche per migliorare la loro posizione competitiva.
Nel migliore dei casi, queste politiche sono progettate per ridirigere gli investimenti verso le loro economie a scapito delle nostre; nel peggiore dei casi, sono progettate per renderci permanentemente dipendenti da loro.
La Cina, ad esempio, mira a catturare e internalizzare tutte le parti della catena di approvvigionamento nelle tecnologie verdi e avanzate e si sta garantendo l’accesso alle risorse necessarie.
Questa rapida espansione dell’offerta sta portando a una significativa sovracapacità in più settori e minaccia di indebolire le nostre industrie.
Gli Stati Uniti, dal canto loro, stanno utilizzando politiche industriali su larga scala per attirare capacità manifatturiere domestiche ad alto valore aggiunto all’interno dei propri confini – incluso quello delle aziende europee – mentre utilizzano il protezionismo per escludere i concorrenti e utilizzano il proprio potere geopolitico per riorientare e garantire le catene di approvvigionamento.
Non abbiamo mai avuto un “Patto Industriale” equivalente a livello dell’Unione Europea, anche se la Commissione ha fatto tutto il possibile per colmare questa lacuna. Pertanto, nonostante una serie di iniziative positive in corso, ci manca ancora una strategia complessiva su come rispondere in molteplici settori.
Ci manca una strategia su come tenere il passo in una crescente corsa all’innovazione per la leadership nelle nuove tecnologie. Oggi – rispetto agli Stati Uniti e alla Cina – investiamo meno in tecnologie digitali e avanzate, compresa la difesa, e abbiamo solo quattro attori tecnologici europei globali tra i primi 50 al mondo.
Ci manca una strategia su come proteggere le nostre industrie tradizionali in un campo da gioco globale non uniforme causato da asimmetrie nelle regolamentazioni, nei sussidi e nelle politiche commerciali. Le industrie ad alta intensità energetica ne sono un esempio.
In altre regioni, queste industrie non solo affrontano costi energetici inferiori, ma affrontano anche un carico regolamentare inferiore e, in alcuni casi, stanno ricevendo sussidi massicci che minacciano direttamente la capacità delle aziende europee di competere.
Senza azioni politiche strategicamente progettate e coordinate, è logico che alcune delle nostre industrie chiudano impianti o si trasferiscano al di fuori dell’Unione Europea.
E ci manca una strategia per garantirci di avere le risorse e gli input di cui c’è bisogno per realizzare le nostre ambizioni senza aumentare le nostre dipendenze.
Abbiamo giustamente un ambizioso programma politico sul clima in Europa e obiettivi rigorosi per i veicoli elettrici. Ma in un mondo in cui i nostri rivali controllano molte delle risorse di cui abbiamo bisogno, un tale programma deve essere combinato con un piano per garantire la nostra catena di approvvigionamento – dai minerali critici alle batterie, all’infrastruttura di ricarica.
La nostra risposta è stata limitata perché la nostra organizzazione, la presa di decisioni e il finanziamento sono progettati per “il mondo di ieri” – pre-Covid, pre-Ucraina, pre-conflitto in Medio Oriente, pre-ritorno della rivalità tra le grandi potenze.
Ma abbiamo bisogno, abbiamo bisogno di un’Unione Europea adatta al mondo di oggi e di domani. E quindi quello che sto proponendo nel rapporto che il Presidente della Commissione mi ha chiesto di preparare, è un cambiamento radicale, perché è quello che serve.
Alla fine, dovremo ottenere una trasformazione in tutta l’economia europea. Dobbiamo poter fare affidamento su sistemi energetici decarbonizzati e indipendenti; un sistema di difesa integrato e adeguato basato sull’UE; produzione nazionale nei settori più innovativi e a più rapida crescita; e una posizione di primo piano nell’innovazione tecnologica avanzata e digitale che è vicina alla nostra base manifatturiera.
Ma con i nostri concorrenti che si muovono velocemente, dobbiamo anche valutare le priorità. Sono necessarie azioni immediate nei settori con la maggiore esposizione alle sfide verdi, digitali e della sicurezza. Nel mio rapporto, ci stiamo concentrando su dieci di questi macro-settori nell’economia europea.
Ogni settore richiede riforme e strumenti specifici. Tuttavia, nella nostra analisi emergono tre fili comuni per le azioni politiche.
Il primo filo comune è quello di consentire di aumentare la dimensione di scala. I nostri principali concorrenti stanno approfittando del fatto di essere economie delle dimensioni continentali per generare scala, aumentare gli investimenti e catturare quote di mercato per le industrie dove conta di più.
Abbiamo lo stesso vantaggio di dimensioni naturali in Europa, ma la frammentazione ci trattiene.
Nel settore della difesa, ad esempio, la mancanza di scala sta ostacolando lo sviluppo della capacità industriale europea, il che è un problema riconosciuto nella recente Strategia Industriale Europea per la Difesa.
I primi cinque attori negli Stati Uniti rappresentano l’80% del suo mercato più ampio, mentre in Europa costituiscono solo il 45%. Questa differenza nasce in gran parte perché la spesa per la difesa dell’UE è frammentata. I governi non acquistano molto insieme: gli appalti collaborativi rappresentano meno del 20% della spesa, e non si concentrano abbastanza sul nostro mercato interno: quasi l’80% degli appalti degli ultimi due anni proviene da al di fuori dell’Unione Europea.
Per rispondere alle nuove esigenze di difesa e sicurezza, dobbiamo intensificare i nostri appalti congiunti, aumentare il coordinamento delle nostre spese e l’interoperabilità delle nostre attrezzature, e ridurre sostanzialmente le nostre dipendenze internazionali.
Un altro esempio in cui non stiamo facendo uso della scala è quello delle telecomunicazioni. Abbiamo un mercato di 445 milioni di consumatori nell’UE, ma gli investimenti pro capite sono solo la metà di quelli negli Stati Uniti, e siamo in ritardo nella diffusione del 5G e delle fibre ottiche.
Una ragione di questo divario è che abbiamo 34 gruppi di reti mobili in Europa e, per inciso, 34 è una stima conservativa, ne abbiamo infatti molti di più, ma 34 è la cifra consolidata dei gruppi. Quindi, abbiamo 34 gruppi di reti mobili in Europa che spesso operano solo a livello nazionale, contro i tre negli Stati Uniti e i quattro in Cina.
Per produrre più investimenti, dobbiamo semplificare e armonizzare ulteriormente le normative delle telecomunicazioni tra gli Stati membri e sostenere – non ostacolare – la concentrazione.
E la scala è cruciale anche in un modo diverso, per le giovani aziende che generano le idee più innovative. Il loro modello di business dipende dalla capacità di crescere rapidamente e commercializzare le loro idee, il che a sua volta richiede un grande mercato domestico.
E la scala è anche essenziale per lo sviluppo di nuovi medicinali innovativi attraverso la standardizzazione dei dati dei pazienti dell’Unione Europea e l’uso dell’intelligenza artificiale, che ha bisogno di tutta questa ricchezza di dati che abbiamo, se solo potesse essere standardizzata.
In Europa siamo tradizionalmente molto forti nella ricerca fondamentale, ma non riusciamo a portare l’innovazione sul mercato e ad ampliarla. Potremmo affrontare questa barriera, tra le altre cose, rivedendo la regolamentazione prudenziale attuale nel finanziamento bancario e istituendo un nuovo regime regolamentare comune per le start-up nel settore tecnologico.
Il secondo filo conduttore riguarda la fornitura di beni pubblici. Dove ci sono investimenti di cui tutti beneficiamo, ma nessun paese può portare avanti da solo, c’è una forte ragione per agire insieme – altrimenti non saremo in grado di soddisfare le nostre esigenze. Ad esempio, non riusciremo a fornire i risultati sperati nel settore del clima e della difesa, ma anche in altri settori.
Ci sono diversi punti critici nell’economia europea in cui la mancanza di coordinamento significa che gli investimenti sono inefficacemente bassi. Le reti energetiche, e in particolare le interconnessioni, sono un esempio. Sono un bene pubblico chiaro, poiché un mercato energetico integrato abbasserebbe i costi energetici per le nostre imprese e ci renderebbe più resilienti di fronte a future crisi – un obiettivo che la Commissione sta perseguendo nel contesto di REPowerEU.
Ma le interconnessioni richiedono decisioni su pianificazione, finanziamento, approvvigionamento di materiali e governance che sono difficili da coordinare, e quindi non saremo in grado di costruire una vera Unione dell’Energia a meno che non ci accordiamo su un approccio comune.
Un altro esempio è la nostra infrastruttura di supercalcolo. L’UE dispone di una rete pubblica di computer ad alte prestazioni (HPC) di classe mondiale, ma i vantaggi per il settore privato sono attualmente molto, molto limitati. Questa rete potrebbe essere utilizzata dal settore privato – ad esempio start-up di intelligenza artificiale e PMI – e in cambio, i benefici finanziari ricevuti potrebbero essere reinvestiti per aggiornare i computer ad alte prestazioni e sostenere un’espansione del cloud dell’UE.
Una volta identificati questi beni pubblici, dobbiamo anche dare a noi stessi i mezzi per finanziarli. Il settore pubblico ha un ruolo importante da svolgere, e ho già parlato di come possiamo utilizzare meglio la capacità di prestito congiunta dell’UE soprattutto in settori – come la difesa – dove la spesa frammentata riduce la nostra efficacia complessiva. Ma la maggior parte del divario di investimento dovrà essere coperta dagli investimenti privati.
L’UE ha risparmi privati molto elevati, ma sono per lo più canalizzati in depositi bancari e non finiscono per finanziare la crescita quanto potrebbero in un mercato dei capitali più ampio. Ecco perché far progredire l’Unione dei Mercati dei Capitali (CMU) è una parte indispensabile della strategia complessiva di competitività.
Il terzo filo conduttore è garantire la fornitura di risorse e input essenziali. Se vogliamo realizzare le nostre ambizioni climatiche senza aumentare la nostra dipendenza da paesi su cui non possiamo più fare affidamento, abbiamo bisogno di una strategia completa che copra tutte le fasi della catena di approvvigionamento di minerali critici.
Attualmente stiamo lasciando questo spazio principalmente agli attori privati, mentre altri governi stanno dirigendo direttamente o coordinando fortemente l’intera catena. Abbiamo bisogno di una politica economica estera che faccia altrettanto per la nostra economia.
La Commissione ha già avviato questo processo con la Legge sui Materiali Grezzi Critici, ma abbiamo bisogno di misure complementari per rendere più tangibile il suo obiettivo. Ad esempio, potremmo prevedere la creazione di una piattaforma dedicata dell’UE per i minerali critici, principalmente per appalti congiunti, sicurezza di approvvigionamento diversificato, raccolta di finanziamenti e stoccaggio.
Un altro input cruciale che dobbiamo garantire – e questo è particolarmente rilevante per voi, i partner sociali – è il nostro approvvigionamento di lavoratori qualificati. Nell’UE, tre quarti delle aziende segnalano difficoltà nel reclutare dipendenti con le giuste competenze, mentre 28 occupazioni rappresentanti il 14% della nostra forza lavoro sono attualmente identificate come avendo carenze di manodopera.
Con società che invecchiano e un atteggiamento meno favorevole verso l’immigrazione, dovremo trovare queste competenze internamente. Diversi portatori di interesse dovranno collaborare per garantire la rilevanza delle competenze e plasmare percorsi flessibili di sviluppo delle competenze.
Uno dei protagonisti più importanti in questo ambito sarete voi, i partner sociali. Siete sempre stati cruciali nei momenti di cambiamento, e l’Europa si affiderà a voi per contribuire ad adattare il nostro mercato del lavoro all’era digitale e potenziare i nostri lavoratori.
Questi tre filoni richiedono di riflettere profondamente su come ci organizziamo, su cosa vogliamo fare insieme e su cosa mantenere a livello nazionale. Ma data l’urgenza della sfida che affrontiamo, non possiamo permetterci di ritardare le risposte a tutte queste domande importanti fino al prossimo cambiamento dei trattati.
Per garantire coerenza tra diversi strumenti politici, dovremmo essere in grado di sviluppare ora un nuovo strumento strategico per la coordinazione delle politiche economiche. E se ciò non fosse fattibile, in casi specifici, dovremmo essere pronti a considerare di andare avanti con un sottoinsieme di Stati membri.
Ad esempio, la cooperazione rafforzata sotto forma di un regime 28 potrebbe essere una via per l’avanti per l’UMC, per l’unione dei mercati dei capitali, per mobilitare investimenti. Come regola generale, la coesione politica esige che agiamo insieme. Possibilmente sempre. Dobbiamo essere consapevoli che la stessa coesione politica è ora minacciata dai cambiamenti nel resto del mondo.
Ripristinare la nostra competitività non è qualcosa che possiamo ottenere da soli, o battendoci l’un l’altro. Richiede che agiamo come Unione Europea in un modo che non abbiamo mai fatto prima.
I nostri rivali ci stanno anticipando perché possono agire come un unico paese con una sola strategia e allinearvi tutti gli strumenti e le politiche necessarie dietro di essa. E se vogliamo eguagliarli, avremo bisogno di un rinnovato partenariato tra gli Stati membri – una ridefinizione della nostra Unione che non è meno ambiziosa di quanto abbiano fatto i Padri Fondatori 70 anni fa con la creazione della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio.
Grazie.
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