di Massimo Zucchetti
Seconda metà di Aprile 1945, 79 anni fa. L’insurrezione scoppia in Italia dopo venti mesi di occupazione nazista e cinque anni di guerra: da allora, l’Italia antifascista festeggia con il 25 aprile la liberazione dal nazifascismo e la fine della guerra.
Una guerra che aveva visto il territorio del nostro Paese essere campo di battaglia per lungo periodo lasciando l’Italia quasi completamente distrutta, e causando circa 472.000 morti, fra militari (319.000) e civili (153.000), cioè circa il 1,07% della popolazione: un italiano su cento, ucciso dalla guerra.
Sono nato all’inizio degli anni ’60, e fin da bambino mi son stati familiari i termini “classici”: partigiani, Resistenza, antifascismo, 25 aprile Festa della Liberazione. Sembravano date certe, definizioni chiare, termini condivisi da tutti. Dagli anni '90, abbiamo assistito invece a vari tentativi di cambio di nomenclatura.
Ha iniziato il governo Berlusconi, a ventilare un cambio di nome del 25 aprile in “Festa della Libertà”: un tentativo talmente scoperto nelle intenzioni e goffo nelle motivazioni, da essere poi stato sepolto e dimenticato dalla sua stessa pochezza e contingenza.
Attualmente, trovando comunque insopportabile quel “Liberazione” (che sottintende, dal nazifascismo), gli eredi del neofascismo – tra l’altro al governo del paese – si limitano ad affermare che il 25 aprile sarebbe una “Ricorrenza divisiva”.
Ma qui possiamo tranquillamente dare loro ragione una prima volta: il 25 aprile divide chi lo festeggia (e si riconosce nell’antifascismo, uno dei valori fondanti della Repubblica Italiana) da chi non lo festeggia (ed ha una visione qualunquista o immemore della storia politica italiana, non si riconosce nei suoi ideali, oppure ammicca con simpatia a una certa destra antidemocratica. Oppure, direttamente, bazzica il neofascismo).
Personalmente, riteniamo che, se si tratta di dividere chi è antifascista da chi non lo è, ben venga la definizione del 25 aprile come ricorrenza divisiva: riteniamo giusto ed appropriato essere “divisi”, nel senso di distinti e differenti, dagli eredi e continuatori ideologici del fascismo, ora aggiornato in destra nazionalista, populista, razzista e portatrice di pseudo-valori – utilizzando un aggettivo un po’ moderno – tossici.
Un altro sintomo dell’allergia dei revisionisti al termine “Liberazione” ed al concetto che essa sottende, si è manifestato nel cambio di denominazione da “Guerra di Liberazione” a “guerra civile”.
È nato come un’altra goffa e scoperta operazione revisionista: fu guerra civile perché sia da una parte che dall’altra combattevano italiani – realtà incontestabile – “e quindi” vi erano due parti che in qualche modo si equivalevano – forzatura inaccettabile perché antistorica e falsa, sia nel contesto italiano, che nel contesto ideologico dell’intera guerra mondiale, vista come scontro fra democrazia e libertà da un lato, dittatura e razzismo dall’altro.
L’operazione ha visto però prender piede ed essere accettata anche da molti antifascisti. Noi non siamo contrari a questa ridefinizione, che si basa su una realtà di fatto.
L’Italia, in effetti, fu largamente fascista durante il ventennio, e un numero non trascurabile di italiani restarono fascisti anche durante la guerra di liberazione.
Ed è quindi vero: la Resistenza combatté anche contro gli italiani fascisti repubblichini, che in armi affiancarono l’esercito tedesco invasore, con compiti da cane da guardia nella repressione.
Un prezzo altissimo, pagò l’Italia, in quegli anni: se andiamo alla miriade di singoli episodi di crudeltà, vigliaccheria, sopruso, ruberia, assassinio, delinquenza, repressione, tradimento, i repubblichini di Salò furono, nel modo meschino loro tipico, anche peggio dei nazisti occupanti.
Se guerra civile fu, venne resa tale dalla presenza e dalla barbarie delle Brigate Nere, della X MAS, delle varie bande di delinquenti fascisti con l’uniforme della polizia.
Molti vecchi arnesi squadristi volentieri trasmisero ai neofascisti quella certa mentalità da assassini a tradimento che poi ritroveremo nel terrorismo neofascista del dopoguerra.
Senza di loro, senza i repubblichini, sarebbe stata più propriamente una guerra di liberazione: in questo senso non possiamo che essere d’accordo con i revisionisti, sebbene non si riesca a comprendere quale merito possano ascriversi, i fascisti di Salò, nell’aver trasformato di fatto in guerra civile la guerra di Liberazione dell’Italia.
Oltretutto considerando che, dal punto di vista militare, il loro contributo al fronte fu praticamente nullo. O quale sollievo ne possano trarre ora i loro eredi politici. Va riconosciuto però un fatto: la manovra revisionista ha messo in risalto una realtà triste e dura da accettare, ma verissima: l’Italia, nel 1943-1945, era ancora in parte fascista. E tale rimase, in tracce, persino dopo la Liberazione.
A fine guerra, questo tumore non venne completamente estirpato nemmeno con il 25 aprile e neppure con l’epurazione e la Resa dei conti: esso ha avuto modo di sopravvivere e di generare, nel dopoguerra e fino ai giorni nostri, molte e diverse metastasi. Per sopprimere le quali, riflettendoci, non c’è altra scelta – anche oggi come allora – della guerra partigiana.
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