di Marco Santopadre
Dopo anni di avvertimenti e minacce, alternati a concessioni, Washington si è alla fine decisa a imporre sanzioni alla Turchia, che pure formalmente è uno dei suoi alleati storici e partner tra i più importanti nell’Alleanza Atlantica.
La Turchia è stata punita per aver acquistato dalla Russia, nel 2017, i sistemi di difesa missilistica S-400. Washington ha più volte protestato e minacciato ritorsioni sostenendo che l’acquisto fosse incompatibile con l’appartenenza alla Nato e che avrebbe consentito a Mosca di accedere ad alcune tecnologie segrete statunitensi utilizzate dall’esercito turco.
Ma Erdoğan ha tirato dritto e, dopo il collaudo delle batterie russe, il Congresso americano, in maniera bipartisan, si è convinto a dar seguito alle minacce, superando le resistenze di Donald Trump e varando una legge ad hoc, il “National Defense Authorization Act”, che sembra anticipare un atteggiamento più duro di Biden nei confronti del suo “alleato”.
Il presidente neo-eletto è noto per le sue dichiarazioni di fuoco contro Erdoğan, spesso definito un “autocrate”, e per le critiche alla tolleranza dimostrata dal suo predecessore nei confronti della Turchia. E recentemente, in un viaggio a Istanbul di Mike Pompeo – durante il quale non ha incontrato il “sultano” – il segretario di Stato americano ha velatamente accennato alla necessità di un cambio di regime in Turchia durante un’intervista al quotidiano francese Le Figaro. Tra due mesi Pompeo non sarà più il capo della diplomazia statunitense, ma i suoi toni potrebbero rivelare che gli apparati del paese propendono ora più per il bastone che per la carota.
Le sanzioni appena varate sono dirette contro la “Presidenza delle industrie della Difesa” (Savunma Sanayii Başkanlığı SSB) – ente che si occupa delle importazioni e delle esportazioni di armi e di gestire l’industria bellica turca – il suo presidente Ismail Demir ed altri dirigenti. Il SSB gestisce circa 700 progetti per un valore di 8,5 miliardi di euro.
Il ministro degli esteri turco, Mevlut Cavusoglu, ha affermato che le misure non avranno conseguenze sulla Turchia ma il “ban” produrrà delle conseguenze rilevanti, rendendo più difficile l’approvvigionamento di armi, pezzi di ricambio, tecnologie e licenze di utilizzo di cui Ankara ha bisogno.
Qualche settimana fa il Wall Street Journal ricordava che tanto gli Usa quanto l’Ue devono «contenere l’aspirazione della Turchia ad emanciparsi dalle catene della Nato per diventare una potenza regionale autonoma, ma senza spingere Erdoğan tra le braccia della Russia».
Ma non è detto che l’ennesimo tentativo di Washington di riportare il “sultano” all’ordine e di allontanarlo da Mosca – alla quale pure la Turchia ha giocato un brutto tiro spingendo l’Azerbaigian contro l’Armenia e mettendo così più di un piede nel “cortile di casa” russo – sortisca le conseguenze sperate.
Quello che Erdoğan ha definito un “attacco ostile ai diritti sovrani della Turchia e alla sua industria della difesa” potrebbe incentivare Ankara a rendere l’industria bellica turca più autosufficiente, mentre Mosca – che come Teheran ha protestato veementemente contro “l’arroganza statunitense nei confronti del diritto internazionale” – promette di spostare in Turchia una parte della produzione dell’S-400 se i turchi ne compreranno un secondo lotto.
In una delle sue consuete uscite retoriche, il “sultano” si è chiesto, a proposito delle sanzioni americane, «Che alleanza è questa? Che partnership è questa?». In realtà è da molti anni che i rapporti tra Stati Uniti e Turchia sono sempre più tesi, da quando cioè Erdoğan ha iniziato a perseguire una propria politica egemonica e di potenza regionale e internazionale autonoma e spesso in contrasto con gli interessi statunitensi, dal Nord Africa alla Siria, dal Corno d’Africa al Caucaso al Mediterraneo.
Si trascina ancora la diatriba, tra Washington e Ankara, sul ruolo delle milizie curde nel Rojava, che gli Usa hanno tentato di utilizzare come propria “fanteria” dopo lo sbandamento dell’Esercito Siriano Libero, mentre Erdoğan ha fatto di tutto per cacciare dai propri confini, arrivando ad invadere una consistente fascia di territorio nella Siria del nord. Non a caso il ministro della Difesa turco Hulusi Akar ha affermato che il problema più grande tra la Turchia e gli Stati Uniti non è l’S-400 russo, bensì il sostegno di Washington ai “terroristi” curdi del PKK e delle YPG.
E il regime turco non sembra aver perdonato la “tolleranza” dimostrata dagli Stati Uniti nei confronti del fallito golpe militare del luglio 2016; proprio in questi giorni l’accademico statunitense ed ex consulente della Cia, Henri Barkey, e l’imprenditore turco Osman Kavala vengono processati da un tribunale turco con l’accusa di aver tentato di rovesciare il governo e di essersi resi responsabili di spionaggio politico e militare a favore di un non meglio precisato “paese straniero”.
Dopo aver scelto di iniziare il disimpegno, almeno parziale, dalle fin qui strategiche basi turche, in particolare da quella di Incirlik, Washington sembra puntare ora soprattutto sulla Grecia, nemico storico della Turchia e paese nei confronti del quale Erdoğan esercita una pressione sempre più forte nell’ambito della guerra del gas che va in scena nel Mediterraneo Orientale coinvolgendo almeno una decina di paesi.
I rapporti tra gli Stati Uniti e il governo greco di centrodestra di Kyriakos Mitsotakis non sono mai stati così idilliaci. Per sostenere il riarmo, il 15 dicembre il Parlamento greco ha approvato un aumento della spesa militare del 57% rispetto al 2019, portandola a ben 5,5 miliardi di euro. Atene si prepara al raddoppio della base statunitense di Souda (Creta) e all’acquisto di 18 caccia Rafale francesi oltre che di un consistente stock di tank da schierare al confine orientale. E nei prossimi anni potrebbero andare ad Atene anche alcuni F35, quegli stessi la cui consegna alla Turchia fu bloccata dagli USA come ritorsione per l’acquisto del sistema di difesa russo.
Finora Erdoğan ha sfruttato l’importanza militare e strategica della Turchia per ricattare sia gli Usa sia la Russia, giocando contemporaneamente su più tavoli e minacciando di schierarsi con l’uno contro l’altro e viceversa per convincere i propri “alleati” ad accontentare le sue richieste. Ma alcuni segnali lasciano presagire che il giocattolo potrebbe rompersi.
Ankara non solo si è avvicinata troppo alla Russia (nei confronti della quale, comunque, accentua la competizione), ma anche alla Cina. Dopo gli accordi con la multinazionale cinese Huawei, che gli Stati Uniti boicottano perché metterebbe a rischio la loro sicurezza nazionale, ora il regime turco ha anche deciso di comprare decine di milioni di dosi di vaccino anti-Covid dall’azienda di Pechino Sinovac, invece che dalla Pfizer o da Moderna. A molti pezzi dell’establishment americano la Turchia comincia a sembrare ormai una scheggia impazzita, un obiettivo anche più urgente dell’Iran.
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