Se sulle vicende dello sbarco anglo-americano in Sicilia (9 luglio 1943) si sono versati fiumi di inchiostro, poco si è scritto, invece, sulle stragi compiute dalle truppe americane a partire dai primi giorni dell’invasione.
Di quelle compiute dalle truppe tedesche ai danni dei militari del regio esercito italiano e della popolazione civile italiana, sappiamo tutto. Al contrario, su quelle degli americani poco o nulla. È questa una storia tutta da scrivere.
È del 2011, ad esempio, il libro dello storico Fabrizio Carloni intitolato “Gela 1943: le verità nascoste sullo sbarco americano in Sicilia”, in cui sono descritti per la prima volta, attraverso una ricostruzione ben documentata, alcuni di questi crimini di guerra. Risulta, infatti, che sono parecchi, oltre alle stragi che sono state in parte documentate dagli atti processuali della Corte Marziale degli Stati Uniti, gli episodi in cui soldati italiani sono stati fucilati dalle truppe americane, pur essendosi arresi dopo il combattimento.
Sennonché gli ordini del generale Patton, comandante della 7ª Armata Usa, erano stati chiari ben prima dello sbarco: non bisognava fare prigionieri. Nella cosiddetta “Battaglia di Gela”, che vide impegnata nella difesa costiera la sola divisione “Livorno”, questa perse 11.400 uomini tra morti e feriti, 214 ufficiali e 7.000 sottufficiali e soldati. È probabile che appartenessero ad essa anche i 73 militari italiani fucilati a Biscari. Ma quanti morti sono caduti in battaglia oppure sono stati fucilati dopo aver opposto una strenua resistenza?
È dunque lecito pensare che siano state parecchie le fucilazioni di nostri soldati, né si può rinunciare a rendere giustizia alle vittime e alla storia, impedendo, nella misura del possibile, che sia il vincitore a scrivere anche la storia dei vinti. Purtroppo, in quei giorni dominati dalla paura e dalla confusione molte morti di civili, nascoste dai vertici militari alleati che non volevano macchiare la loro immagine di “liberatori”, furono piante nel riserbo e nel silenzio dei familiari.
Del resto, va detto che gli Alleati non si comportarono affatto da “liberatori”, poiché progettarono ed attuarono la conquista della Sicilia in base ad una logica squisitamente imperialistica. La Sicilia venne attaccata ed occupata come terra nemica in quanto rappresentava l’avamposto del regime fascista, che bisognava distruggere. Solo dopo l’armistizio dell’8 settembre, quando ormai la capitolazione dell’esercito italiano in Sicilia era definitiva e le truppe anglo-americane non erano riuscite a bloccare i tedeschi sullo stretto di Messina, l’Italia divenne nazione cobelligerante e gli italiani da quel momento vennero trattati come alleati.
La Sicilia, con le sue numerose vittime civili e con i tanti prigionieri inermi fucilati dagli americani, ha quindi pagato un prezzo altissimo alla “liberazione”.
Sta di fatto che solo di due grandi stragi si è scritto e parlato sin dalla fine della guerra, mentre di altre ancora si tace: quella consumata nei pressi dell’aeroporto di Biscari e quella consumata nella contrada Piano Stella, situata nel comune di Caltagirone. Dieci anni fa, la Procura militare di Napoli, competente anche sul territorio siciliano, ricevendo una denuncia da parte di cittadini su una strage di civili compiuta dagli Alleati, aprì un’inchiesta sui crimini di guerra compiuti dalle forze militari anglo-americane in Sicilia nei giorni successivi allo sbarco.
Da lì prese le mosse un’indagine che si presentava difficile, forse anche impossibile, a causa dell’ampio lasso di tempo trascorso. Il fascicolo riguardava l’ipotesi di reato di omicidio compiuto ai danni di civili con efferatezza e per futili motivi: un reato che non si prescrive. Essendo difficile anche trovare i testimoni di quei fatti, la Procura militare di Napoli chiese la collaborazione di storici e studiosi. E qui essa trovò terreno fertile, perché da alcuni anni l’egemonia della ricostruzione filoamericana dei fatti ha dovuto dare spazio a studi e testimonianze che portano alla luce le verità nascoste su quello sbarco e sull’uccisione di cittadini inermi.
Molte uccisioni di singoli civili, forse scambiati per militari, e molte delle uccisioni sommarie di militari italiani rappresentarono l’applicazione dei concetti espressi da Patton nel discorso tenuto agli ufficiali, il 2 giugno 1943, a Comberwell, secondo cui, in base alla “organizzazione che era in corso non si dovevano prendere troppi prigionieri e si doveva evitare di fraternizzare con loro”. In ispecie, durante i combattimenti non si dovevano prendere prigionieri, soprattutto se si trattava di cecchini o di soldati che avevano combattuto le linee avanzate americane.
Sulle navi, prima dello sbarco, gli altoparlanti ripetevano il discorso di Patton: «Se si arrendono, quando tu sei a due-trecento metri da loro, non badare alle mani alzate. Mira tra le terza e quarta costola, poi spara. Si fottano. Nessun prigioniero! È finito il momento di giocare, è ora di uccidere. Io voglio una divisione di killer, perché i killer sono immortali!». Orbene, a quei concetti fecero séguito i bagni di sangue, quasi tutti verificatisi nei primi dieci giorni dello sbarco, quando ebbe inizio l’avanzata delle truppe della 7ª Armata verso Canicattì-Caltanissetta e verso Gela-Caltagirone-Ragusa.
Sarebbe una buona cosa se la ricorrenza del 25 aprile contribuisse a porre in rilievo anche i crimini di guerra perpetrati in Italia dagli americani, dagli inglesi e dai soldati di altre nazioni al séguito di questi. Per intanto, occorre essere grati alla «Rivista Militare», periodico dell’Esercito italiano, per l’importante contributo storico fornito a suo tempo con l’ampio e documentato articolo su “L’assalto degli Alleati alla Sicilia”, del quale qui si è cercato di indicare gli aspetti essenziali.
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