Se qualcuno sta cercando ancora risposte al perché un paese moderno ha avuto tante morti, tanti contagiati e tante strutture sanitarie collassate per la pandemia di Covid-19, molte di queste sono sul “come” la sanità italiana si è venuta a trovare quando è esplosa l’emergenza pandemica.
Una elaborazione del Quotidiano Sanità ha fatto un confronto sui dati più recenti dell‘Annuario del Servizio Sanitario Nazionale rispetto a quelli del 2013. La pubblicazione è una fonte ufficiale – il Ministero della Sanità – ma i risultati della messa al confronto sulla situazione della sanità pubblica del paese, ancora prima della pandemia di Covid-19, gridano vendetta.
In cinque anni (2013-2018) nella sanità pubblica sono state chiuse il 5,2% delle strutture mentre nel settore privato sono cresciute del 7,2%. Non solo. Anche nella medicina territoriale c’è stata una pesantissima riduzione dei medici di famiglia: oltre 2mila in meno. In compenso la sanità privata è cresciuta ed ha superato quella pubblica su molti servizi.
Dunque, in soli cinque anni, dal 2013 al 2018, il Servizio sanitario nazionale ha chiuso 74 strutture di ricovero (45 pubbliche e 29 private), 413 strutture di specialistica ambulatoriale (316 nel pubblico e 97 nel privato).
Nel settore dell’assistenza territoriale residenziale le strutture pubbliche si sono ridotte di 159 unità, mentre quelle private sono aumentate di 837; per l’assistenza territoriale semi residenziale si registra un -30 nel pubblico e +289 nel privato; per l’altra assistenza territoriale -87 pubbliche e +6 private; per l’assistenza riabilitativa +9 pubbliche e +69 private.
Tirando le somme, la sanità pubblica ha perso il 5,2% di strutture mentre nella sanità privata sono aumentate del 7,2%. Facendo i conti in valori assoluti la sanità pubblica dispone in tutto di 11.403 strutture sanitarie mentre quella privata l’ha scavalcato arrivando 15.808.
Ma lo smantellamento sistematico del Servizio Sanitario Nazionale è leggibile da dati ancora più pesanti ed esplicativi. Ad esempio i posti letto ospedalieri tra pubblico e privato tra il 2013 e il 2018 sono scesi di 13.457 unità (ma di questi ben 10 mila sono solo in quelli pubblici).
E poi ci sono i tagli al personale sanitario dove in cinque anni si registrano ben 22.246 unità in meno.
Mancano all’appello 2.216 medici di medicina generale – che nel 2018 sono 42.987 contro i 45.203 del 2013 – ci sono 206 pediatri in meno (sono 7.499 nel 2018, erano 7.705 nel 2013), ma 304 medici di guardia medica in più.
Le strutture censite nell’Annuario del Ssn risultano essere 995 per l’assistenza ospedaliera, 8.801 per l’assistenza specialistica ambulatoriale, 7.512 per l’assistenza territoriale residenziale, 3.145 per l’assistenza territoriale semiresidenziale, 5.613 per altra assistenza territoriale e 1.145 per l’assistenza riabilitativa (ex. art. 26 L. 833/78).
Per quanto riguarda la natura delle strutture, le strutture che erogano assistenza ospedaliera sono in maggioranza pubbliche (51,8%) così come le strutture che erogano altra assistenza territoriale (87,0%). Ma sono in maggioranza private e accreditate le strutture che erogano assistenza territoriale residenziale (82,5%), quella semiresidenziale (69,9%) e le strutture che erogano assistenza riabilitativa ex art.26 L. 833/78 (77,5%).
Nel 2018 l’assistenza ospedaliera si è avvalsa di 1.059 istituti di cura, di cui il 48,6% pubblici ed il rimanente 51,4% privati accreditati. Il 63,5% delle strutture pubbliche è costituito da ospedali direttamente gestiti dalle Aziende Sanitarie Locali, il 10,3% da Aziende Ospedaliere, ed il restante 26,2% dalle altre tipologie di ospedali pubblici.
Il Servizio Sanitario Nazionale dispone di circa 190 mila posti letto per degenza ordinaria, di cui il 21,4% nelle strutture private accreditate, 12.541 posti per day hospital, quasi totalmente pubblici (89,2%) e di 8.510 posti per day surgery in grande prevalenza pubblici (77,5%). A livello nazionale sono disponibili 3,5 posti letto ogni 1.000 abitanti.
Se si guarda alla distribuzione territoriale emergono chiaramente i punti critici che sono sotto questa soglia: la Calabria (2,9 posti letto), Campania (3,1) e Puglia (3,1) sono fra le Regioni con la minor disponibilità di posti letto.
I reparti direttamente collegati all’area dell’emergenza nel 2018 disponevano per il complesso degli istituti pubblici e privati accreditati di 5.176 posti letto di terapia intensiva (oggi con l’emergenza Covid sono saliti a 9.931 ndr), 1.080 posti letto di terapia intensiva neonatale (2,45 per 1.000 nati vivi), e 2.532 posti letto per unità coronarica (4,19 per 100.000 abitanti).
A livello nazionale ogni medico di base ha un carico potenziale di utenti pari a 1.232 adulti residenti ma anche qui a livello regionale esistono notevoli differenziazioni tra le Regioni del Nord e quelle del Sud. Per i pediatri il carico potenziale di utenti a livello nazionale è di 985 bambini, con un’ampia variabilità territoriale (da un valore di 864 bambini per pediatra in Puglia a 1.236 bambini per pediatra nella Provincia Autonoma di Bolzano). Tutte le Regioni sono comunque caratterizzate da una carenza più o meno accentuata di pediatri in convenzione con il Servizio Sanitario Nazionale.
Nel 2018 il personale sanitario era di 604.104 unità così ripartito: il 72,0% nel ruolo sanitario, il 17,4% in ruoli tecnici, il 10,4% come amministrativo e lo 0,2% in ruolo professionale. Nell’ambito del ruolo sanitario, il personale medico è costituito da 101.876 unità, quello infermieristico da 253.819 unità; il rapporto fra infermieri e medici, a livello nazionale, si attesta sul valore di 2,5 infermieri per ogni medico. Nelle strutture di ricovero pubbliche ed equiparate operano 94.464 medici e 236.756 unità di personale infermieristico.
Questi sono i nudi e crudi dati statistici sulla situazione della sanità pubblica in Italia prima dell’emergenza pandemica. Ma sono anche i risultati di scelte politiche ed economiche consapevoli e precise che hanno prodotto questo collasso e smantellamento della sanità pubblica a tutto vantaggio di quella privata. I fatti dimostrano che una decisa controtendenza non può che essere all’ordine del giorno, ma quanto stiamo vedendo ci dice che non è così.
Continuiamo a ritenere che la classe politica nazionale e regionale che ha governato questo ultimo ventennio – ma anche solo il quinquennio esaminato – dovrebbe essere processata nelle piazze per le scelte che ha fatto e le conseguenze che ha prodotto.
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