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31/12/2020

Capisaldi 2020

Dieci anni a fare copia/incolla di notizie e sentirli tutti, non perchè si invecchia, ma perchè le contraddizioni del modo di produzione capitalista sono deflagrate nella vita delle persone comuni in modo molto più violento, profondo e inatteso rispetto agli acciacchi dell'età.

Sì viveva già male, l'ingresso nel secondo decennio del nuovo millennio, ha reso manifesto che andando avanti così sì vivrà sempre più di merda; e infatti tra clima andato a ramengo e pandemia da Covid-19 non si vede una fine, o meglio si vede: quella sotto tre metri di terra.

Sì dirà "è il destino di ogni essere vivente" ed è vero, ma non è destino e nemmeno sta nella logica di ogni essere vivente accelerare i tempi del trapasso che, invece, il capitale ha palesato di voler spingere in scia ai primati olimpionici di Usain Bolt.

Tutto sto cappello per introdurre il fatto che, per la prima volta a mia memoria, la vita di merda è riuscita a mettere in ombra tutta la roba di qualità che ho scoperto/riscoperto in questo anno funesto, ed è veramente tanta, al pari di tempi decisamente andati.

Siccome mi viene difficile fare una cernita finisco per andare a braccio.

Lou Reed - 1973 - Berlin probabilmente disco dell'anno e pezzo dell'anno con How do you think it feels.

Deep Purple - 1970 - In Rock madonna santa, non capisco perchè in passato non mi fosse piaciuto.

King Crimson - 1969 - In The Court Of The Crimson King una delle migliori dimostrazioni, sul versante artistico, che il capitale è in crisi da mezzo secolo ormai e sì è trascinato dietro tutto il cangiante spettro espressivo che ha creato nella società. Per essere più chiari, ascolti musica così e ti domandi che senso ha tutto quanto è uscito, almeno nel medesimo genere, dopo).

Kyuss - 1992 - Blues For The Red Sun da anni coltivo l'ipotesi che gli anni a cavallo tra il 1988 e il 1994 siano stati un lasso di tempo irripetibile per la musica pesante statunitense, un magma come da definizione sotterraneo che portava in dote tutte le caratteristiche di quella che sarebbe potuta diventare una autentica new wave of US heavy metal. Le necessità di profitto dell'industria discografia fece andare la storie su un binario diverso e l'individualismo connaturato a quasi ogni musicista fece il resto. Un occasione clamorosamente mancata che ha spalancato le porte alla sterilità artistica degli ultimi due decenni.

Talking Heads - 1978 - More Songs About Buildings And Food e 1980 - Remain In Light la forza della genialità che ti conduce ad apprezzare sonorità che formalmente non ti piacciono.

Lynyrd Skynyrd - 1973 - "(Pronounced 'Lĕh-'nérd 'Skin-'nérd)" la riscoperta più intensa, non dell'anno, ma da quando ho preso a rispolverare roba che mi è piaciuta o per cui sono uscito di testa più di un decennio fa.

Lo spiegone inizia a farmi venire la barba bianca quindi, tagliando con l'accetta, oltre i titoli poc'anzi citati sono risultati imprescindibili i Rush, i Sonic Youth (che già mi avevano dato grandi soddisfazioni), i Cream (in cui ho finalmente fatto conoscenza con il Mr. Slow Hand autentico, non la loffa degli ultimi decenni...), i Mr. Bungle (migliore ri-uscita metal per quel che mi riguarda - mi hanno fatto quasi gridare al miracolo!), Bruce Springsteen (autore di un disco intenso e di rara onestà artistica, tra le cui note si possono trovare molti spunti con cui leggere la decadenza statunitense) e Tim Buckely.

Ho certamente dimenticato diverse cose (gli Swans per esempio...), tuttavia le ultime righe ci tengo a dedicarle a un paio di pacchi di cui, in un annata così del cazzo, avrei fatto a meno; mi riferisco ai Pearl Jam che procedono sulla rotta tracciata da un pilota automatico che fa invidia pure a Mario Draghi, e ai Testament, probabilmente la peggiore uscita dell'anno a cui mi sono approcciato.

Questo è tutto, o meglio quel poco che c'è stato di positivo nell'anno che più mestamente del solito si sta concludendo.

Per gli 2021 gli auspici stanno a zero, l'unica cosa sensata da augurarsi e per cui lavorare è che almeno qualche padrone vada col culo per terra.

Ostracized

Keynesismo e Marxismo a confronto su disoccupazione e crisi

di Domenico Moro

La crisi del Covid-19 ci pone davanti ad un aumento della disoccupazione di massa. Secondo l’Istat nel III trimestre del 2020, rispetto allo stesso periodo del 2019, gli occupati sono diminuiti di 622mila unità (-2,6%), fra questi i dipendenti sono diminuiti di 403mila unità e gli indipendenti di 218mila unità. I disoccupati[1] sono invece aumentati di 202mila unità (+8,6%) raggiungendo la cifra di 2milioni 486mila. Anche gli inattivi – cioè quelli che comprendono i cosiddetti “scoraggiati” che neanche provano a cercare lavoro – sono cresciuti di 265mila unità (+2%)[2]. Bisogna, inoltre, aggiungere che l’aumento dei disoccupati e degli inattivi avviene in un contesto di blocco dei licenziamenti. Ad essere state colpite dall’aumento della disoccupazione sono state, fino ad ora, le figure precarie dei lavoratori a tempo determinato. Secondo alcune stime[3], l’eliminazione del blocco dei licenziamenti potrebbe generare un milione di disoccupati in più, portando il loro numero totale a oltre 3,5 milioni, una cifra impressionante, che metterebbe a dura prova non solo la tenuta del welfare ma anche la tenuta sociale e politica del sistema.

Comunque, la situazione occupazionale italiana era tutt’altro che rosea anche prima del Covid-19. L’economia italiana è stata una delle più lente nella Ue a recuperare dalla crisi precedente. Nel 2019, il numero degli occupati (22milioni 687mila) era ancora leggermente inferiore al picco pre-crisi, registrato nel 2008 (22milioni 698mila)[4]. Anche nel confronto con il resto della Ue la situazione italiana è tra le peggiori: il tasso di occupazione (15-64 anni) in Italia nel 2019 era del 59%, mentre era del 68,4% nella Ue a 27 e del 68% nell’area euro, con la Germania al 76,7%, la Francia al 65,5%, e la Spagna al 63,3%[5].

Di fronte a questi dati appare chiaro quanto il tema della disoccupazione sia fondamentale nello scenario politico italiano. Per questo è importante avere una chiara visione teorica della disoccupazione e delle sue cause. A tale scopo partiamo dalla teoria borghese mainstream che individua come causa principale della disoccupazione la rigidità del mercato del lavoro, ossia la difficoltà a ridurre il costo del lavoro e i salari.

I neoclassici e la critica keynesiana

Lo scambio tra maggiore flessibilità del lavoro e maggiore occupazione, su cui si sono basate le politiche del lavoro degli ultimi decenni, affonda le radici nella teoria neoclassica, che andava per la maggiore prima degli anni ‘30 del '900 ed è stata ripresa successivamente dal neoliberismo. Secondo i neoclassici la disoccupazione è impossibile se non come fenomeno transitorio. Questo per due ragioni. La prima starebbe nel fatto che, se nel mercato del lavoro esistono lavoratori disposti a lavorare che non trovano lavoro, la pressione che questi lavoratori esercitano sul mercato del lavoro farà cadere il salario fino a quando le assunzioni saranno più convenienti per gli imprenditori e l’intera disoccupazione verrà assorbita. La seconda, la cosiddetta legge degli sbocchi, dice che qualsiasi produzione dà luogo a una domanda equivalente, per cui gli imprenditori, se aumentassero la produzione, avrebbero la possibilità di collocarla sul mercato. Quindi la disoccupazione porterebbe alla riduzione dei salari che a sua volta spingerebbe i datori di lavoro ad assumere i disoccupati e ad aumentare la produzione, creando così una domanda equivalente. In questo modo l’espansione economica dovrebbe continuare fino a raggiungere la piena occupazione. Se così non avviene, la responsabilità, per i neoclassici, è del movimento sindacale che, mettendo fuori gioco il meccanismo della concorrenza, impedisce alla disoccupazione di provocare la caduta dei salari. La realtà degli ultimi decenni dimostra che il sistema capitalistico non funziona esattamente così, in quanto un’alta disoccupazione può, anzi deve, sussistere insieme a un abbassamento del costo del lavoro e dei salari.

Come abbiamo detto, la dottrina neoclassica andò per la maggiore fino agli anni ’30, quando apparve la teoria keynesiana. Secondo Keynes non è l’azione dei sindacati a produrre la disoccupazione ma la struttura stessa del capitalismo[6]. Innanzi tutto Keynes precisa che non è la caduta dei salari monetari che spinge i capitalisti ad assumere ma è la caduta dei salari reali. Ma anche se calassero i salari reali, l’aumento di offerta non troverebbe un aumento di domanda equivalente. Questo perché l’aumento di reddito, generato dall’aumento della produzione e dell’occupazione, fa aumentare i consumi ma non in modo equivalente, perché solo una parte del nuovo reddito viene spesa in consumo, il resto viene destinato al risparmio. La domanda globale aumenta quindi meno rispetto all’offerta globale. Inoltre, se l’offerta cresce più della domanda, i prezzi tendono a calare fino a quando l’eccesso di offerta viene eliminato, ristabilendo la situazione di partenza.

La disoccupazione segnala una situazione di squilibrio, che, secondo la teoria neoclassica, può essere corretto dagli stessi meccanismi di mercato. Al contrario, secondo Keynes, il mercato non è in grado di determinare da sé la piena occupazione.

Visto che il mercato non è in grado di riassorbire la disoccupazione, Keynes esamina tre strumenti di politica economica. I primi due, di competenza dell’autorità monetaria, sono l’aumento della quantità di moneta e le operazioni di mercato aperto, cioè l’acquisto di titoli nei mercati di borsa, che dovrebbero condurre all’abbassamento del tasso d’interesse e quindi facilitare gli investimenti e l’occupazione. Il terzo strumento è l’intervento dello Stato attraverso la spesa pubblica. Keynes si dichiara scettico sui primi due strumenti, perché nei periodi di depressione il saggio di profitto è basso e, anche se vengono offerti finanziamenti a tassi ridotti, questo può non essere sufficiente a invogliare i capitalisti a fare nuovi investimenti.

Dunque, l’unico intervento efficace è quello pubblico, mediante l’acquisto di beni e servizi, il cosiddetto moltiplicatore. Secondo Keynes, si può aumentare la domanda statale anche senza fare ulteriore debito pubblico, mediante l’aumento dell’imposizione fiscale, che, con maggiori entrate, vada a compensare l’aumento delle uscite. In questo modo, si trasferirebbero risorse dal settore privato, che ha una bassa propensione di consumo, al settore pubblico, che ha invece ha un’alta propensione di consumo. Keynes, però, non prevedeva che l’intervento pubblico si mantenesse durevolmente, ma che venisse eliminato non appena il meccanismo di accumulazione si fosse rimesso in moto.

L’aspetto decisivo è che, per Keynes, l’intervento dello Stato è funzionale alla sopravvivenza del capitalismo – in un momento molto particolare, quello degli anni ’30 in cui si temeva un collasso del sistema – e non alla sua trasformazione in senso socialista.

Critica al Keynesismo

Il problema principale della teoria keynesiana è che l’aumento della domanda da parte dello Stato può dare momentaneo respiro al capitale ma non ne risolve i limiti strutturali. Come riconosce lo stesso Keynes, alla base della crisi e dell’aumento della disoccupazione c’è la scarsa redditività degli investimenti. Da un punto di vista marxista, ciò vuol dire che al di sotto della crisi della domanda c’è la caduta tendenziale del saggio di profitto. Questo comporta che la crisi non è mai semplicemente una crisi da sottoconsumo ma è essenzialmente una crisi di sovraccumulazione di capitale. Ciò significa che è stato accumulato troppo capitale affinché questo dia il profitto aspettato dai capitalisti e ogni nuovo investimento è sempre meno redditizio.

Quindi, se non si interviene sulla struttura produttiva non vengono meno le cause della crisi e l’intervento statale ha un effetto momentaneo e, in caso di grave e perdurante sovraccumulazione di capitale, deve essere ripetuto all’infinito, sostenendo così artificialmente l’accumulazione di capitale. La conseguenza è un debito pubblico crescente, come abbiamo visto in diversi momenti della storia recente del capitalismo, ad esempio in Paesi come l’Italia e il Giappone. Questo anche perché praticare una imposizione fiscale che compensi con maggiori entrate l’aumento delle uscite è politicamente difficile da perseguire, anche per l’opposizione dei capitalisti. Del resto, se il problema è rappresentato dalla bassa redditività del capitale, una imposizione fiscale maggiore può annullare l’effetto positivo dell’aumento della domanda complessiva sul profitto. Dunque, nei fatti è difficile aumentare le spese dello Stato senza crescita dell’indebitamento pubblico.

I capitalisti, inoltre, sono contrari all’intervento dello Stato, sia come imprenditore sia come erogatore di welfare, perché ciò porta alla diminuzione della disoccupazione e all’aumento dei salari, che deprimono ulteriormente il saggio di profitto.

L’unica soluzione che, nell’ambito dei rapporti di produzione vigenti, permette di riprendere il ciclo d’accumulazione con un saggio di profitto ristabilito a livelli adeguati è la distruzione dell’eccesso di capitale, che ne riduce la sovraccumulazione. Infatti, le politiche keynesiane si sono dimostrate realmente efficaci solo in concomitanza di eventi come le guerre.

Queste, in primo luogo, giustificano spese enormi e a debito da parte dello Stato; in secondo luogo, la spesa militare va direttamente alle aziende e non costituisce una spinta all’aumento dei salari, come il welfare. Soprattutto, le guerre determinano una distruzione di capitale sotto forma di mezzi di produzione e infrastrutture, giustificando un aumento delle spese per la ricostruzione e ristabilendo le condizioni per un nuovo ciclo di accumulazione di capitale. Le politiche keynesiane messe in atto dal presidente USA Roosevelt durante gli anni ’30 non risolsero la crisi, tanto che, dopo pochi anni, ci fu una ricaduta nella depressione. Fu solo lo scoppio della guerra mondiale a far uscire gli USA dalla grande depressione e a permettere il lungo periodo di sviluppo detto dei “Trenta anni gloriosi”. Anche nel periodo successivo la crescita statunitense è stata mantenuta mediante le ingenti spese militari, tanto da far parlare di keynesismo militare.

La soluzione alla crisi, dal punto di vista del capitale, sta, quindi, nella “distruzione creatrice” di cui parla Schumpeter, che riprende il concetto da Marx. In pratica, è quanto sta accadendo ora.

La pandemia permette la distruzione di capitale, un po’ come farebbe una guerra, eliminando capitali troppo piccoli e non competitivi e favorendo, attraverso centralizzazioni e concentrazioni, i grandi capitali che, oltre ad avere, grazie alle maggiori dimensioni, la possibilità di sopravvivere alla crisi, vengono anche favoriti dallo Stato, che si assume il ruolo di facilitatore alla concentrazione di capitale attraverso sussidi e aumenti di capitale alle imprese più forti.

Ritornando alla disoccupazione, l’intervento dello Stato, in ambito capitalistico, può in certe condizioni ridurre la disoccupazione. Queste condizioni però non sono puramente economiche, ma sono soprattutto politiche. Ad esempio l’intervento statale subito dopo la seconda guerra mondiale fu sollecitato oltre che dalle lotte operaie, anche dal confronto competitivo con l’URSS Inoltre, in Italia ad esempio, l’intervento statale era non solo rivolto all’acquisto di beni e servizi ma consisteva anche nella produzione di beni e servizi, attraverso le partecipazioni statali, il che contribuiva a innalzare il tasso di occupazione specie al Mezzogiorno. Quindi, l’intervento statale avveniva sia dal punto di vista della domanda sia da quello dell’offerta. Tutte condizioni che oggi mancano.

Ad ogni modo, quel che va sottolineato è che all’interno del capitalismo non si può arrivare alla piena occupazione neanche nelle fasi di espansione economica.

La legge generale dell’accumulazione: la disoccupazione come aspetto necessario al capitalismo

Marx nel Capitale ha come scopo l’individuazione delle leggi che caratterizzano il movimento del capitale. Una delle leggi più importanti è la legge dell’accumulazione capitalistica, che ha importanti effetti anche sulla popolazione della classe lavoratrice[7]. L’aspetto su cui la legge incide maggiormente è la composizione del capitale, ossia la proporzione in cui il capitale si divide tra capitale variabile (forza lavoro) e capitale costante (mezzi di produzione, cioè macchinari, materie prime, edifici, ecc.). La composizione di capitale si distingue in composizione di valore e composizione tecnica. La prima indica il rapporto tra il valore del capitale costante e il valore del capitale variabile, la seconda il rapporto tra la quantità di mezzi di lavoro impiegati e il numero di lavoratori addetti. La prima viene determinata dalla seconda. Se il capitalista introduce una macchina più efficiente ed espelle operai, avremo un aumento della composizione tecnica cui corrisponde un aumento della composizione di valore. Composizione tecnica e composizione di valore sono strettamente correlate. Marx le definisce insieme con un unico termine: composizione organica di capitale.

La tendenza del capitalismo è la continua accumulazione di capitale, cioè l’allargamento ininterrotto del processo produttivo e quindi l’aumento della forza lavoro e dei mezzi di produzione impiegati. Ad ogni fase di accumulazione il capitale totale aumenta, ma con una importante differenza: non tutte le parti del capitale aumentano allo stesso modo. La parte che va in capitale variabile aumenta in modo inferiore rispetto alla parte che va in capitale costante. In questo modo si determina un aumento della composizione organica di capitale, che, come abbiamo visto altrove[8], sta alla base della legge della caduta del saggio di profitto. Ma l’aumento della composizione organica sta anche alla base di un’altra legge, quella della popolazione specifica del modo di produzione capitalistico.

Infatti, visto che la parte variabile aumenta ma sempre in misura inferiore a quella dei mezzi di produzione assistiamo a due tendenze. Da una parte, cresce la domanda di lavoro, anche perché nuovi settori di produzione vengono creati dallo sviluppo capitalistico. Dall’altra parte, diminuiscono i lavoratori impiegati dal singolo capitale. Dunque, il movimento del capitale produce in continuazione una popolazione operaia eccedente, che viene definita da Marx esercito industriale di riserva. La produzione di una sovrappopolazione, ossia di una popolazione di disoccupati, rappresenta la condizione d’esistenza del modo di produzione capitalistico. Un certo grado di sovrappopolazione è necessario al capitale per varie ragioni. La prima risiede nel fatto che, senza la pressione che i disoccupati esercitano sugli occupati, i salari di questi ultimi crescerebbero, riducendo il plusvalore e quindi il profitto. Di fatto, per quanto riguarda il prezzo della forza lavoro, la legge della domanda e dell’offerta è profondamente condizionata dalla sovrappopolazione relativa. Questa situazione è permanente perché i capitali supplementari che fanno ingresso nella produzione non riescono ad assorbire per intero la quota di lavoratori espulsi dal processo produttivo a seguito delle innovazioni tecnologiche. La seconda risiede nelle modalità di movimento dell’accumulazione del capitale che è estremamente elastica. Infatti, la produzione può variare e nuovi capitali possono essere investiti nelle fasi espansive del ciclo o con lo sviluppo di nuovi settori, da cui la necessità di forza lavoro immediatamente disponibile a basso prezzo.

Quindi, il movimento del capitale ha un carattere duplice, in quanto l’accumulazione, da una parte accresce la domanda di lavoro e, dall’altra parte, espellendo lavoratori dalla produzione, accresce l’offerta di lavoro.

L’aumento della domanda di lavoro non si traduce necessariamente in un numero maggiore di lavoratori impiegati dal capitale, perché la pressione dei disoccupati sugli occupati obbliga questi ultimi a fluidificare, come dice Marx, una maggiore massa di lavoro, cioè li obbliga al lavoro straordinario.

Ciò avviene perché ogni capitalista ha interesse a spremere una quantità uguale o superiore di lavoro da un numero inferiore di lavoratori con salari orari inferiori o uguali. Il che è come dire che il capitale ha interesse a sfruttare più che può il lavoratore già impiegato piuttosto che assumere nuovi lavoratori. In questo modo, la crescita della sovrappopolazione relativa diventa più veloce della rivoluzione tecnica del processo produttivo, sospinta dal progresso dell’accumulazione e dalla diminuzione della parte variabile in proporzione a quella costante.

Da quanto abbiamo detto, si ricava la legge generale dell’accumulazione capitalistica: quanto più è grande la ricchezza sociale – cioè la grandezza e la capacità d’accrescimento del capitale – tanto più grande è l’esercito industriale di riserva. La ricchezza sociale, accumulata in modo capitalistico, determina nello stesso tempo l’aumento della produttività e la crescita della classe lavoratrice da un lato e, dall’altro, la crescita dell’esercito industriale di riserva. Gli stessi fattori che accrescono la ricchezza sociale accrescono anche la sovrappopolazione e la miseria. Questa è la tendenza intrinseca al modo di produzione capitalistico. Tuttavia, come ricorda Marx, questa legge, come ogni altra legge, va intesa in senso dialettico, cioè può essere alterata da circostanze storiche intervenienti, tra cui l’azione della classe lavoratrice e dello Stato, ma anche da fattori come le tendenze demografiche della popolazione.

Conclusioni, un intervento statale di tipo particolare

La piena occupazione è impossibile in ambito capitalistico. È possibile che la disoccupazione si riduca a un livello basso o molto basso, ma perché questo accada devono concorrere più circostanze: da una fase espansiva del ciclo economico a rapporti di forza favorevoli al lavoro salariato. Sicuramente condizioni non presenti in questa fase.

La piena occupazione è possibile solo modificando i rapporti di produzione e passando da una produzione privata e per il profitto ad una produzione sociale e per la soddisfazione dei bisogni.

Il problema, quindi, non è solo economico ma è soprattutto politico. Questo vuol dire che la disoccupazione è risolvibile solamente in un contesto socialista. Questo deve essere ben chiaro.

Il problema che si pone oggi è quali sono le parole d’ordine che debbano essere agitate tra i lavoratori in una fase politica non rivoluzionaria e di crisi profonda e strutturale. Abbiamo visto tra gli anni ’80 e gli anni ’90, che il capitalismo, arrivato a un certo livello di sovraccumulazione, ha fatto in modo di smantellare la produzione statale, trasformandola in privata, per avere nuove occasioni di profitto. Oggi, per la prima volta dopo trenta anni si parla di nuovo di intervento statale, ma si tratta di un intervento organizzato in modo tale da evitare il controllo dello Stato su pezzi di economia e persino la sua partecipazione alla governance delle imprese. L’ingresso del capitale statale è funzionale a quello privato, attraverso le ricapitalizzazioni pubbliche delle imprese private. La massa di denaro pubblico che verrà resa disponibile a seguito della pandemia andrà a favorire l’accumulazione di capitale. Una parte delle imprese verrà distrutta mentre un’altra parte verrà rafforzata. In questo quadro non possiamo che aspettarci un aumento della disoccupazione. Quale potrebbe essere, dunque, la proposta alternativa per combattere la disoccupazione? L’unica proposta, atta a riassorbire parte consistente della disoccupazione, sarebbe che lo Stato intervenga direttamente nella produzione di beni e servizi sia al di fuori che all’interno del mercato. Ma questo intervento deve avvenire mediante imprese che siano enti economici e non società per azioni quotate in borsa, come sono ora le cosiddette imprese di Stato. Enel, Eni, Leonardo e Fincantieri sono di fatto delle public company sul modello anglosassone e rispondono al criterio dell’ottimizzazione dei profitti come tutte le imprese private. Inoltre, l’intervento dello Stato dovrebbe anche prevedere almeno un certo grado di programmazione.

Si tratta di una proposta che, ne siamo consci, richiede rapporti di forza che oggi non ci sono e la cui attuazione dovrebbe fare i conti con la natura non neutrale dello Stato, che è sempre della e per la classe economicamente dominante. Inoltre, non possiamo dimenticare che una tale proposta cozzerebbe contro le regole europee, a partire da quella del divieto agli aiuti di Stato, rendendo necessaria l’uscita contestuale dalla Ue e dall’euro.

Del resto, la questione della modificazione del modo di produrre è strettamente connessa con il tema della conquista del potere politico e della macchina dello Stato da parte della classe lavoratrice.

Malgrado tutto ciò, ha senso, già da ora, porre la questione della modalità di organizzazione della produzione, il che implica dare risposta a tre domande fondamentali: cosa, come e per chi produrre. Solo in questo modo possiamo collegare la tattica politica dell’oggi alla prospettiva strategica della realizzazione del socialismo.

Note:

[1] Secondo la classificazione Istat, sono disoccupate le persone non occupate che nelle quattro settimane precedenti la settimana di riferimento hanno effettuato almeno una azione di ricerca di lavoro e sono disponibili a lavorare entro le due settimane successive; oppure che cominceranno a lavorare entro tre mesi, ma sarebbero disponibili a lavorare entro le due settimane successive qualora fosse possibile anticipare l’inizio del lavoro. I non occupati, che non hanno effettuato almeno una azione di ricerca di lavoro nei tempi suddetti, vengono classificati tra gli inattivi.

[2] Ministero del lavoro, Istat, Inps, Inail, Anpal, Nota trimestrale sulle tendenze dell’occupazione, III trimestre 2020, 18 dicembre 2020.

[3] D. Colombo, “Lavoro, un milione di occupati a rischio appena scade il divieto di licenziare”, Il Sole 24 ore. https://www.ilsole24ore.com/art/lavoro-milione-occupati-rischio-gelata-arrivo-appena-scade-divieto-licenziare-ADHuPJj

[4] Eurostat, Employment by sex, age and citizenship.

[5] Employment rates by sex, age and citizenship [lfsa_ergan]

[6] J. M. Keynes, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, Utet, Novara 2013.

[7] K. Marx, Il capitale, libro I, cap. XXIII, “La legge generale dell’accumulazione capitalistica”, Edizioni Newton Compton, Roma 1996, pp. 444-513.

[8] https://www.lordinenuovo.it/2020/12/10/le-multinazionali-in-italia/

Fonte

Covid-19, vaccini e altro. La Germania, appena può, balla da sola

Rispondendo alle polemiche sull’acquisto unilaterale di vaccini oltre la quota concordate in sede europea, il ministro della Sanità tedesco Jens Spahn, ha affermato che la Germania ha optato per una strategia europea comune di approvvigionamento, ma la lenta burocrazia dell’Agenzia Europea per i Farmaci con sede ad Amsterdam ha irritato i funzionari tedeschi, ragione per cui la decisione di anticipare la data di approvazione del vaccino sarebbe arrivata dopo le pressioni di Berlino e di altre capitali europee.

“Ogni paese avrebbe potuto scegliere di acquistare il vaccino da solo”, aveva detto Spahn intervenendo al Bundestag il 16 dicembre scorso. “Ma abbiamo preso una decisione molto consapevole di percorrere questa strada insieme a livello europeo, perché insieme siamo più forti”.

Tuttavia, solo pochi giorni dopo quella dichiarazione, il governo tedesco ha deciso di garantirsi da solo una fornitura di altri 30 milioni di dosi di vaccino Pfizer/BioNTech (quest’ultima è una società tedesca, ndr) con un contratto bilaterale.

Il settimanale Der Spiegel è partito alla carica a testa bassa accusando la Commissione Europea di aver comprato “troppo poco, troppo tardi e a volte da produttori sbagliati”. L’UE non ha effettuato il suo ordine con Pfizer/BioNTech fino a novembre, dopo che il suo vaccino era diventato il primo ad essere approvato dalle autorità di regolamentazione occidentali.

Un ordine per 300 milioni di dosi con Sanofi, secondo Der Spiegel, si è rivelato una scommessa sbagliata: l’azienda francese ha posticipato la possibile approvazione per il suo candidato vaccino alla fine del 2021. Non si prevedono ulteriori 225 milioni di dosi di vaccino ordinate alla tedesca CureVac fino alla prossima estate. Mentre il vaccino Moderna, di cui la ommissione ha ordinato 80 milioni di dosi, dovrebbe essere autorizzato dall’EMA nella prima settimana di gennaio.

Il ministro della Sanità tedesco Spahn ha affermato di sperare che il 60% della popolazione del suo paese (83 milioni di abitanti) possa ricevere i due vaccini necessari per ottenere l’immunizzazione entro la fine dell’estate 2021.

Rispondendo ad una domanda dell’agenzia Agi, il ministero della Sanità tedesco ha replicato alle polemiche sull’acquisto unilaterale di 30 milioni di dosi extra di vaccini. Secondo Spahn gli acquisti “nazionali” del vaccino anti-Covid sono previsti dall’accordo-quadro dell’Unione europea.

La Germania formalmente insiste nell’affermare di essersi sempre mossa all’interno di una logica europea: “No ai nazionalismi del vaccino”, aveva affermato lo stesso Spahn, che in un colloquio con la Bild Zeitung ha ribadito che “le decisioni si sono prese insieme nell’Ue, in nome della solidarietà”.

Le accuse rivolte da parte della Bild Zeitung al governo tedesco sono quelle di non essersi accaparrato una quantità sufficiente di vaccini. In sostanza, secondo il quotidiano, “il governo federale troppo a lungo si è affidato all’Ue”, tanto che “fino a giugno” il vaccino potrebbe rimanere “merce rara, persino per i gruppi a rischio”.

Una portavoce del ministero della Sanità tedesco, però ha così precisato la posizione di Berlino: “Parallelamente alla decisione di promuovere le aziende tedesche nella ricerca per un nuovo vaccino, sono state permesse anche distribuzioni nazionali. Con i partner europei l’intesa è che abbiano priorità le distribuzioni derivanti dai contratti europei”.

Dunque, il fatto che la tedesca BioNTech sia socia della Pfizer è diventato il viatico per passare alle vie di fatto nell’acquisto di vaccini indipendentemente dalla commessa generale fatta a livello europeo.

La Commissione Ue, interpellata dall’Agi fa sapere che gli aggiustamenti nella distribuzione dei vaccini sono possibili tra gli Stati membri in base alle loro necessità e richieste, dato che “alcuni Paesi potrebbero essere interessati ad ottenere un maggior numero di dosi, mentre altri no”.

Il “cuore della strategia” vaccinale nell’Ue, ha dichiarato il portavoce della Commissione, è quello di mantenere “un approccio unito” e che la distribuzione avvenga basandosi sulla dimensione delle rispettive popolazioni: pertanto, “la distribuzione avverrà nell’ambito degli accordi di acquisto anticipato”.

Il piano è chiaro: l’intesa raggiunta “ha riservato 200 milioni di dosi ai cittadini europei” e offre adesso “un’opzione per acquistare fino a 100 milioni di dosi facoltative”, come annunciato da Bruxelles.

Ma su quante dosi di vaccini anti-Covid potrà contare effettivamente la Germania? Su 55,8 milioni di dosi attraverso l’intesa a livello di Unione Europea, più le 30 milioni di dosi dell’accordo “bilaterale” con BioNTech-Pfizer e le 50,5 milioni di dosi che arriveranno dalla società Moderna.

Sommandole, alla Germania vengono assicurate 136,3 milioni di dosi (di cui 13 milioni entro il primo trimestre 2021), che basterebbero per arrivare all’immunità di gregge in Germania, ossia coprire 68,2 milioni di cittadini su una popolazione complessiva di 83 milioni.

In più ci sarebbe la quota derivante dall’opzione delle 100 milioni di dosi aggiuntive annunciate dall’Ue. Ma il problema più che la quantità sembra essere quello dei tempi delle vaccinazioni.

L’Associazione dei produttori farmaceutici tedeschi annuncia che “già a gennaio saranno disponibili molte più dosi di vaccino, perché arriveranno in Germania quantitativi sempre maggiori prenotati dallo Stato”. Secondo quanto affermato dal presidente degli industriali farmaceutici, Han Steutel, “le capacità produttive dei vaccini vengono tutte aumentate in Germania, tra l’altro nelle sedi produttive di Magonza, Idar-Oberstein, Magdeburgo, Laubheim, Dessau, Brehna e Tubinga”.

Ma anche in Germania la pandemia di Covid-19 sembra essersi estesa e intensificata. In particolare, nella giornata di martedì 29 dicembre ci sono stati 1.129 decessi. Un altro picco, dopo che il 23 dicembre scorso era stata toccata la quota di 962 morti.

Il Paese ha superato la soglia dei 32mila decessi dall’inizio della pandemia. Le vacanze di Natale non hanno rallentato la diffusione. Il paese è da giorni in un rigoroso lockdown che durerà almeno fino al 10 gennaio.

Insomma la pandemia di Covid-19 sembra non fare sconti a nessuno, neanche alla Germania. E forse è proprio questa certezza/incertezza a scatenare le spinte a coordinarsi con i partner e nel frattempo ballare da soli, per essere pronti a tutto e non dare la sensazione di debolezza e vulnerabilità che una potenza non può permettersi.

Fonte

Mentre tutti cambiavano rotta, gli Slayer incisero Divine Intervention

Il mio primo pensiero una volta entrato qua dentro è stato, oltre a trovare le parole per descrivere Remains degli Annihilator su Avere vent’anni, che mi avrebbe fatto piacere buttare giù un articolo sia su Schizophrenia dei Sepultura, sia su quest’album. Diciassette anni fa, insieme ad altri amici, mi trovavo sulla webzine con la peggiore veste grafica d’Italia e ci venne in mente di aprire delle rubriche a tema: per esempio, una che riguardava album thrash metal che neanche le band stesse avevano il coraggio di riascoltare, mentre un’altra aveva il titolo di Underrated ed era concentrata su uscite che – per chi scriveva – valevano molto più della considerazione generale che il tempo aveva riservato loro. Appunto, due titoli rappresentativi da portare in quest’ultimo contenitore potevano essere esattamente quelli che ho appena menzionato.

Che poi, underrated un cazzo. Divine Intervention fu disco d’oro in Stati Uniti e Canada, debuttò all’ottavo posto nelle classifiche degli album più venduti del proprio paese, e fece a spallate su Billboard con robe come Superunknown, The Division Bell, Jar Of Flies e – ahimè – la malsopportabile colonna sonora de Il Re Leone. Fu anche tenuto in gran considerazione dalla Def American, che pretendeva ad ogni costo da Tom Araya e soci un singolo di successo perché così andava a quei tempi. Gli Slayer gli risposero “scrivetecelo voi, noi al limite lo suoniamo” e non parlarono più con l’etichetta della futura pianificazione degli album. Anche se in futuro, sotto sotto, a qualche piccolo e non troppo fastidioso compromesso sarebbero scesi eccome. Piacque un sacco praticamente a chiunque, Divine Intervention, al punto di tornare a registrare un concerto che includesse il materiale inedito (Live Intrusion, a pochi anni da Decade Of Aggression), stavolta azzardando il salto all’edizione video. Fu anche un disco incredibilmente “mediatico”: testi controversi e che fecero rivoltare le budella e gli avvocati di un sacco di persone, immagini di arti incisi col logo della band, l’acronimo Satan Laughs As You Eternal Rot recuperato dai tempi di Show No Mercy e quella celebre foto con King che portava ancora i capelli lunghi, spezzata su un lato, ovvero quello in cui avremmo trovato incollato un certo Paul Bostaph. 

Gli Slayer avevano di fatto reclutato un nuovo batterista, che alla prima prova con un gruppo di punta dopo i trascorsi nei Forbidden, venne subito chiamato a non far rimpiangere Dave Lombardo, appunto il frammento di immagine mancante. La sua prestazione fu impressionante, forse troppo accentuata dal mixaggio di Toby Wright di cui parleremo più avanti, e solo in Mind Control – il brano più classico e lineare dell’intero lotto – si sarebbe effettivamente sentita la mancanza del membro originale. Paul Bostaph – che era già un ottimo musicista – si sarebbe mantenuto per molti anni su ottimi livelli: a partire dalla relativa semplicità con cui ha dettato il ritmo in Diabolus In Musica, passando per l’energia sprigionata a palate in God Hates Us All, o dietro alle pelli di Exodus e Testament. Oggi la sua creatività è crollata ai minimi storici e basta sentire Repentless – il disco col titolo sbagliato e non solo – per rendersene conto. Questo, mentre Dave Lombardo è ancora lì che spacca culi a piacimento, dai Dead Cross ai Suicidal Tendencies, uscendo da schemi che in Christ Illusion lo avevano legato troppo, e che solo in World Painted Blood, grazie anche alla sua scarna produzione dal sapore quasi live, aveva finalmente spezzato. Non ho una particolare preferenza fra i due, sull’eterna disputa riguardo chi meritasse maggiormente questo posto, né mi considero al pari dei più un oltranzista “pro-Lombardo”: dico semplicemente che in Divine Intervention e fino a God Hates Us All, l’ex-Forbidden si rivelò semplicemente perfetto, e che proprio qui offrì la sua prova definitiva.

Oggi, in molti hanno rivalutato al ribasso Divine Intervention, a partire dalla band che, ci avrete fatto caso, non ne ripropone quasi niente dal vivo. Si parla soprattutto dell’album con la produzione sbagliata e non sono per niente d’accordo con ciò: di base i suoni del disco del 1994 erano potentissimi, spinti da bassi capaci di mettere paura. Dopo l’intermezzo ai limiti dell’heavy metal offerto da South Of Heaven e da certe cose di Seasons In The Abyss, la sensazione di “distacco” da quel periodo condito da materiale un po’ più soft – lo sviluppo di certe mid-tempo oscure, per esempio – fu netta. Il problema nel duo Rick Rubin / Toby Wright riguardò soprattutto il mixaggio: la differenza insensata nei volumi di Killing Fields con lo scorrere dei secondi, così come la batteria eccessivamente in vetrina e la sensazione di “impastato” relativa alle chitarre; tutti elementi che non aiutarono Divine Intervention ad affermarsi come un possibile Reign In Blood parte seconda, concetto che in un primo momento aveva pubblicizzato in prima persona la sua release. Divine Intervention spartisce col terzo album della band californiana soprattutto la tendenza alla velocità e quella al ridurne il minutaggio al minimo essenziale: non ha molto altro in comune con esso, un capolavoro immortale che rappresenta al meglio il concetto di perfezione per gli amanti del metal estremo e delle sue radici, ma è ad ogni modo uno dei tre loro album che preferisco. L’altro è Hell Awaits, perché dagli Slayer ho sempre preteso ritmi alti, oscurità e cattiveria a palate; e sebbene gli ultimi lavori con Lombardo fossero ottimi, uscivano comunque da queste coordinate che ritengo non solo necessarie, ma fondamentali. Fermo restando che consiglierei a chiunque Seasons In The Abyss per avvicinarsi al loro nome. Altro aspetto importante, e per alcuni limitante, il ridotto contributo di Jeff Hanneman alla scrittura dei brani: è significativo che fosse esclusivamente sua la firma su 213, perché sarà l’unico punto di incontro con certe corazzate del passato a velocità ridotta, come Spill The BloodDead Skin Mask. Ma nonostante un’intro ed un riff promettente, il pezzo sembra funzionare a metà.

Kerry King scrisse buona parte dell’album, fra cui interamente il capolavoro Dittohead, quella del videoclip in cui non si capiva un cazzo ma si godeva ugualmente una cifra. Due minuti e mezzo di durata, una prova spaventosa da parte di Bostaph ed un riff centrale semplicemente indimenticabile: thrash metal ai limiti dell’hardcore che ricordava vagamente – per attitudine, velocità ed energia sprigionata – un’altra perla quasi contemporanea, Strenght Beyond Strenght dei Pantera. Niente, la colpa di Divine Intervention sulla lunga distanza resta quella di avere innescato lo stile definitivo degli Slayer in pilota automatico, quelli che avevano terminato di evolversi con God Hates Us All per ritornare a pestare come fabbri, ma con l’anima ovviamente invecchiata; la sua forza è quella di suonare come il loro album più violento senza tenere conto delle radici ed essere realmente un Reign In Blood parte seconda. Divine Intervention era semplicemente sé stesso ed era estremo da far paura, in un periodo storico in cui le grosse major avevano fatto a pezzi tutti i “compagni di classe” degli Slayer, dirottandoli un po’ dappertutto e nella maggior parte dei casi con scarsissimi risultati.

Me lo sono goduto ancora una volta oggi, e riesce sempre a sorprendermi: quel singolo pazzesco che era Serenity In Murder, con la sua strofa catchy inserita in una delle composizioni più veloci della tracklist; il singolare ritmo che avviava SS-3 per poi lasciare posto al thrash metal totale ed ai rutti di Hanneman nel break centrale, oppure la classicissima Mind Control, uno dei pochi ponti con brani passati come Born Of Fire. La sottovalutatissima Fictional Reality condita da un break centrale irresistibile, oppure la devastante accoppiata che apriva il disco. Tutto di ottimo livello tranne la copertina, in linea con la tendenza ad utilizzare la grafica in maniere orribili tanto in voga in quegli anni; anche se forse non ho ancora capito che opinione ho di Circle Of Beliefs, eccessivamente lineare e con quella voce effettata di Tom Araya che proprio non sopporto. Dettagli, si tratta pur sempre di uno dei miei tre dischi preferiti degli Slayer nonchè di quello per cui provo il maggior affetto, perché in fondo, fu a metà fra la sua uscita e quella di Undisputed Attitude che li conobbi. (Marco Belardi)

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Vaccini. Finanziamenti, prezzi e quantità. Una competizione a tutto campo

Un dettagliato servizio del network britannico Bbc, ha ricostruito molto dettagliamente tutta la catena del valore della produzione di vaccini e della competizione che si è scatenata a livello globale.

Gran parte dei finanziamenti alle ricerche e alle sperimentazioni dei vaccini contro il Covid-19 sono stati messi a disposizione dai governi (8,6 miliardi di dollari), poi ci sono stati quelli privati delle varie società (3,4 miliardi) ed infine quelli di Onlus e fondazioni private (1,9 miliardi). Alcuni dei vaccini risultano completamente finanziati dai fondi statali (Johnson & Johnson, Moderna), altri come quello della Sanofi sono invece interamente a carico dei fondi privati della società stessa.

Il vaccino al momento meno caro – AstraZeneca – è stato quasi interamente finanziato dallo Stato e in parte da fondazioni e Onlus. Basso il prezzo anche di quello di J&J e il russo Sputnik, mentre il vaccino di Moderna – nonostante sia quasi totalmente finanziato dallo Stato – ha il prezzo più alto. Sul piano dei prezzi più alti, Moderna è seguita subito dopo dal cinese Sinovac. Aziende come J&J e AstraZeneca si sono impegnati a fissare un prezzo che copra solo i costi e per questo sono tra i più bassi, per ora.

Ma, come viene spiegato da alcuni analisti finanziari del settore, molto dipenderà dallo sviluppo e dalla durata della pandemia, dalle capacità di acquisto dei paesi più ricchi e di quelli più poveri, insomma dal “mercato”, né più né meno rispetto a qualsiasi altro prodotto. Gli Stati ci hanno anche messo dei soldi (due volte e mezzo quelli che ci hanno messo i privati e quattro volte e mezzo quelli che ci hanno messo i “benefattori”) ma sembrano voler incidere molto debolmente sulle scelte delle varie multinazionali che si sono gettate nella corsa alla produzione dei vaccini contro il Covid-19.

Qui di seguito il servizio della Bbc ed alcuni grafici di estremo interesse. Buona lettura.

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A causa dell’urgente necessità del vaccino, i governi e i donatori hanno investito miliardi di dollari in progetti per crearli e testarli. Organizzazioni come la Fondazione Bill Gates hanno sostenuto la ricerca, così come hanno fatto il fondatore di Alibaba Jack Ma e la star della musica country Dolly Parton.

In totale, i governi hanno fornito 8,6 miliardi di dollari, secondo la società di analisi dei dati scientifici Airfinity. Le organizzazioni senza scopo di lucro hanno assegnato quasi 1,9 miliardi di dollari. Solo 3,4 miliardi di dollari provengono dagli investimenti delle aziende e molte di loro dipendono fortemente da finanziamenti esterni. C’è una buona ragione per cui le grandi aziende non si stavano affrettando a finanziare progetti di vaccini.


Lo sviluppo di vaccini, soprattutto in caso di emergenza sanitaria acuta, non si è dimostrato molto redditizio in passato. Il processo di scoperta richiede tempo ed è tutt’altro che sicuro. Le nazioni più povere hanno bisogno di grandi forniture ma non possono permettersi di pagare prezzi elevati. E i vaccini generalmente devono essere somministrati solo una o due volte. I farmaci ricercati nei paesi più ricchi, soprattutto quelli che richiedono dosi giornaliere, sono più redditizi, in tutto il mondo, soprattutto dopo aver ricevuto così tanti finanziamenti esterni.

La grande azienda farmaceutica americana Johnson & Johnson e la britannica AstraZeneca, che lavora con una società di biotecnologie con sede presso l’Università di Oxford, si sono impegnate a vendere il vaccino a un prezzo che ne copra solo i costi.


Attualmente, AstraZeneca sembra essere il più economico, a 4 dollari per dose. Moderna, una piccola azienda biotecnologica che lavora da anni alla tecnologia alla base del suo rivoluzionario vaccino a RNA, sta fissando un prezzo molto più alto, fino a 37 dollari per dose. Il loro obiettivo è realizzare un profitto per gli azionisti delle società (anche se parte del prezzo più alto coprirà anche i costi di trasporto di quei vaccini a temperature molto basse).

Ma ciò non significa che quei prezzi siano fissi. Le aziende farmaceutiche in genere addebitano importi diversi in diversi paesi, in base a ciò che i governi possono permettersi. La promessa di AstraZeneca di mantenere bassi i prezzi si estende solo per la “durata della pandemia”. Potrebbe iniziare a far pagare prezzi più alti a partire dal prossimo anno, a seconda della storia della malattia.

“In questo momento, i governi del mondo ricco pagheranno prezzi elevati, perché sono ansiosi di mettere le mani su tutto ciò che può aiutare a porre fine alla pandemia”, afferma Emily Field, direttore della ricerca farmaceutica europea presso la Barclays. “Non appena più vaccini saranno disponibili, probabilmente l’anno prossimo, la concorrenza potrebbe far abbassare i prezzi”.

“Nel frattempo, non dovremmo aspettarci che le società private, soprattutto quelle più piccole che non hanno altri prodotti da vendere, producano vaccini senza cercare un profitto”, afferma Rasmus Bech Hansen, CEO di Airfinity. “Tieni presente che queste aziende hanno assunto un rischio significativo, si sono mosse molto velocemente e gli investimenti in ricerca e sviluppo sono stati significativi”, afferma Hansen. E se le piccole imprese devono continuare a fare progressi in futuro, dice, devono essere ricompensate. Ma alcuni sostengono che l’entità della crisi umanitaria e dei finanziamenti pubblici significhi che questo non è il momento di continuare a comportarsi come in passato.


I governi e le organizzazioni multilaterali si sono già impegnati ad acquistare miliardi di dosi a prezzi fissi. Quindi, per i prossimi mesi, le aziende saranno impegnate a completare gli ordini il più rapidamente possibile. Chi vende ai paesi ricchi inizierà a vedere un ritorno sull’investimento, mentre AstraZeneca, nonostante abbia accordi per fornire il maggior numero di dosi, coprirà solo i costi.

Una volta adempiuti quei primi contratti, sarà più difficile prevedere come saranno le prospettive per i nuovi vaccini. Dipende da molte cose: quanto dura l’immunità in coloro che sono stati vaccinati, quanti vaccini riusciti entrano in funzione e se la produzione e la distribuzione procedono senza intoppi.

Emily Field di Barclays ritiene che la finestra per il profitto sarà “molto temporanea”. Anche se le principali aziende farmaceutiche non condividono la loro proprietà intellettuale, ci sono già più di 50 vaccini negli studi clinici in tutto il mondo. “In due anni, potrebbero esserci 20 vaccini sul mercato”, afferma Field. “Sarà difficile far pagare un prezzo molto alto”. Ritiene che l’impatto a lungo termine avrà più a che fare con la reputazione. Un’implementazione di successo del vaccino potrebbe aiutare ad aprire le porte alla vendita di terapie COVID-19 o altri prodotti.

In questo senso, l’intera industria ne trarrà vantaggio, concorda Rasmus Bech Hansen di Airfinity. “Questo è uno degli aspetti positivi che potrebbero derivare dalla pandemia”, afferma.

In futuro, spera che i governi investano in strategie pandemiche come fanno ora in difesa, vedendolo come una spesa necessaria per cose che sperano di non dover utilizzare.

Il più promettente di tutti, e uno dei motivi per cui il valore di mercato di BioNTech e Moderna è esploso, è che i loro vaccini forniscono la prova del concetto per la loro tecnologia RNA. “Tutti sono rimasti colpiti dalla sua efficacia”, afferma Emily Field. “Questo potrebbe cambiare il panorama dei vaccini”.

Prima del covid, BioNTech stava lavorando a un vaccino per il cancro della pelle. Moderna sta cercando un vaccino a base di RNA per il cancro ovarico. Se uno di loro ha successo, le ricompense potrebbero essere enormi.

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Chi c’è dietro lo show cubano a San Isidro?

A partire dalla fine del XIX secolo, il quartiere di San Isidro a L’Avana Vecchia si è trasformato in “zona a luci rosse”. Un quartiere di gente umile, vessato dalla presenza dei marines statunitensi che sbarcavano in cerca di divertimento e di sesso a buon mercato. La sua vita è cambiata quando la Rivoluzione ha trionfato nel 1959.

Il quartiere dell’Avana, un tempo disprezzato, conta adesso su 14 ambulatori medici, una clinica di medicina tradizionale, una clinica veterinaria, tre asili nido, un giardino d’infanzia e quattro scuole.

Ho avuto l’opportunità di partecipare con i vicini del luogo, a un dibattito di quartiere organizzato dai CDR[1] circa due anni fa, in omaggio al Comandante in Capo, Fidel Castro Ruz.

Ci siamo incontrati, senza spalti né discorsi prestabiliti, ai piedi della Ceiba[2] del parco. Ricordo due interventi, uno in cui, a nome di tutti i vicini, un compagno, a partire dalla sua fede religiosa, dichiarò il suo appoggio incondizionato alla Rivoluzione.

L’altro fu quello di un anziano, che chiese ai suoi concittadini di ricordare com’era quel posto prima del 1959 e come molti di loro, da bambini, vennero a conoscenza di casi di donne che erano state oltraggiate dai marines statunitensi.

Tuttavia, queste commoventi storie di trasformazione sociale non sono quelle che emergono nei media internazionali e nelle reti virtuali che in questi giorni hanno focalizzato la loro attenzione su questo popoloso quartiere.

Nuovo show anticubano

La vita quotidiana in questo quartiere è stata alterata da un gruppo di persone – 14 in totale, quattro delle quali appartenenti al cosiddetto Movimento San Isidro – che sono diventate il centro di un nuovo show controrivoluzionario, promosso e sostenuto dal governo statunitense.

Lo spettacolo è molto simile a quello che, in altre occasioni, è stato messo in scena da altri gruppi mercenari o di marionette al servizio del governo degli Stati Uniti. Non dimentichiamo il connotato, per i suoi tratti ridicoli e di falsità, “sciopero dell’avocado”, durante il quale la sua promotrice è stata colta ad assaggiare appetitosi menù.

Non tutti recitano lo stesso ruolo nello spettacolo: alcuni dicono di essere in sciopero della fame e della sete, altri solo della fame, e molti fanno festa, come si può vedere nelle trasmissioni in diretta, una sorta di reality show che è solito realizzare il “movimento” attraverso i social network, in azioni di auto promozione o reportage rivolti a quelli da cui ricevono i finanziamenti.

Il gruppo, per il momento, esige due cose: la prima, il rilascio di Denis Solís González, presentato come un giovane artista censurato, che stando a quanto sostengono era scomparso dopo essere stato arrestato dalla polizia. Denis Solís sta attualmente scontando una pena detentiva di otto mesi per il reato di oltraggio alle autorità. Questo cittadino non ha presentato ricorso contro la sentenza.

L’Agenzia Cubana del Rap, un’istituzione culturale riconosciuta a livello internazionale, ha smontato la grossolana argomentazione che i manipolatori avanzano sul loro rapporto con l’arte: “La voce di un principiante senza un’opera consolidata non può essere invocata come rappresentativa del nostro hip hop, tanto meno quando si sa che gli interessi che difende fanno parte del piano eversivo orchestrato contro la Rivoluzione Cubana”.

La natura di queste trame non ha richiesto molto tempo per essere chiarita addirittura dallo stesso Solís González che, in un video trasmesso sui social network, ha ammesso di avere legami con persone che hanno finanziato atti violenti contro Cuba, come nel caso di Jorge Luis Fernández Figueras, accusato dalla giustizia cubana di appartenere a un gruppo terroristico con sede a Miami, che ha promesso di inviargli 200 dollari se avesse portato a termine le sue istruzioni.

Cos’è il presunto Movimento San Isidro?

Il creato ad arte, Movimento San Isidro, centro di un boom mediatico orchestrato dall’articolate rete di media al servizio degli interessi degli Stati Uniti, non rappresenta per niente il quartiere umile, laborioso e rivoluzionario del quale hanno preso il nome e che ripudia la presenza di persone che vivono di scandali, commettono azioni degradanti e addirittura manipolano minorenni per le loro performance volgari e provocatorie.

Luis Manuel Otero Alcántara, che viene identificato come il leader del gruppetto, ha su di sé un abbondante dossier di provocazioni, che sono state sostenute e coperte da Mara Tekach, quando svolgeva la funzione di incaricata d’affari dell’ambasciata statunitense all’Avana. Tra i politici per i quali dichiara ammirazione si distinguono parlamentari che hanno promosso l’inasprimento del blocco genocida contro il popolo cubano.

Nei reality show che sono abituati a fare si può vedere il degrado esistenziale e culturale del suo gruppo e il legame con terroristi di Miami, che hanno compiuto azioni violente contro il nostro Paese.

In una delle trasmissioni in diretta che hanno fatto, uno dei membri del presunto Movimento ha salutato il terrorista William González Cabrera, responsabile del finanziamento di azioni contro infrastrutture e esercizi commerciali a Cuba, come i tentativi di dare fuoco a una caffetteria, un barbiere e un negozio di generi alimentari, e un altro membro del gruppo ha chiesto informazioni su azioni che si sarebbero dovute compiere con bombe molotov.

Mentre si tesseva la sceneggiatura del montaggio della solidarietà con Denis Solís, i suoi “fratelli” di causa si sono potuti vedere mentre festeggiavano in un video che circolava in rete, un atteggiamento che contrasta con il martirologio che, a poche ore di distanza, mettevano in scena.

Il secondo pretesto che hanno inventato, per guadagnare popolarità con la loro provocazione, è l’eliminazione dei negozi in MLC[3], misura necessaria per affrontare l’intensificarsi dell’assedio economico attuato dall’amministrazione di Donald Trump, aggravato dalla crisi generata dal Covid-19.

Colpisce il fatto che agli stessi individui che esigono questo, qualcuno stia acquistando cibo dall’estero in questi negozi attraverso una piattaforma online, nel bel mezzo dello sciopero della fame e della sete che dicono di sostenere.

Chi muove i fili?

Il nuovo show, allestito da Washington e Miami, fa parte dei piani di eversione contro Cuba, e ha precedenti in altre azioni simili organizzate, eseguite e finanziate da quel governo nel tentativo di distruggere la Rivoluzione.

Se analizziamo il modus operandi del cosiddetto Movimento San Isidro, troveremo molte costanti presenti nella strategia del golpe suave del manuale del politologo nordamericano Gene Sharp, in quanto si notano diverse somiglianze tra i piani eseguiti nel Maidan ucraino, le guarimbas venezuelane e le azioni di gruppi di delinquenti durante il colpo di Stato contro Evo Morales in Bolivia...

Si osserva, come tendenza, quella di usare banditi e persone di scarsa statura morale che si prestino per servire da agenti di un governo straniero, con l’obiettivo di promuovere il caos e alimentare la narrazione della violenza e della repressione, che viene propagata da una finanziata e articolata rete di media digitali e tradizionali.

Alcuni funzionari del governo degli Stati Uniti non hanno nascosto la loro complicità con quanto è accaduto all’Avana, un fatto che contrasta con il comportamento del nostro governo di non interferire negli affari interni di altri Paesi.

Michael Kozak, sottosegretario ad interim dell’Ufficio per gli Affari dell’Emisfero Occidentale del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, fervente sostenitore del blocco e della chiusura delle rimesse, ha fatto diverse dichiarazioni di sostegno al Movimento San Isidro, così come il senatore repubblicano della Florida Marco Rubio,[4] il cui curriculum anticubano è ben conosciuto dal nostro popolo.

E nemmeno poteva mancare, quando si tratta di ingerenze, Luis Almagro, segretario generale dell’ormai screditata OSA, che non ha perso tempo nel mostrare il suo sostegno a questa nuova azione anticubana.

Ai funzionari yanquis (statunitensi), ai membri anticubani del Congresso e al segretario generale dell’OSA non interessano gli effetti sulla salute che un atteggiamento irresponsabile potrebbe avere su alcune delle persone coinvolte. Quello che cercano a tutti i costi è screditare il percorso pulito ed esemplare della Rivoluzione, recentemente riconosciuto con l’elezione di Cuba a membro del Consiglio dei Diritti Umani dell’ONU, questo per sostenere le giustificazioni del governo degli Stati Uniti per il mantenimento del blocco genocida che colpisce tutto il nostro popolo.

Questa azione provocatoria, i cui fili sono tirati da Washington e Miami, vorrebbe screditare la ricca storia della Rivoluzione, che non ammette cedimenti alle pressioni dell’impero, né di una manciata di fantocci. Il popolo cubano ha conosciuto nel gennaio del 1959 il valore dell’indipendenza, della sovranità e della fede nella piena dignità dell’uomo: a quelle conquiste che sono costate tanto sangue glorioso non è disposto a rinunciare.

Note:

[1] Comitati di Difesa della Rivoluzione, (n.d.t.).

[2] Albero dal fusto massiccio presente nelle Americhe.

[3] Moneda Libremente Convertible. Da alcuni mesi per decisione del governo cubano sono state aperte da due catene di negozi statali che in tutta l’isola hanno più di 4000 esercizi, una settantina di negozi dove il pagamento si effettua con valuta straniera. L’iniziativa è finalizzata a raccogliere valuta pregiata in un momento di grande ristrettezza economica dovuta alla crisi economica mondiale e i suoi effetti a Cuba e all’inasprimento del bloqueo degli USA. Su questa scelta legittima e finalizata in ultima istanza al beneficio economico della popolazione, la controrivoluzione, che appoggia forsennatamente il bloqueo, ha armato una ipocrita campagna di discredito, (n.d.t.).

[4] Successivamente alla redazione di questo articolo, si sono sommate alle dichiarazioni di Marco Rubio e Luis Almagro quelle Di Mike Pompeo e, con alcuni Twitt quelle di Donald Trum, solidarizzandosi con i mercenari del “movimento” San Isidro. L’incaricato d’affari, attualmente il diplomatico più alto in grado dell’ambasciata USA a L’Avana, in violazione di tutti i protocolli diplomatici incluso la convenzione di Vienna, si è presentato nella casa dove aveva luogo la provocazione, ha raccolto due dei mercenari e si è allontanato con loro a bordo della macchina dell’ambasciata. Successivamente il Minrex, Ministero degli Esteri di Cuba, lo ha convocato per esprimere una ferma protesta ufficiale per il suo comportamento e per l’ingerenza negli affari interni di Cuba da parte del governo e del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d’America, (n.d.t.).

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Giovani precari e pubblica amministrazione in affanno. Come se ne esce?

Il docente autore della missiva certamente coglie nel segno per quanto riguarda il rilievo del problema. Il punto critico sta nelle soluzioni prospettate, che non troviamo solo "generiche o insufficienti" ma in potenza anche sbagliate. In breve, una nuova classe dirigente un po' (molto) più preparata (che nel mondo accademico di questi decenni equivale a "tecnica") e un po' (molto) meno burocratica, senza il cane da guardia di un poderoso movimento di classe alle calcagna, finirebbe per fare ne più ne meno quello che i più sfegatati liberisti sognano, perché in quel brodo di coltura è cresciuto e nel medesimo brodo ha esercitato la propria ricerca quasi completamente finalizzata alla competizione piuttosto che alla collaborazione.

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Un paese di fronte alla rovina che possiede molte risorse, in primo luogo intellettuali. Le quali cercano disperatamente la via per mettere in moto ciò che una classe dirigente indecente inchioda per incompetenza, assenza di visione, interessi circoscritti al business immediato e senza rischi.

Sempre più spesso ci arrivano contributi di vario spessore, prodotti quasi sempre in solitudine. Grida disperate con dietro competenze di alto livello e autentica passione civile. Una solitudine che li rende inevitabilmente poco realistici in molti passaggi, perché la conoscenza approfondita dell’immensa macchina che si vorrebbe modificare per uscire dal pantano richiede necessariamente molte teste, molte competenze, moltissime informazioni dettagliate e strutturate (big data, insomma).

Pubblichiamo però questo, del Prof. Marcello Arici, ex docente di ingegneria all’Università di Palermo che coglie con grande precisione l’incredibile spreco di intelligenza, vivacità passione prodotto dalla supina obbedienza di questa classe politica ai diktat interni di Confindustria e a quelli esterni dell’Unione Europea.

Le soluzioni proposte sono ovviamente perfettibili, qualcuno le potrà forse trovare generiche o insufficienti, ma la materia su cui esercitare l’attenzione critica è anche questa. Tema che “a sinistra” spesso viene bypassato con colpevole disinvoltura.

Al di là delle pur giuste ed ovvie istanze di “giustizia sociale” c’è infatti la questione cui non si può sfuggire: come si pensa di cambiare questo Paese per renderlo non solo più giusto ma anche in grado di organizzare al meglio le risorse di cui dispone?

Perché un Paese misero, deindustrializzato, dipendente, può anche scegliere momentaneamente di ridurre le mostruose diseguaglianze che lo caratterizzano, ma di certo questo non basterebbe a farne – sul medio periodo – un Paese capace di far funzionare l’organizzazione sociale complessiva.

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Carissimo,

Chiedo scusa per questo messaggio affrettato, ma i tempi si susseguono con ritmo convulso e quasi non c’è il tempo di mettere a punto un discorso approfondito e completo come l’argomento richiede. Invio poche righe sul Recovery Plan su un tema che pare sia sfuggito a chi ha messo a punto la preliminare lista delle idee.

Problema Giovani (verso i quali dovremmo mostrare la massima riconoscenza, avendo trasferito loro, in toto, le passività del debito pubblico):

E fra questi includo anche chi ha solo qualche anno meno di 50, in Italia sono stati negli ultimi 20 anni dimenticati o peggio impediti nel poter contribuire allo sviluppo del Paese con il loro impegno ed il loro entusiasmo, e costretti a emigrare all’estero o vivacchiare frustrati in posizioni di precariato subalterno.

Quanto perde l’Italia nel rinunciare al loro contributo di entusiasmo e di innovazione per il futuro sviluppo del Paese, dopo che tutti noi abbiamo speso una grande quantità di denaro per la loro crescita ed educazione?

Risposta: trovare il modo di recuperare queste energie e investirle nel nostro futuro.

Problema Pubblica Amministrazione.

Ne conosciamo tutti le gravi carenze. L’incapacità di gestire i fondi Europei assegnati all’Italia, le infinite difficoltà burocratiche che si oppongono al portare avanti qualunque iniziativa e qualunque progetto.

Risposta: necessità di iniziare il completo rinnovo della P.A., operando un trapianto di nuove energie che, imparando in corso d’opera, servano per la gestione, su basi più attuali e moderne, dei programmi dello sviluppo futuro.

Come farlo? Non c’è il tempo di far crescere una nuova generazione digitalizzata di burocrati, le scuole di P.A. sono troppo poche e non esiste una cultura napoleonica di Scuole Normali per l’Amministrazione come in Francia.

L’Italia possiede, però, un esercito di precari di alto livello creati in questi anni nei Dottorati di Ricerca nelle più svariate discipline, sottoutilizzati, frustrati, asserviti, emigrati, in attesa che arrivi il momento della loro stabilizzazione nelle Università.

Sono costati al Paese un mucchio di denaro, ma stanno umiliati in un angolo, in attesa di qualcosa che non arriverà mai. Hanno però, tra loro, qualcosa in comune. Hanno studiato con passione, si sono impegnati in ricerche in ogni campo del sapere, sono digitalizzati, hanno avuto esperienze all’estero, conoscono la lingua inglese ed altre ancora, hanno imparato un metodo scientifico di lavoro.

Naturalmente dovrebbero essere prima addestrati per un lavoro di gestione nella pubblica amministrazione.

I Dottori precari sono oltre 20.000, se ben remunerati e assorbiti nella P.A., con la prospettiva di contribuire al futuro sviluppo del Paese, potrebbero essere finalmente inseriti stabilmente in un lavoro profondamente utile, per gestire la realizzazione dei programmi del Recovery Fund e portarli a compimento, innervando di nuove energie la nostra burocrazia.

Come fare? Finanziare con i fondi europei lo straordinario reclutamento di queste energie sprecate nel momento in cui è necessario voltare pagina col passato.

Fare una Call dei giovani dottori anche espatriati, disposti a rientrare per dare una mano. Fare un reclutamento semplificato avendo i Dottori superato già numerosi esami e concorsi. Addestrarli solo per un breve periodo con gli attuali burocrati della pubblica amministrazione e con gli esperti reclutati per un breve periodo di indirizzo.

Individuate le direzioni strategiche, consentire loro di organizzarsi con il loro entusiasmo, la loro preparazione ad affrontare problemi, gestendo questi ultimi in modo completamente nuovo. L’esperienza nascerebbe sul campo con un grandissimo beneficio per il Paese.

In ultimo, aspetto non secondario, si darebbe un sostanziale e concreto contributo alla parità di genere: il maggior numero dei Dottori di Ricerca, soprattutto nel mezzogiorno, è donna.

Fonte

La scuola dal 7 gennaio verso il Next Generation Fund

Seguendo l’accordo Stato-Regioni del 23 dicembre, alla fine delle vacanze di Natale, il 7 gennaio, le scuole superiori riprenderanno l’attività in presenza con il 50% degli alunni, nel giubilo del governo, dei presidenti di regione, dell’Associazione Presidi e di quella dei comuni italiani.

Naturalmente tutti costoro si guardano bene dal dire che si tratta di una sconfitta dei piani nazionali e regionali, che prevedevano una presenza in classe del 75% degli studenti, che si raggiungerà se e quando sarà possibile.

Quanto alla sicurezza del ritorno in classe, le promesse sono tante, prima tra tutte quella di un tracciamento prioritario e privilegiato per la scuola, che però contrasta con l’evidenza che i tamponi stanno costantemente diminuendo in tutta Italia e il tracciamento è saltato da mesi.

Inoltre si promette, per l’ennesima volta, un “potenziamento”, mai realizzato, dei mezzi di trasporto che è demandato agli enti locali, associato a un indecifrabile “scaglionamento” orario di tutte le attività. Si parla anche di turni pomeridiani, ma ogni scuola deciderà da sé. Ancora una volta, il Ministero dell’Istruzione, incapace di trovare vere soluzioni, si affida alle autonomie locali e persino dei singoli istituti.

Bloccare le presenze in classe al 50% significa, in realtà, riconoscere quanto abbiamo sempre sostenuto, vale a dire che all’inizio dell’anno si sarebbe dovuto sdoppiare le classi, dimezzandone il numero di allievi e assumendo un congruo contingente d’insegnanti.

Ciò non è stato fatto per l’opposizione testarda della ministra Azzolina, per i limiti di spesa del governo e per la sottovalutazione del problema scuola da parte dell’omnicommissario Arcuri, affaccendato a trovare soluzioni inadeguate e risibili (banchi a rotelle, lezioni all’aperto...).

È quindi impossibile capire, al momento, quali saranno le condizioni di sicurezza del rientro in classe del 7 gennaio, mentre il tasso di positività nei (pochi) tamponi a persone mai testate, escludendo quindi chi è stato malato e verifica se è guarito, è ancora del 25% e ogni giorno si registrano tra 400 e 700 decessi.

Tuttavia, una certezza emerge dai mesi della pandemia, ed è che i servizi essenziali, di cui la scuola fa parte, devono essere pubblici e gestiti seguendo gli interessi collettivi, non piegati all’intervento dei privati e alla logica del profitto.

Purtroppo le intenzioni del governo sembrano andare in tutt’altra direzione. Già nella legge di bilancio approvata in questi giorni si prevedono nuovi finanziamenti alle scuole private che accetteranno disabili, quasi che la presenza di tali alunni a scuola non sia un diritto, ma una concessione che va incentivata economicamente.

Inoltre la legge di bilancio prevede nuovi impegni economici soprattutto par la didattica a distanza, che sembra ormai il governo abbia intenzione di rendere permanente per una parte del percorso scolastico.

Ciò che però preoccupa maggiormente è la lettura della Bozza del “Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza” elaborata dal Consiglio dei Ministri che stabilisce le linee guida per l’utilizzo del fondo Next Generation UE (detto anche Recovery Fund) da parte dell’Italia.

Il capitolo “Istruzione e Ricerca” che riunisce le linee guida per la scuola e per l’università e che disegna come queste istituzioni saranno in futuro è un vero condensato di propositi privatistici e di sottomissione della formazione alle aziende.

Si tratta di pagine che, come temevamo, faranno impallidire coloro che, anche a sinistra, di fronte a finanziamenti europei diretti alla scuola come parte del piano Next Generation, avevano ingenuamente esultato.

È vero che il 9,8% dei fondi totali, se e quando arriveranno, sarà destinato all’Istruzione e alla Ricerca, ma attraverso due linee d’azione, d’importanza quasi pari per finanziamento: la prima “Potenziamento della didattica e del diritto allo studio”, la seconda, ed è una dichiarazione progettuale chiara, “Dalla ricerca all’impresa”. Cerchiamo ora di entrare nello specifico del testo.

Nel documento si parla di “potenziamento dell’offerta formativa in discipline abilitanti 4.0[1] e correlate alla vocazione produttiva del territorio di riferimento” (cioè all’industria locale) e, per gli istituti tecnici, di istituzione di “forme di collaborazione congiunta (es. laboratori) pubblico-privati”.

Inoltre, “è previsto il potenziamento di programmi professionali di livello secondario e terziario che consentono un migliore inserimento nel mondo produttivo” che potranno anche avvalersi della presenza degli Istituti Tecnici Superiori (invenzione degli industriali) che organizzeranno percorsi di istruzione adeguati alle esigenze del tessuto economico nonché agli standard internazionali”.

Come già era accaduto ai tempi della “Commissione Colao”, quella che aveva copiato il capitolo sulla formazione da un libro di uno dei suoi componenti, la maggior parte delle pagine dedicate all’istruzione si concentra sull’università, all’interno del paragrafo “Dalla ricerca all’impresa”.

Obiettivo fondamentale di tale linea d’investimento è “innalzare il potenziale economico, agendo in maniera sistemica sulla leva degli investimenti in Ricerca e Sviluppo”, rafforzando la “collaborazione tra la base scientifica pubblica e il mondo imprenditoriale”.

La ricerca è vista solo in funzione dell’integrazione dei suoi risultati nel sistema economico e i programmi di Ricerca e Sviluppo saranno sviluppati in partenariato con le aziende. È normale, a questo punto, che si progetti la creazione di dottorati dedicati alle specifiche esigenze delle imprese.

In conclusione, il documento propone “la maggiore apertura del sistema scolastico e universitario al mondo delle imprese, anche attraverso una modifica dei centri di trasferimento tecnologico presso gli atenei.”

All’interno di un tale quadro di riferimento, va da sé che il documento del governo insista sulla necessità dello sviluppo delle competenze digitali di studenti e insegnanti (questi ultimi subiranno corsi di formazione obbligatoria sul tema) in un contesto che sembra sempre più immaginare un’università che si fondi su corsi a distanza, salvo probabilmente quando si deve andare in azienda per fare ricerca su progetti di start up e spin off che dovranno poi essere tradotti in imprese.[2]

Il tono aziendalistico e produttivistico del documento governativo non può non far pensare a una simbiosi tra due documenti: quello della Commissione Colao che avevamo già commentato nel giugno scorso e il pamphlet Il lavoro del Futuro, pubblicato da Assolombarda nel maggio del 2018. Conoscendo il ruolo trainante che Assolombarda esercita nella Confindustria, si può quindi facilmente intendere come quest’ultima abbia ispirato la Bozza del governo.

Dal punto di vista della scuola, quanto proposto dal governo rappresenta il punto d’approdo privatistico del percorso iniziato con l’autonomia scolastica, che aprì la porta all’aziendalizzazione degli istituti e alla frammentazione del sistema formativo unico statale, con la contemporanea istituzione del Sistema Scolastico Nazionale, in cui s’intrecciano scuole pubbliche e private.

Un modello già sperimentato nella Sanità, con l’istituzione della sussidiarietà e con l’eguale passaggio di operatori sanitari e scolastici a un contratto di diritto privato. Se a questo si aggiunge la progressiva frammentazione territoriale dello Stato si comprende come la scuola, ma anche l’università, dopo anni di riduzione dei finanziamenti, siano oggi una facile preda del privato e delle conferenze sulle “esigenze produttive territoriali”.

La scuola, oggi, dopo anni di totale povertà dovuta ai tagli di bilancio, potrebbe, se arriveranno i soldi del Next Generation EU, diventare un settore d’interessi appetibile per far passare denaro pubblico nelle tasche dei privati. Ancora una volta è evidente l’analogia con il settore della sanità, dove strutture come cliniche e ambulatori privati hanno lucrato proprio sulla sussidiarietà.

Nella scuola, però, l’assalto alla diligenza può essere ancora più facile, perché non è nemmeno necessario creare delle strutture ma è sufficiente attivare dei laboratori, inviare esperti a tenere lezioni oppure, nell’università, suggerire i programmi di corsi e dottorati.

Tutto ciò può interessare sia un “terzo settore”, sempre più in crisi, che potrà offrire corsi e servizi, nella logica della esternalizzazione; sia, ancor peggio, le vere e proprie aziende che potranno realizzare laboratori e corsi e dettare, nell’università, i programmi di dottorati “d’impresa” che a loro convengono.

In pratica, la maggior parte dei fondi europei destinati alla scuola e all’università sarà in realtà un finanziamento indiretto alle aziende.

Quanto alla qualità dell’insegnamento, è chiaro che una tale scuola si orienterà soprattutto sulle competenze, a scapito dei saperi, per creare lavoratori poco qualificati e flessibili, mentre per l’Università non si possono escludere anche didattica e ricerca di alto livello (per pochi) solo se indirizzata ai fini del capitale, con un crollo verticale di ciò che in tali obiettivi non rientra.

In un progetto del genere, anche l’insistenza sulla didattica digitale diventa sospetta, poiché si può immaginare che i corsi tecnologici saranno indirizzati ai livelli più bassi verso compiti puramente esecutivi, mentre a quelli più alti alla tecnologia per l’impresa e saranno ignorate le possibilità creative che pure le ITC possono avere se usate intelligentemente.

Un tale uso della didattica digitale non può che accrescere le disuguaglianze all’interno della scuola, ma questo importa poco a Confindustria, al governo e alle multinazionali dell’informatica che realizzeranno comunque ottimi profitti.

Peraltro, non si dimentichi che l’uso del fondo Next Generation è sottoposto all’approvazione da parte della UE. Questo è un punto fondamentale. Tutta la politica sulla scuola dell’UE da oltre vent’anni è subordinata al dettato dei centri di potere economico e delle banche, che ne hanno determinato la svolte principali, a partire almeno dalla conferenza di Lisbona del 2000.

La politica della formazione seguita dalla UE è quella della creazione di mano d’opera nelle forme più utili al capitale e non è certo rivolta al ruolo che la scuola dovrebbe svolgere in una società democratica, vale a dire quello della promozione culturale e sociale e dell’emancipazione delle classi lavoratrici.

Proprio per questo, sarebbe pura utopia pensare che la UE possa autorizzare un utilizzo dei fondi Next Generation per l’istruzione diverso da quello previsto dal governo italiano e dalla Confindustria, vera regista dell’operazione.

Note:

1) Con il termine di competenze 4.0 si fa riferimento , nell’Industria, al Cyber-Physical System (CPS), ossia a sistemi fisici che lavorano in modo meccanico, elettromeccanico o in altro modo e che sono in grado di sfruttare il nuovi potenziali supplementari con l’aiuto di Internet.

2) Prendendo come riferimento la definizione che si trova sul sito del Ministero dell’Università e della Ricerca con il termine spin-off, che alla lettera significa “gemmazione”, si intende “la costituzione di una nuova entità giuridica (società di capitali o a responsabilità limitata, startup), a partire dalle risorse di una società preesistente o da altre imprese”. Per Spin off accademico s’intendono in particolare progetti volti a “favorire il contatto tra le strutture di ricerca universitarie, il mondo produttivo e le istituzioni del territorio, per sostenere la ricerca e diffondere nuove tecnologie con ricadute positive sulla produzione industriale e il benessere sociale del territorio”.

Fonte

30/12/2020

Il mio vicino Totoro (1988) di Hayao Miyazaki

Gli USA varano sanzioni contro la Turchia

di Marco Santopadre

Dopo anni di avvertimenti e minacce, alternati a concessioni, Washington si è alla fine decisa a imporre sanzioni alla Turchia, che pure formalmente è uno dei suoi alleati storici e partner tra i più importanti nell’Alleanza Atlantica.

La Turchia è stata punita per aver acquistato dalla Russia, nel 2017, i sistemi di difesa missilistica S-400. Washington ha più volte protestato e minacciato ritorsioni sostenendo che l’acquisto fosse incompatibile con l’appartenenza alla Nato e che avrebbe consentito a Mosca di accedere ad alcune tecnologie segrete statunitensi utilizzate dall’esercito turco.

Ma Erdoğan ha tirato dritto e, dopo il collaudo delle batterie russe, il Congresso americano, in maniera bipartisan, si è convinto a dar seguito alle minacce, superando le resistenze di Donald Trump e varando una legge ad hoc, il “National Defense Authorization Act”, che sembra anticipare un atteggiamento più duro di Biden nei confronti del suo “alleato”.

Il presidente neo-eletto è noto per le sue dichiarazioni di fuoco contro Erdoğan, spesso definito un “autocrate”, e per le critiche alla tolleranza dimostrata dal suo predecessore nei confronti della Turchia. E recentemente, in un viaggio a Istanbul di Mike Pompeo – durante il quale non ha incontrato il “sultano” – il segretario di Stato americano ha velatamente accennato alla necessità di un cambio di regime in Turchia durante un’intervista al quotidiano francese Le Figaro. Tra due mesi Pompeo non sarà più il capo della diplomazia statunitense, ma i suoi toni potrebbero rivelare che gli apparati del paese propendono ora più per il bastone che per la carota.

Le sanzioni appena varate sono dirette contro la “Presidenza delle industrie della Difesa” (Savunma Sanayii Başkanlığı SSB) – ente che si occupa delle importazioni e delle esportazioni di armi e di gestire l’industria bellica turca – il suo presidente Ismail Demir ed altri dirigenti. Il SSB gestisce circa 700 progetti per un valore di 8,5 miliardi di euro.

Il ministro degli esteri turco, Mevlut Cavusoglu, ha affermato che le misure non avranno conseguenze sulla Turchia ma il “ban” produrrà delle conseguenze rilevanti, rendendo più difficile l’approvvigionamento di armi, pezzi di ricambio, tecnologie e licenze di utilizzo di cui Ankara ha bisogno.

Qualche settimana fa il Wall Street Journal ricordava che tanto gli Usa quanto l’Ue devono «contenere l’aspirazione della Turchia ad emanciparsi dalle catene della Nato per diventare una potenza regionale autonoma, ma senza spingere Erdoğan tra le braccia della Russia».

Ma non è detto che l’ennesimo tentativo di Washington di riportare il “sultano” all’ordine e di allontanarlo da Mosca – alla quale pure la Turchia ha giocato un brutto tiro spingendo l’Azerbaigian contro l’Armenia e mettendo così più di un piede nel “cortile di casa” russo – sortisca le conseguenze sperate.

Quello che Erdoğan ha definito un “attacco ostile ai diritti sovrani della Turchia e alla sua industria della difesa” potrebbe incentivare Ankara a rendere l’industria bellica turca più autosufficiente, mentre Mosca – che come Teheran ha protestato veementemente contro “l’arroganza statunitense nei confronti del diritto internazionale” – promette di spostare in Turchia una parte della produzione dell’S-400 se i turchi ne compreranno un secondo lotto.

In una delle sue consuete uscite retoriche, il “sultano” si è chiesto, a proposito delle sanzioni americane, «Che alleanza è questa? Che partnership è questa?». In realtà è da molti anni che i rapporti tra Stati Uniti e Turchia sono sempre più tesi, da quando cioè Erdoğan ha iniziato a perseguire una propria politica egemonica e di potenza regionale e internazionale autonoma e spesso in contrasto con gli interessi statunitensi, dal Nord Africa alla Siria, dal Corno d’Africa al Caucaso al Mediterraneo.

Si trascina ancora la diatriba, tra Washington e Ankara, sul ruolo delle milizie curde nel Rojava, che gli Usa hanno tentato di utilizzare come propria “fanteria” dopo lo sbandamento dell’Esercito Siriano Libero, mentre Erdoğan ha fatto di tutto per cacciare dai propri confini, arrivando ad invadere una consistente fascia di territorio nella Siria del nord. Non a caso il ministro della Difesa turco Hulusi Akar ha affermato che il problema più grande tra la Turchia e gli Stati Uniti non è l’S-400 russo, bensì il sostegno di Washington ai “terroristi” curdi del PKK e delle YPG.

E il regime turco non sembra aver perdonato la “tolleranza” dimostrata dagli Stati Uniti nei confronti del fallito golpe militare del luglio 2016; proprio in questi giorni l’accademico statunitense ed ex consulente della Cia, Henri Barkey, e l’imprenditore turco Osman Kavala vengono processati da un tribunale turco con l’accusa di aver tentato di rovesciare il governo e di essersi resi responsabili di spionaggio politico e militare a favore di un non meglio precisato “paese straniero”.

Dopo aver scelto di iniziare il disimpegno, almeno parziale, dalle fin qui strategiche basi turche, in particolare da quella di Incirlik, Washington sembra puntare ora soprattutto sulla Grecia, nemico storico della Turchia e paese nei confronti del quale Erdoğan esercita una pressione sempre più forte nell’ambito della guerra del gas che va in scena nel Mediterraneo Orientale coinvolgendo almeno una decina di paesi.

I rapporti tra gli Stati Uniti e il governo greco di centrodestra di Kyriakos Mitsotakis non sono mai stati così idilliaci. Per sostenere il riarmo, il 15 dicembre il Parlamento greco ha approvato un aumento della spesa militare del 57% rispetto al 2019, portandola a ben 5,5 miliardi di euro. Atene si prepara al raddoppio della base statunitense di Souda (Creta) e all’acquisto di 18 caccia Rafale francesi oltre che di un consistente stock di tank da schierare al confine orientale. E nei prossimi anni potrebbero andare ad Atene anche alcuni F35, quegli stessi la cui consegna alla Turchia fu bloccata dagli USA come ritorsione per l’acquisto del sistema di difesa russo.

Finora Erdoğan ha sfruttato l’importanza militare e strategica della Turchia per ricattare sia gli Usa sia la Russia, giocando contemporaneamente su più tavoli e minacciando di schierarsi con l’uno contro l’altro e viceversa per convincere i propri “alleati” ad accontentare le sue richieste. Ma alcuni segnali lasciano presagire che il giocattolo potrebbe rompersi.

Ankara non solo si è avvicinata troppo alla Russia (nei confronti della quale, comunque, accentua la competizione), ma anche alla Cina. Dopo gli accordi con la multinazionale cinese Huawei, che gli Stati Uniti boicottano perché metterebbe a rischio la loro sicurezza nazionale, ora il regime turco ha anche deciso di comprare decine di milioni di dosi di vaccino anti-Covid dall’azienda di Pechino Sinovac, invece che dalla Pfizer o da Moderna. A molti pezzi dell’establishment americano la Turchia comincia a sembrare ormai una scheggia impazzita, un obiettivo anche più urgente dell’Iran.

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Per Tomaso Montanari

di Luca Baiada

Dai commenti di Tomaso Montanari sulla gestione di Firenze, a «Report», gli amministratori locali, compreso il sindaco Dario Nardella, si sono sentiti così urtati che gli hanno chiesto per vie legali un risarcimento in denaro. Le posizioni di Tomaso Montanari, professore universitario, storico dell’arte e saggista, toccano i punti nevralgici fra potere e cultura, là dove il fare e il sapere possono molto, nel bene o nel male. Mentre la rappresentanza politica è svilita e la partecipazione democratica è mortificata, il compito dell’intellettuale è prezioso. La rassegnazione, il fatalismo, il timore, quando non le connivenze e i compromessi, sono bavagli più efficaci della censura. Se non bastano, ecco le carte bollate.

Lo scopo dell’impegno di Montanari, in questa vicenda come in altre, è segnalare scelte sbagliate, scuotere la cittadinanza fiorentina e italiana, impedire che Firenze, le altre città d’arte e in genere le città, della cultura diventino le tombe invece che le culle.

Scempi vistosi, in Italia, intrecciano affarismo, controllo del territorio e cultura reificata, immiserita in cattivo spettacolo, ridotta a trasformare lo spazio urbano in fondale da botteghe. È uno spaccato della modernità e un terreno di scontro. Montanari questa battaglia ha scelto di combatterla; perciò qui, forse, non vale la pena di sminuzzare le sue parole in un singolo episodio, di distinguerle, di ricollocarle nel contesto di un’intervista dove tutto si chiarisce.

Dallo sblocco delle locazioni con la legge sull’equo canone, per poi inventare i patti in deroga, passando per le regole sulla destinazione dei suoli, proseguendo con gli strumenti urbanistici e le loro varianti furbe, e ancora attraversando le norme e gli atti delle amministrazioni sul commercio, sul turismo e sulla ristorazione, sono decenni che la forma urbana, la comunità murata e integrata con la natura, la dimensione spaziale della cittadinanza, tesori della civiltà italiana e umana, sono stravolte e prostituite. Eppure sono antichi, i moniti a far buon uso dell’antico. Giuseppe Parini: «Conviene avvertire doverci noi italiani guardare che, mentre ci stiamo da noi medesimi adulando davanti allo specchio delle nostre antiche glorie, noi non venghiamo a fare come que’ nobili, che neghittosamente dormono sopra gli allori guadagnati da’ loro avi, e tanto più degni sembrano di biasimo e di vituperio, quanto né meno i domestici esempli vagliono ad eccitare scintille di valore nelle loro anime stupide e intormentite»[1]. Anche la sinistra, snaturando la sua funzione storica, è stata complice, e nascondere questa responsabilità non serve. Proprio nella regione amministrata da sempre dalla sinistra è importante tenere aperti gli occhi, e proprio in Toscana è pericoloso aprire la bocca.

Curiosa, la vicenda della scritta dettata da Luigi Russo nel 1954 per la lapide di San Miniato, dove dieci anni prima, il 22 luglio 1944, c’era stata una strage tedesca. Diceva fra l’altro: «Italiani che leggete, perdonate ma non dimenticate. Lo straniero di ogni parte sia sempre tenuto lontano delle belle contrade rifiutando ogni lusinga o d’aiuto o d’impero. Ricordate che solo nella pace e nel lavoro è l’eterna civiltà». Il prefetto tolse le parole da «lo straniero di ogni parte» a «d’aiuto o d’impero»; la lapide però aveva già le lettere metalliche fissate al marmo, così le parti non approvate furono tolte lasciando i buchi. Passarono gli anni: prima fu aggiunta una nuova lapide per contraddire la precedente e dare la colpa agli Alleati, poi, con la scusa della contraddizione, finirono entrambe in un museo. Bell’esempio di come far sparire la verità: basta appenderci tutt’altro e poi dire che l’attaccapanni sfigura. Se un Montanari denuncia un obbrobrio, basta accusare quel Montanari di un altro obbrobrio; poi si mette tutto l’obbrobriume vero e immaginario nell’indifferenziato, per evitare cattivi odori, fastidiose asimmetrie e posizioni – è una parola che dice voglia di padrone – divisive. Funziona.

Il muro di San Miniato è rimasto vuoto e ignavo. L’ignavia è una colpa, lo insegna un toscano così innamorato e battagliero che morì esule. Nel 2021 cadrà il settimo secolo dalla sua morte, e certamente quelli che hanno in uggia le critiche saranno in prima fila sul palcoscenico. Ma le parole di Luigi Russo, «belle contrade», cancellate subito, additano coi buchi il vuoto di autostima di un bel paese, quello dove a chi comanda piace un popolo fatto di fascisti ringhiosi oppure di imbelli. Adesso, chi difende la bellezza e insieme la democrazia trova avversari pronti a farlo inciampare in qualche parola.

A proposito di parola. Nel 2019 un altro amministratore pubblico dello stesso schieramento che governa Firenze, l’allora presidente della Regione Enrico Rossi, ha ricordato la mancata giustizia sui crimini nazifascisti commessi durante l’occupazione – videro la Toscana fra le regioni più colpite – e ha promesso impegno concreto per ottenere i risarcimenti economici, che sono dovuti dalla Germania ai familiari delle vittime e alla stessa Regione come ente pubblico[2]. I cittadini hanno creduto a una possibilità di giustizia. Ma la parola, Rossi non l’ha mantenuta.

Sono sostanziosi, i risarcimenti che spettano alle famiglie toscane e italiane, per stragi e deportazioni, a carico dello Stato tedesco. Ma gli amministratori fiorentini levano alti lai, trascinano orrende piaghe, sanguinano da ferite immedicabili per le parole di Tomaso Montanari. Dai palazzi del potere i crediti si vedono con un cannocchiale che fa rammentare quel racconto a veglia: «Per chi è codesta minestrona? – È per voi, madre badessa! – Per me codesta minestrina?»[3].

I poeti, diceva Jean Cocteau, fanno solo finta di essere morti. Quell’esule, che a Ravenna si riposa chiudendo un occhio solo, potrà commentare questa storia con due o tre parole delle sue, dure come gioielli e scottanti come lava. I suoi versi dovrebbero insegnar bene, che in Toscana non si è usi discorrere di cose pubbliche sciacquandosi la lingua col brodo di coniglio.

Ma forse no, l’esule farà parlare lo straniero, Albert Camus: «La libertà è il diritto di non mentire. Vero sul piano sociale (subalterno e superiore) e su quello morale»; e anche: «La verità è la sola potenza, allegra, inesauribile. Se fossimo capaci di vivere soltanto della e per la verità: un’energia giovane e immortale in noi. L’uomo di verità non invecchia. Ancora uno sforzo e non morirà»[4].

Note:

1) Giuseppe Parini, Corso sui princìpi di belle lettere, in Prose, Gius. Laterza & Figli, Bari 1913, p. 262

2) Alla commemorazione della strage del Padule di Fucecchio: «L’Armadio della vergogna c’è. Il nostro paese non si è mosso come avrebbe dovuto. Perché le sentenze, contro i mandanti di quelle stragi, non sono state portate a esecuzione. È una vergogna, questa, che ci portiamo dietro, come Italia. E come Regione Toscana siamo disposti a fare ancora di più per arrivare a una degna conclusione». Su Facebook: «Metterò tutto il mio impegno per affiancare i familiari delle vittime delle stragi naziste nella loro richiesta di risarcimento alla Germania e verificare la possibilità di far costituire la Regione stessa. Ci incontreremo a breve per una risposta ufficiale»

3) Una versione è in Rodolfo Nerucci (a cura di), Racconti popolari pistoiesi in vernacolo pistoiese, Premiata tipografia Niccolai, Pistoia 1901, racconto XLVII, p. 62.

4) Albert Camus, Taccuini. Maggio 1935-Febbraio 1942. Febbraio 1942-Marzo 1951. Marzo 1951-Dicembre 1959, Giunti Editore/Bompiani, 2018, pp. 213 e 485

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