Presentazione


Aggregatore d'analisi, opinioni, fatti e (non troppo di rado) musica.
Cerco

20/12/2020

Il lavoro c’è ma i lavoratori si scansano: la favoletta continua

È di qualche giorno fa un titolone di un rotocalco appartenente al gruppo GEDI e alla famiglia Agnelli che annunciava la presenza di, udite udite, ben 90 mila posti di lavoro disponibili che non attendono altro che essere riempiti. La favoletta è ben nota, ma riteniamo utile raccontarla per chiarire qualche concetto e suggerire qualche linea interpretativa. Repetita iuvant: spendiamo allora qualche riga sulla propaganda che le testate, e spesso le ricerche accademiche, continuano a propinarci, per poi passare alle cose serie.

Il ritornello è ben noto, dicevamo: in Italia il lavoro non mancherebbe, tutt’altro! Purtroppo, però, i lavoratori non sono adeguatamente formati o, peggio, preferiscono poltrire godendo di qualche ‘generoso’ sussidio. Le soluzioni individuate sarebbero, tanto per cambiare, politiche dell’offerta finalizzate alla formazione dei giovani alla manovalanza – invece che rincorrere i cavalieri, l’arme e gli amori – e investimenti in politiche attive, vale a dire in tutte quelle azioni volte a favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, piuttosto che lo sperpero di risorse nei sussidi di disoccupazione, i quali non incentiverebbero i cittadini a cercare attivamente un lavoro, lasciando scoperte le ghiotte opportunità che gli imprenditori italiani garantirebbero.

Sfatare la mendacia e l’opportunismo di queste posizioni è utile e si può fare da diverse prospettive. Innanzitutto, occorre ricordare che l’occupazione dipende imprescindibilmente dalla dinamica dell’economia: in una fase di stagnazione, in cui la domanda di beni e servizi arranca, il livello di produzione sarà minore, e il processo produttivo necessiterà di meno lavoratori. Risultato? Maggiore disoccupazione, indipendentemente dalle caratteristiche dei lavoratori, come invece vogliono farci credere gli alfieri del neoliberismo.

Si potrebbe inoltre obiettare che la scelta di lavorare o meno possa essere legittimamente associata alla retribuzione che quella posizione garantisce. A tal proposito, in Italia l’andamento delle retribuzioni è stagnante da decenni, la quota salari sul reddito nazionale è in caduta libera e un fenomeno tremendo come quello dei working poor, lavoratori che percepiscono uno stipendio insufficiente a uscire dalla trappola della povertà, colpisce più del 12% degli occupati maggiorenni. Legare dunque la percezione di un sussidio alla ricerca del lavoro, come avviene nel caso del Reddito di Cittadinanza, significa scaricare sul lavoratore l’onere di decidere quale sofferenza patire: le continue ingiurie dei padroni che li accusano di pigrizia, o un salario da fame.

Nel quadro attuale, infine, il mercato del lavoro pare aver introiettato una suddivisione dei ruoli per cui lo Stato mette mano al portafogli solo per la formazione dei lavoratori, mentre le aziende ne usufruiscono allo scopo di massimizzare i profitti, impiegandoli a proprio piacimento. Viene da chiedersi: perché non dovrebbero essere le stesse imprese a formare la propria manodopera? La risposta è piuttosto scontata: le aziende vogliono sottrarsi dall’onere di formare i lavoratori, un impegno che comporta un costo diretto relativo all’apprendimento, e un costo indiretto associato alla ‘minore produttività’ legata all’assumere un lavoratore alle prime armi rispetto ad un suo collega più esperto. Eppure, il diritto del lavoratore alla formazione da parte delle imprese è stata una tra le lotte più importanti vinte nel Novecento, perché rappresenta – al pari dell’istruzione pubblica – uno strumento di mobilità sociale, ossia un modo tramite il quale le classi sociali più svantaggiate possano ambire a carriere professionali altrimenti proibitive. Scaricare sullo Stato i costi di formazione consente esclusivamente di gonfiare i profitti privati, a scapito della collettività.

Al di là degli aspetti, pur importanti, legati alla formazione, vogliamo in questa occasione soffermarci in particolare sui ‘posti vacanti’ evocati nell’articolo menzionato in apertura. Tale esercizio ci permetterà di sottolineare come lo stesso entusiasmo nello sparare numeri di volta in volta più paradossali sia infondato. Con il termine posti vacanti si intendono quelle posizioni lavorative per cui il datore cerca attivamente un candidato che le soddisfi. La misura che invece ci aiuta meglio a capire l’attuale situazione è il tasso di posti vacanti, misurato come il rapporto tra il numero di posti vacanti e il totale dei posti di lavoro offerti (quest’ultimo, dato dalla somma tra posti occupati e posti vacanti). A seconda che si guardi il livello o la dinamica di queste variabili si avranno indicazioni sulla condizione del mercato del lavoro o sulle relative prospettive.

Considerando tutte le imprese con almeno 1 dipendente, secondo i dati Istat, il numero di posti vacanti nell’industria e nei servizi è pari circa a 200 mila posizioni nel terzo trimestre del 2020. Una goccia nel mare dei 2 milioni e mezzo di disoccupati che nessuna politica attiva potrà mai svuotare. Decantare la presenza di 90 mila posti di lavoro non serve a far altro che alimentare quella becera retorica che vuole scaricare sui lavoratori la colpa della disoccupazione. Una bugia dalle gambe corte.

Assumere come feticcio il numero dei posti vacanti dà un quadro quantomeno parziale, soprattutto se viene fatto con la malafede dei giornali padronali. Se questi dati fossero osservati senza tanta disonestà intellettuale, emergerebbe un altro quadro. L’andamento nel tempo del tasso di posti vacanti, in particolare, è un dato rilevante per comprendere come siamo arrivati fin qui e dove stiamo andando: lungi dal descrivere l’incapacità dei padroni di trovare lavoratori motivati, tale dinamica rappresenta proprio le aspettative delle imprese rispetto all’andamento dell’economia. Con prospettive di crescita economica, avremo un tasso di posti vacanti crescente perché saranno proprio queste previsioni ad alimentare la domanda di lavoro da parte dei padroni. Se, viceversa, i posti vacanti diminuiscono, ciò significa che le aziende non sono interessate ad assumere, dato che vedono ridimensionarsi le possibilità di profitto non avendo nessuno a cui vendere le proprie merci o servizi. Ecco quindi che quello che generalmente si osserva in corrispondenza di una diminuzione del tasso di posti vacanti è una fase di crisi, in cui il lavoro non c’è perché la domanda aggregata è stagnante, e non una fase di grandi opportunità a cui il lavoratore non è interessato.

I dati sull’Italia, da questo punto di vista, sono impietosi: il tasso di posti vacanti, sia per le imprese con almeno un dipendente sia per quelle con almeno dieci dipendenti, è stagnante dal 2018. Lo scoppio della pandemia e la drammatica situazione economica che ne è conseguita hanno provocato un dimezzamento del tasso di posti vacanti, che ha ripreso a crescere nel secondo trimestre del 2020, ma che non ha tutt’ora raggiunto i livelli di fine 2019. Anzi, il dato sta segnando, nonostante il riferimento al terzo trimestre non sia ancora consolidato, un ulteriore rallentamento. È il quadro di un’economia affossata dalla carenza di domanda interna che azzoppa la domanda di lavoro. Viste da questa prospettiva, queste giornalate e molte altre assumono tratti grotteschi: un viscido tentativo, da parte dei padroni, di raschiare il fondo del barile dello sfruttamento, facendo ricadere sul lavoratore la responsabilità del suo mancato impiego in quanto non all’altezza di ciò che l’imprenditore richiede.

Le responsabilità della disoccupazione che ormai strutturalmente caratterizza l’Italia ricadono sulle spalle di chi ha avallato precise scelte di politica economica che riflettono i rapporti di forza tra lavoro e capitale. Rapporti, purtroppo, ai minimi storici da decenni. Uno strapotere, quello della classe imprenditoriale, che si traduce in un modello di crescita trainato dalle esportazioni, nella compressione dei salari e nel crescente sfruttamento. E, di conseguenza, in quel mare magnum della disoccupazione a due cifre in cui la classe padronale sguazza, figlio di anni di politiche di austerità fiscale: un contesto, previsto e dovuto all’assetto istituzionale europeo, che rende impossibili quelle politiche di stimolo alla domanda aggregata necessarie a raggiungere quella piena occupazione che invece spaventa i padroni.

Fonte

Nessun commento:

Posta un commento