Recentemente la Commissione Europea ha aperto un procedimento d’indagine contro le importazioni di veicoli elettrici provenienti dalla Cina, a causa dei sussidi di cui godrebbero i produttori localizzati all’interno di quel Paese.
Secondo l’accusa, il supporto governativo contribuirebbe a ridurre il prezzo dei veicoli esportati, determinando uno svantaggio competitivo per i produttori localizzati all’interno della UE. È importante osservare che i sussidi in questione sono accessibili a tutte le imprese operanti in Cina, incluse quelle di proprietà straniera, in accordo con la politica di apertura agli investimenti esteri praticata dal governo cinese.
Ad esempio, il secondo maggiore beneficiario degli incentivi all’acquisto di veicoli elettrici sul mercato cinese nel 2022 è stata Tesla e, tra i primi 10, compaiono le joint-venture di Volkswagen e General Motors. In definitiva, se è stata la cinese BYD a ricevere la stragrande maggioranza degli incentivi (Bickenbach et al. 2024: 13), è perché i consumatori cinesi hanno preferito di gran lunga i prodotti di quest’azienda.
Il successo di BYD è continuato nel 2023, dopo che gli incentivi all’acquisto di auto elettriche sul mercato cinese sono cessati, e adesso quest’azienda, come molte altre, si affaccia sul mercato europeo. BYD si avvale di un modello organizzativo di stampo neo-fordista, che privilegia l’integrazione verticale, e poggia sul network innovativo in cui è immersa, in cui il settore pubblico ha giocato un ruolo determinante attraverso investimenti mirati in termini di ricerca di base e applicata.
L’azienda controlla tutte le fasi della propria catena del valore: dalla tecnologia delle batterie ai microchip e persino alla proprietà delle miniere di litio e delle navi che trasportano le proprie auto (Gerbaudo, 2024). Quest’approccio si sta rivelando vincente, perché consente di gestire all’interno della propria organizzazione le incertezze tecnologiche e di mercato legate allo sviluppo di un prodotto con caratteristiche radicalmente nuove.
Al contrario, i produttori occidentali, che avevano abbandonato il modello fordista negli anni Ottanta, quando la competizione si era intensificata a causa della saturazione dei mercati occidentali, hanno tardato a comprendere che siamo entrati in una fase di rivoluzione tecnologica nei trasporti che richiede un approccio di trasformazione radicale rispetto al recente passato. Così oggi si trovano ad essere meno competitivi della concorrenza cinese (Wang et al., 2022).
L’indagine della Commissione rischia di condurre all’adozione di tariffe punitive nei confronti delle importazioni di veicoli elettrici provenienti dalla Cina. Alcuni esperti europeisti sottolineano, con un residuo di saggezza, che una misura di questo tipo sarebbe dannosa dal punto di vista economico, e suggeriscono piuttosto di intavolare trattative con il governo cinese per ottenere l’abolizione delle misure più sgradite (Bickenbach et al. 2024: 13).
In effetti, l’aumento delle tariffe danneggerebbe pesantemente i consumatori europei, limitandone la possibilità di acquistare beni che, nel contesto della transizione climatica, portano beneficio non solo ai diretti interessati ma alla società in generale.
Inoltre, le tariffe punitive rappresenterebbero un improvvido sostegno per un’industria automobilistica europea che è in netto ritardo sul piano degli investimenti per la transizione climatica e che invece potrebbe essere stimolata dalla concorrenza cinese a fare meglio.
In breve, le tariffe contro i veicoli elettrici cinesi costituirebbero un furto di benessere ai danni della collettività che metterebbe a rischio il raggiungimento degli obiettivi climatici da parte dell’UE.
Una volta acquisito che le tariffe anticinesi non sono una buona idea, resta tuttavia drammaticamente vero che, da una parte, milioni di posti di lavoro nell’industria automobilistica europea sono a rischio, e che, dall’altra, la crisi climatica incombe. Urge agire poiché i problemi si aggravano, giorno dopo giorno, mentre l’establishment europeo non sembra in grado di fronteggiare la situazione.
Che cosa dovrebbero fare la Commissione e i governi dei Paesi che compongono la UE?
Prima di rispondere a questa domanda, è opportuno formulare alcune precisazioni in merito alla valutazione occidentale delle politiche industriali cinesi. Uno studio americano recente (Di Pippo et al., 2022) collocava i sussidi industriali cinesi nel 2019 ad un livello pari a 1,73% del PIL. Nella comparazione condotta da questi autori, si tratterebbe di un livello fino a quattro volte superiore rispetto a quello di Stati Uniti, Francia e Germania, e questa differenza giustificherebbe l’accusa rivolta alla Cina di distorcere la competizione internazionale a proprio favore.
Andando ad analizzare i dati contenuti nel rapporto, risulta che il 45% dei sussidi (pari allo 0,77% del PIL) consisterebbe in benefici impliciti a favore delle industrie di stato, determinati dall’orientamento politico favorevole a questo settore da parte del Partito Comunista Cinese.
La parte maggioritaria di questi benefici (0,52% del PIL) è rappresentata da risparmi sugli interessi bancari, che si spiegano con la minore rischiosità dei crediti erogati verso le imprese pubbliche, favorite della garanzia implicita di salvataggio da parte del governo in caso di loro bancarotta.
È improprio assimilare questo risparmio ad un sussidio, perché un creditore, pubblico o privato, che eroghi il credito su basi competitive non può non tenere conto della diversa rischiosità dei propri debitori, ed è quindi perfettamente corretto che richieda un interesse minore alle imprese pubbliche. In pratica, questa voce dipende esclusivamente dall’esistenza di un grande settore di impresa pubblica in Cina.
La critica occidentale alla politica industriale cinese diviene così paradossale, perché la competitività cinese viene ricondotta all’esistenza di imprese pubbliche che dovrebbero, al contrario, essere la causa di una mancanza di competitività della Cina, stando ai canoni del liberismo occidentale secondo il quale solo ‘il privato’ può essere efficiente.
Secondo la stessa fonte, il supporto della Cina per le proprie imprese è molto maggiore di quello occidentale anche se ci limitiamo a considerare i soli sussidi diretti e gli sconti fiscali (0,76% del PIL nel 2019 contro 0,17% e 0,12% di Germania e USA).
Per valutare questa differenza si dovrebbe tenere conto del fatto che la Cina è ancora un’economia a medio reddito e che quindi le sue esigenze non sono perfettamente comparabili con quelle delle economie ricche. Inoltre, occorre considerare che la Cina è sottoposta ad uno strisciante embargo tecnologico da parte degli USA e quindi si trova obbligata a sviluppare rapidamente una propria base tecnologica indipendente.
Tralasciando questi aspetti, pur non secondari, possiamo evidenziare che la differenza di peso tra i sussidi cinesi e quelli di USA e Germania è nell’ordine dello 0,6% del PIL.
Considerando che nel 2022 la spesa militare in Germania era stata pari all’1,4% del PIL (non lontana dalla spesa cinese, pari all’1,6% nel 2022 e ridottasi all’1,5% nel 2023) e che il governo tedesco nel 2023 l’ha portata al 2% del PIL, sembra evidente che il livello più modesto dei sussidi industriali tedeschi si dovrebbe associare a decisioni sovrane di cui il governo cinese non porta ovviamente alcuna responsabilità.
Riguardo agli Stati Uniti, possiamo dire che, da una parte, i sussidi previsti dall’Inflation Reduction Act peseranno all’incirca per uno 0,28% annuo del PIL per il decennio 2022-2032, contribuendo a ridurre in modo significativo il gap rispetto alla Cina; e che, dall’altra, la spesa militare statunitense vale ben il 3,5% del PIL.
Per entrambi i Paesi occidentali esiste dunque potenzialmente la capacità fiscale per pareggiare i sussidi cinesi. Ne manca però la volontà, perché i governi occidentali preferiscono al momento finanziare la produzione militare a scapito di quella civile. Di questo, ovviamente, non si può ritenere responsabile il governo cinese.
Ecco che, in conclusione, risulta evidente come l’esperienza dello sviluppo economico cinese rappresenti un’importante opportunità per la transizione climatica in Europa, e non soltanto perché rende disponibili sul mercato veicoli elettrici competitivi, ma per motivazioni più generali e profonde.
Ad oggi la Cina è l’unica tra le principali aree economiche mondiali a collocarsi in modo convincente sul sentiero della neutralità climatica (Macheda, 2023). Avremmo quindi molto da imparare dalle politiche economiche di quel Paese. In particolare, se le imprese private cinesi, al contrario delle imprese europee, beneficiano di input a costi ridotti offerti loro dalle imprese pubbliche, è perché i governi dell’UE hanno smantellato quasi completamente la presenza pubblica nei settori industriali di base, mentre le residue imprese di proprietà statale seguono le medesime logiche di profitto dei monopoli privati.
La privatizzazione dei monopoli pubblici in Europa è andata di pari passo con lo smantellamento della capacità industriale interna, aprendo una fase economica in cui la rendita immobiliare e finanziaria hanno rappresentato il motore principale dell’accumulazione, la crescita dei consumi è stata soddisfatta prevalentemente da merci importate, gli investimenti industriali sono caduti ai minimi storici e la residua produzione manifatturiera è stata destinata principalmente all’esportazione.
Oggi questo modello si rivela insostenibile perché i Paesi europei si sono accorti di non possedere più la capacità industriale per realizzare quegli investimenti reali, a beneficio del mercato interno, che sono l’ingrediente indispensabile della transizione climatica.
È un fatto ben noto della storia industriale italiana che negli anni Sessanta la nazionalizzazione dell’Enel abbia realizzato l’obiettivo strategico di razionalizzare l’industria elettrica per ottenere quelle economie di scala che potessero ridurre i costi dell’elettricità a beneficio di un apparato industriale largamente privato, contribuendo in modo significativo al boom economico italiano.
In quel caso, il monopolista pubblico ha operato in modo efficiente non per massimizzare i propri profitti, ma per perseguire un obiettivo politico di interesse generale.
Le imprese pubbliche cinesi, in sostanza, non fanno niente di diverso da questo. Soltanto, lo fanno su grande scala e, per molti aspetti, lo fanno in modo molto più efficace, perché operano all’interno di un contesto istituzionale dove il governo persegue la massimizzazione del benessere sociale, e non quella dei profitti monopolistici privati.
Il governo cinese sta agendo con decisione e nel momento giusto, poiché la transizione climatica richiede un fortissimo aumento degli investimenti reali. Mc Kinsey ha stimato che per raggiungere la neutralità climatica entro il 2050 servirà, a livello globale, un investimento annuale aggiuntivo di 3mila miliardi di dollari, pari a metà dei profitti annuali di tutte le imprese del mondo, e a un quarto di tutte le tasse pagate annualmente livello globale.
In pratica, gli investimenti reali annuali dovranno aumentare del 60% rispetto ad oggi e restare su questi livelli più alti per 30 anni.
Se questi sono i termini della sfida, mobilitare tutte le risorse necessarie per raggiungere lo scopo, come sta facendo il governo cinese, è la cosa giusta da fare. Ai fini della transizione climatica il problema non sono i sussidi cinesi troppo alti, ma i sussidi occidentali troppo bassi, e ancora di più l’incapacità politica dell’Occidente di mobilitare tutte le risorse della società intorno ad un obiettivo così importante e così chiaramente definito.
Al contrario, la classe dirigente europea ha deciso di impiegare le limitate risorse pubbliche per finanziare prioritariamente il riarmo conseguente alla propria politica estera orientata allo scontro.
La possibilità di perseguire una politica di pace è sempre a portata di mano: basta dimostrare di volerlo, aprendosi ad una cooperazione sincera con tutti i Paesi. Grazie alla cooperazione sarà sempre possibile affrontare e risolvere i problemi di sovrapproduzione industriale nei settori legati alle tecnologie verdi che potranno eventualmente determinarsi nel lungo periodo.
Ma, data la portata dell’impegno richiesto dalla transizione climatica, non ha senso parlare adesso di “eccesso di capacità produttiva” in questi settori. Infatti, secondo le stime dell’Agenzia internazionale per l’energia, la domanda globale di veicoli elettrici raggiungerà i 45 milioni di unità entro il 2030, aumentando di 4,5 volte rispetto al 2022, e la domanda annuale di capacità fotovoltaica aggiuntiva raggiungerà, nello stesso anno, 820 gigawatt, circa quattro volte il livello del 2022.
Date queste proiezioni sulla domanda, il compito principale dei governi è di contribuire alla massima espansione dell’offerta, non di creare ostacoli artificiali che ne rallentino la crescita.
Se la Commissione è giustamente preoccupata di tutelare i posti di lavoro nell’industria automobilistica europea, la soluzione migliore dal punto di vista economico è quella di aprirsi alla cooperazione, favorendo gli investimenti dei produttori cinesi sul territorio europeo e richiedendo, al tempo stesso una maggiore apertura cinese agli investimenti europei, in uno spirito di reciprocità, come il governo cinese sta chiedendo da anni. Gli autoveicoli prodotti localmente, grazie ai minori costi di trasporto, sarebbero più convenienti di quelli importati.
Inoltre, la realizzazione di collaborazioni e joint-venture tra produttori europei e cinesi attiverebbe quel travaso di conoscenze che è stato fondamentale in Cina per avviare lo sviluppo industriale e tecnologico, e che potrebbe fluire oggi in senso inverso, dalla Cina verso l’Europa, a beneficio della nostra transizione climatica.
In definitiva, una rinnovata presenza di imprese pubbliche efficienti nei settori industriali di base, il massimo supporto governativo per la transizione climatica, anche attraverso sussidi mirati, e una politica di cooperazione e di pace nel rispetto del diritto internazionale rappresentano oggi le chiavi per il successo industriale, per la transizione climatica e per la prosperità futura dell’umanità.
Saranno capaci i governi europei di comprenderlo?
Bibliografia
Bickenbach F. et al. (2024), Foul Play? On the Scale and Scope of Industrial Subsidies in China, Kiel Policy Brief, Aprile 2024.
DiPippo et al. (2022), Red Ink. Estimating Chinese Industrial Policy Spending in Comparative Perspective, Center for Strategic & International Studies, Maggio 2022.
Gerbaudo P. (2024), The Electric Vehicle Developmental State, Phenomenal World, Aprile 2024.
Macheda F. (2023). China’s Road towards Decarbonization: Unrealistic Promise or a Credible Commitment? Forum for Social Economics, 1–29.
Wang X., Zhao W., Ruet, J. (2022). Specialised vertical integration: the value-chain strategy of EV lithium-ion battery firms in China. International Journal of Automotive Technology and Management, 22(2), 178.
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