di Gioacchino Toni
Il cinema è menzogna, quanto del resto lo sono la fotografia e tutte le arti visive, come, con estrema consapevolezza, ha messo in luce il pittore René Magritte e, prima di lui, per certi versi, lo stesso Diego Velázquez nel suo Las Meninas (1656). Detto ciò, ci si può domandare con Massimo Donà, Cinematocrazia (Mimesis 2021), se alla menzogna cinematografica occorra attribuire una qualche irriducibile specificità.
Già, perché il cinema, come argomenta lo studioso, «finge di non costituirsi come semplice finzione; come pura parvenza di vita » dissimulando la propria fantasmagoricità conferendo alle sue realizzazioni una veridicità tale da farci provare le emozioni dei protagonisti messi in scena.
A differenza della fotografia e della pittura, il cinema «non separa un frammento (inesistente) del reale», esso consente allo spettatore di vivere «davvero come nella vita di ogni giorno» pur trattandosi di un’altra vita, per quanto pur sempre “vita”, facendo dimenticare, al tempo stesso, «che questa vita non è vita». Il cinema, insomma, esige che si guardi al frammento di vita catturata dall’inquadratura dimenticandosi della sua esibita artificiosità.
Nonostante l’artificio al cinema sia palese, pur simulando il contrario, «è proprio la vita che in esso finisce per specchiarsi» trasfigurandosi in inganno, ed è proprio quest’ultimo a rendere il cinema attraente. Al cinema, sostiene Donà, ci si reca per «un indistinto bisogno di vivere la vita, di viverla vivendola» senza giudicare e scegliere, senza tentare di distinguere la sua natura menzognera dal “vero”, sentendo di «esser altri da quel che siamo; pur essendolo (quel che siamo). Essendolo, insomma, senza esserlo».
Il cinema sembra funzionare «come una finestra che, pur aprendosi sul mondo, non si spalanca mai sull’esterno... non apre cioè a improbabili vie di fuga. Ma si spalanca piuttosto sul mondo che, sulla sua trasparenza, finisce in qualche modo per riflettersi come sulla superficie di uno specchio – in cui, a riflettersi, sarà dunque, da ultimo, nient’altro che l’interno della casa. Il quale, proprio nell’attraversare l’apertura della finestra, è destinato a manifestarsi come “altro-da-sé”, negando in primis di essere quel che, della casa (di cui quella finestra è un elemento) dice appunto il semplice “interno”».
Se c’è un film che, secondo Donà, più di altri, è in grado di palesare la paradossale natura dell’esperienza cinematografica, questi è Melò, (1986) di Alain Resnais, nel suo rivelarsi, dietro a una storia di amore e tradimento, un film sulla menzogna, «sull’epifania dell’impossibilità del “vero”», un film «in cui, a tradirci, sono invero sempre e solamente la credibilità e la veridicità di quel che accade».
Riprendendo invece Blade Runner (1982) di Ridley Scott e The Matrix (1999) di Andy e Larry Wachowski, Donà ragiona su come al cinema il corpo dello spettatore venga destrutturato, su come il suo personale punto di vista si eclissi negandogli l’identificazione con uno specifico personaggio della narrazione, inducendolo ad attraversarli tutti senza scegliere “con chi stare”. Al cinema il corpo dello spettatore subisce un processo di trasfigurazione nei corpi proiettati sullo schermo ed il tempo della narrazione che, lungi dall’essere il suo, vine vissuto come dall’esterno.
Analizzando Prénom Carmen (1983) di Jean-Luc Godard, scelto come esempio dell’intera opera del regista, Donà si sofferma su quanto la storia del film “non dica”, su quanto non possa raccontare, ossia su quello che Gilles Deleuze (Qu’est-ce qu’un dispositif?, 1988), riprendendo Michel Foucault (Le jeu de Michel Foucault, 1977), definisce il “dispositivo cinema”.
Se, come afferma Deleuze, «ogni dispositivo si definisce per il suo contenuto di novità e creatività che indica contemporaneamente la sua capacità di trasformarsi o già di incrinarsi a favore di un dispositivo futuro» (Qu’est-ce qu’un dispositif?, 1988), «il cinema di Godard, proprio presentando l’irresolubilità di tale antinomia – quella tra arte e vita, per l’appunto –, ed esibendola in tutta la sua irriducibile “separatezza”, nonché tragica incomponibilità, crea un vero e proprio “dispositivo”». «Godard riesce a restituire il cinema a quel sottosuolo che ogni opera invero custodisce, e che tanto Foucault quanto Deleuze cercarono di ricondurre alla specifica nozione di “dispositivo”; che ha, come propria primaria caratteristica, quella di determinarsi nella forma di un radicale “rifiuto degli universali”».
Riprendendo le riflessioni di Deleuze sul cinema, Donà sottolinea come a condurre il filosofo alla classificazione delle immagini e dei segni cinematografici nei suoi Cinéma 1. L’Image-mouvement (1983) e Cinéma 2. L’Image-temps (1985) sia la convinzione che «l’immagine non sia un evento della mente o della coscienza, e ancor meno una sorta di più o meno attendibile riproduzione del reale, ma stia nelle cose stesse, nel mondo, incisa nel reale più di qualsiasi altra sua (sempre del reale) possibile caratterizzazione».
Il cinema, secondo Deleuze, produrrebbe una vera e propria finzione di realtà negando di essere finzione così come di essere immagine della realtà, di esserne una copia. Il cinema metterebbe in scena «quel flusso indistinto che mai potremmo “permetterci” di esperire nella nostra quotidianità. Il cinema, cioè, libera il movimento della vita; senza ricondurlo (il movimento) alla vita; alla vita di questo o di quello. Il cinema rende equivalenti i buoni e i cattivi, i gangster e i poliziotti, gli omicidi e i benefattori». È attorno a tali snodi che Donà intesse le sue riflessioni sul modi di concepire il cinema da parte del filosofo francese.
Lo studioso si sofferma anche sulle riflessioni di Foucault sulle “eterotopie” – da questi considerate interessanti anzitutto per il loro fungere da contestazione di tutti gli altri spazi – e su come tali riflessioni si riverberino sul cinema alla luce del fatto che in esso «incontriamo un mondo altro che, nello stesso tempo, non è affatto altro da quello che continueremo a incontrare fuori dalla sala di proiezione». Il cinema «ci consente di vedere (theorein) in qualità di semplici “spettatori”; sì, di vedere lo stesso mondo che vediamo ogni santo giorno [...], un mondo fatto anche di individui, certo... come quelli che incontriamo ogni giorno, ma che ogni giorno finiamo per trattare come significazioni meramente universali». Sull’onda dei ragionamenti del filoso francese, Donà si domanda se nel cinema sia possibile vedere «una forma di eterotopia ancor più ricca e completa di quella resa attraversabile ed esperibile dalla grande filosofia... se non altro, là dove quest’ultima abbia saputo farsi teoretica».
Donà riprende anche le riflessioni di Foucault riportate in apertura di Le mots et le choses (1966) in merito al dipinto Las Meninas di Velázquez in cui il filosofo francese giunge a prospettare che ad essere messa in scena dal dipinto «sia innanzitutto la questione della possibilità di rappresentare l’atto stesso della rappresentazione. O anche, di far vedere gli scarti e le pieghe da cui sarebbe intimamente costituita, in verità, ogni visione, ossia ogni rappresentazione. E per ciò stesso ogni immagine». Il celebre dipinto farebbe riferimento dunque a «qualcosa che rimane costitutivamente “invisibile”, e che rimane tale in quanto valevole come semplice “fuori” rispetto alla scena cui tutti gli occhi, nello spazio scenico della rappresentazione, si rivolgono quasi incantati».
L’analisi di un film come King Kong (1933) di Merian C. Cooper ed Ernest B. Schoedsack permette a Donà di sottolineare come l’antropomorfizzazione cinematografica dell’animalità permetta la resa di un sentimento puro, non calcolato o giudicato e «la realissima illusione di un patimento finalmente libero da costrizioni o sofferenze di sorta, anche in quanto capace di percepirsi e riconoscersi come tale in virtù di una semplice e per ciò stesso immediata esperienza di libertà».
Le pellicole sul cibo e sull’atto del mangiare Babettes gæstebud (1987) di Gabriel Axel e La grande bouffe (1973) di Marco Ferreri, per quanto muovano da prospettive differenti, permettono a Donà di strutturare una riflessione su quanto come spettatori – partecipi di una collettività eppure al tempo stesso soli in sala – ci si “rifugi” al cinema in uno spazio “separato” al pari dei personaggi del film di Axel (abitanti un paesino isolato) e quello di Ferreri (rinchiusi in una villa). «Ma ci separiamo dal mondo, per fare, sempre del medesimo mondo, qualcos’altro, e per fare di noi stessi altro da quel che siamo. Per ‘divorare’ la soglia che ci separa e distingue dal mondo».
Analizzando invece Blow-up (1966) di Michelangelo Antonioni, lo studioso argomenta come ad essere messo in scena dal regista sia in definitiva l’atto del fotografare come risposta all’insoddisfazione per quanto offre la vita. Nel ricorrere allo scatto il protagonista ignora cosa esso possa far emergere; la sua, in fin dei conti, sostiene Donà, è una fotografia che «non “rappresenta” e non “ripete” alcunché; ma “presenta”… sola mente». Il protagonista, al termine di quello che si struttura come un viaggio iniziatico, capisce che «malata non è tanto la realtà in ragione della sua insensatezza, quanto piuttosto la nostra pretesa di sostituire questa negatività (o insensatezza) con un altro positivo – che sarebbe solo da scoprire e mettere finalmente a fuoco... per liberarsi da quello che appare come un sempre meno sopportabile mal di vivere».
In conclusione, lo studioso argomenta come nella messa in scena dell’individuo di fronte alla Storia di violenza e di sopraffazione subita dai neri negli Stati Uniti, Django Unchained (2012) di Quentin Tarantino in definitiva mostri come «l’assolutamente altro può anche presentarsi con un volto simile al nostro, mettendo in crisi il nostro esserci collocati da una parte ben precisa dell’opposizione assoluta; in genere quella dell’essere, ossia del bene», ed ogni volta che ci scagliamo contro un “altro”, lo scambiamo per un “altro assoluto”. «Mentre si tratta solamente di un altro “essere”». La forza icastica di questo film, sostiene Donà, è tale da farci capire che «parla di un reietto che non solo si libera dalla condizione di schiavitù e mostra a tutti noi spettatori come ci si possa liberare da una schiavitù che è sempre schiavitù anzitutto nei confronti della grande illusione, o dal grande fraintendimento che governa le nostre vite».
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