È di qualche giorno fa un titolone di
un rotocalco appartenente al gruppo GEDI e alla famiglia Agnelli che
annunciava la presenza di, udite udite, ben 90 mila posti di lavoro disponibili che non attendono altro che essere riempiti. La favoletta è ben nota, ma riteniamo utile raccontarla per chiarire qualche concetto e suggerire qualche linea interpretativa. Repetita iuvant: spendiamo allora qualche riga sulla propaganda che le testate, e spesso le ricerche accademiche, continuano a propinarci, per poi passare alle cose serie.
Il ritornello è ben noto, dicevamo:
in Italia il lavoro non mancherebbe, tutt’altro! Purtroppo, però, i
lavoratori non sono adeguatamente formati o, peggio, preferiscono
poltrire godendo di qualche ‘generoso’ sussidio. Le soluzioni
individuate sarebbero, tanto per cambiare, politiche dell’offerta
finalizzate alla formazione dei giovani alla manovalanza – invece che rincorrere i cavalieri, l’arme e gli amori –
e investimenti in politiche attive, vale a dire in tutte quelle azioni
volte a favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, piuttosto
che lo sperpero di risorse nei sussidi di disoccupazione, i quali non
incentiverebbero i cittadini a cercare attivamente un lavoro, lasciando
scoperte le ghiotte opportunità che gli imprenditori italiani
garantirebbero.
Sfatare la mendacia e l’opportunismo
di queste posizioni è utile e si può fare da diverse prospettive.
Innanzitutto, occorre ricordare che l’occupazione dipende
imprescindibilmente dalla dinamica dell’economia: in una fase di
stagnazione, in cui la domanda di beni e servizi arranca, il livello di
produzione sarà minore, e il processo produttivo necessiterà di meno
lavoratori. Risultato? Maggiore disoccupazione, indipendentemente dalle
caratteristiche dei lavoratori, come invece vogliono farci credere gli
alfieri del neoliberismo.
Si potrebbe inoltre obiettare che la
scelta di lavorare o meno possa essere legittimamente associata alla
retribuzione che quella posizione garantisce. A tal proposito, in Italia
l’andamento delle retribuzioni è stagnante da decenni, la quota salari
sul reddito nazionale è in caduta libera e un fenomeno tremendo come
quello dei working poor, lavoratori che percepiscono uno stipendio insufficiente a uscire dalla trappola della povertà, colpisce più del 12% degli occupati maggiorenni. Legare dunque la percezione di un sussidio alla ricerca del lavoro, come avviene nel caso del Reddito di Cittadinanza,
significa scaricare sul lavoratore l’onere di decidere quale sofferenza
patire: le continue ingiurie dei padroni che li accusano di pigrizia,
o un salario da fame.
Nel quadro attuale, infine, il mercato
del lavoro pare aver introiettato una suddivisione dei ruoli per cui lo
Stato mette mano al portafogli solo per la formazione dei lavoratori,
mentre le aziende ne usufruiscono allo scopo di massimizzare i
profitti, impiegandoli a proprio piacimento. Viene da chiedersi: perché non
dovrebbero essere le stesse imprese a formare la propria manodopera? La
risposta è piuttosto scontata: le aziende vogliono sottrarsi dall’onere
di formare i lavoratori, un impegno che comporta un costo diretto
relativo all’apprendimento, e un costo indiretto associato alla ‘minore
produttività’ legata all’assumere un lavoratore alle prime armi rispetto
ad un suo collega più esperto. Eppure, il diritto del lavoratore alla
formazione da parte delle imprese è stata una tra le lotte più
importanti vinte nel Novecento, perché rappresenta – al pari
dell’istruzione pubblica – uno strumento di mobilità sociale, ossia un
modo tramite il quale le classi sociali più svantaggiate possano ambire a
carriere professionali altrimenti proibitive. Scaricare sullo Stato i
costi di formazione consente esclusivamente di gonfiare i profitti
privati, a scapito della collettività.
Al di là degli aspetti, pur
importanti, legati alla formazione, vogliamo in questa occasione
soffermarci in particolare sui ‘posti vacanti’ evocati nell’articolo
menzionato in apertura. Tale esercizio ci permetterà di sottolineare
come lo stesso entusiasmo nello sparare numeri di volta in volta più
paradossali sia infondato. Con il termine posti vacanti si
intendono quelle posizioni lavorative per cui il datore cerca
attivamente un candidato che le soddisfi. La misura che invece ci aiuta
meglio a capire l’attuale situazione è il tasso di posti vacanti,
misurato come il rapporto tra il numero di posti vacanti e il totale
dei posti di lavoro offerti (quest’ultimo, dato dalla somma tra posti
occupati e posti vacanti). A seconda che si guardi il livello o la
dinamica di queste variabili si avranno indicazioni sulla condizione del
mercato del lavoro o sulle relative prospettive.
Considerando tutte le imprese con
almeno 1 dipendente, secondo i dati Istat, il numero di posti vacanti
nell’industria e nei servizi è pari circa a 200 mila posizioni nel terzo
trimestre del 2020. Una goccia nel mare dei 2 milioni e mezzo di
disoccupati che nessuna politica attiva potrà mai svuotare. Decantare la
presenza di 90 mila posti di lavoro non serve a far altro che
alimentare quella becera retorica che vuole scaricare sui lavoratori la
colpa della disoccupazione. Una bugia dalle gambe corte.
Assumere come feticcio il numero dei
posti vacanti dà un quadro quantomeno parziale, soprattutto se viene
fatto con la malafede dei giornali padronali. Se questi dati fossero
osservati senza tanta disonestà intellettuale, emergerebbe un altro
quadro. L’andamento nel tempo del tasso di posti vacanti,
in particolare, è un dato rilevante per comprendere come siamo arrivati
fin qui e dove stiamo andando: lungi dal descrivere l’incapacità dei
padroni di trovare lavoratori motivati, tale dinamica rappresenta
proprio le aspettative delle imprese rispetto all’andamento
dell’economia. Con prospettive di crescita economica, avremo un tasso di
posti vacanti crescente perché saranno proprio queste previsioni ad
alimentare la domanda di lavoro da parte dei padroni. Se, viceversa, i
posti vacanti diminuiscono, ciò significa che le aziende non sono
interessate ad assumere, dato che vedono ridimensionarsi le possibilità
di profitto non avendo nessuno a cui vendere le proprie merci o servizi.
Ecco quindi che quello che generalmente si osserva in corrispondenza di
una diminuzione del tasso di posti vacanti è una fase di crisi, in cui
il lavoro non c’è perché la domanda aggregata è stagnante, e non una
fase di grandi opportunità a cui il lavoratore non è interessato.
I dati sull’Italia, da questo punto di
vista, sono impietosi: il tasso di posti vacanti, sia per le imprese
con almeno un dipendente sia per quelle con almeno dieci dipendenti, è
stagnante dal 2018. Lo scoppio della pandemia e la drammatica situazione
economica che ne è conseguita hanno provocato un dimezzamento del tasso
di posti vacanti, che ha ripreso a crescere nel secondo trimestre del
2020, ma che non ha tutt’ora raggiunto i livelli di fine 2019. Anzi, il
dato sta segnando, nonostante il riferimento al terzo trimestre non sia
ancora consolidato, un ulteriore rallentamento. È il quadro di
un’economia affossata dalla carenza di domanda interna che azzoppa la
domanda di lavoro. Viste da questa prospettiva, queste giornalate e molte altre assumono tratti grotteschi:
un viscido tentativo, da parte dei padroni, di raschiare il fondo del
barile dello sfruttamento, facendo ricadere sul lavoratore la
responsabilità del suo mancato impiego in quanto non all’altezza di ciò
che l’imprenditore richiede.
Le responsabilità della disoccupazione
che ormai strutturalmente caratterizza l’Italia ricadono sulle spalle
di chi ha avallato precise scelte di politica economica che riflettono i
rapporti di forza tra lavoro e capitale. Rapporti, purtroppo, ai minimi
storici da decenni. Uno strapotere, quello della classe
imprenditoriale, che si traduce in un modello di crescita trainato dalle esportazioni, nella compressione dei salari e nel crescente sfruttamento. E, di conseguenza, in quel mare magnum della
disoccupazione a due cifre in cui la classe padronale sguazza, figlio
di anni di politiche di austerità fiscale: un contesto, previsto e dovuto all’assetto istituzionale europeo,
che rende impossibili quelle politiche di stimolo alla domanda
aggregata necessarie a raggiungere quella piena occupazione che invece spaventa i padroni.
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