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19/12/2020

La vittoria di Biden e i democratici americani

A ormai più di un mese dalla data delle elezioni americane, il verdetto è chiaro: con 306 grandi elettori e circa 6 milioni in più di voti, Joe Biden si è guadagnato la presidenza, nonostante la riluttanza di Donald Trump ad ammettere la sconfitta. Per quanto in molti ambienti di sinistra vi sia stata esultanza per la caduta di un presidente dallo stampo reazionario e lontano dalle classi popolari e dalle minoranze maggiormente sfruttate – come gli scontri razziali dell’ultimo periodo hanno mostrato – non c’è stato al contempo lo stesso livello di approvazione per il candidato vincitore: una figura nota del panorama americano, più interessata alla salvaguardia della classe borghese americana che non alla promozione di tutele e programmi a livello sociale: fin dagli anni ’80, la sua politica, ben lungi da avere anche solo caratteri di stampo keynesiano, si è concentrata su proposte antipopolari quali l’aumento dell’età pensionabile, il congelamento degli adeguamenti all’inflazione o veri e propri tagli a programmi di sicurezza sociale, al medicare, medicaid, ecc. [1]

Un neo-presidente che, durante la campagna elettorale, è stato persino capace di gaffe al limite dell’inverosimile nel tentativo di avvicinare a sé gli elettori che vedevano di buon occhio movimenti quali Black lives matter, affermando davanti a rappresentanti della comunità afro-americana che i poliziotti andrebbero addestrati a sparare non al cuore, ma alle gambe di possibili soggetti “pericolosi” interni alle manifestazioni [2].

Ovviamente non bisogna, di fronte a tali dati, scadere nella banalità per cui Biden e Trump rappresentino la stessa linea politica. Da un lato, certamente non escono dall’obiettivo di tutelare gli interessi della classe borghese; dall’altro, però, essi sono i portavoce di due concezioni diverse su come effettivamente questi interessi vadano portati avanti.

Siamo entrati in un periodo di crisi per il sistema americano, che non riesce più a mantenere la propria egemonia economica e politica come in passato: per quanto siano ancora la prima potenza economica, gli Stati Uniti mostrano da qualche anno una certa difficoltà e sono stati non poco colpiti dall’attuale crisi pandemica, mentre la seconda potenza mondiale, la Cina, è riuscita a evitare lo scoppiare di un secondo picco pandemico, sembra aver ripreso, primo fra i paesi del G-20, una crescita economica sostenuta [3] e sta man mano aumentando il proprio peso nell’economia globale – a riguardo, ha un peso notevole il recente accordo di libero scambio con altri 14 paesi dell’area Asia-Pacifico, che assieme alla Cina esprimono il 30% del PIL globale. In questa situazione, la classe borghese statunitense non mostra compattezza su come affrontare la situazione di crisi. Il risultato è che, da un lato, vi è chi, nello scontro interimperialistico, ritiene più corretto colpire economicamente con una guerra commerciale la Cina – come l’amministrazione Trump ha fatto – ed essere più accondiscendenti con la Russia, al fine di evitare un convergere dei suoi interessi con la prima; dall’altro, vi è chi ritiene che l’attenzione debba essere piuttosto diretta contro lo stato russo anziché contro l’economia cinese. Situazione che spiega i toni aspri dei due candidati durante la campagna elettorale, espressione di un conflitto più che reale in seno alla borghesia americana [4].

Se tuttavia, come già detto, non molti si fanno chissà quali illusioni su Biden, nel mondo della sinistra alcune speranze sono riposte nell’ala più radicale dei dem: in quei parlamentari che spingono per politiche più progressiste, per maggiori programmi sociali e di stampo popolare. In particolare, fra i volti più noti e quelli considerati fra i più a sinistra vi sono sicuramente Bernie Sanders – arrivato secondo alle primarie dem – e la giovane deputata Alexandra Ocasio-Cortez, oltre ad alcuni altri che, assieme a questi, non hanno remore a definirsi socialisti democratici [5]. Questi deputati che posizione portano di preciso? Riprendendo le parole dalla propaganda stessa di Sanders [6], essere socialista democratico significa basarsi sugli insegnamenti della politica di Roosevelt, attento a lottare per garantire diritti economici e sociali agli americani nel loro complesso, nonché sulle critiche di Martin Luther King jr. al sistema americano, che è socialismo per i ricchi e gretto individualismo per i poveri. Tale struttura socio-economica mette a repentaglio la democrazia americana, che va dunque tutelata limitando le esagerazioni del sistema capitalista, tramite azioni di redistribuzione della ricchezza tassando maggiormente i super ricchi [7], la promozione di maggiori tutele sociali nei confronti delle classi medio-basse, nonché una riduzione della spesa militare e delle guerre senza fine all’estero, l’appoggio a politiche anti-razziste e di tutela delle minoranze, maggiori fondi per l’emergenza climatica, ecc. Al di là di alcune contraddizioni fra le proprie proposte e il proprio operato – non sempre Sanders ha votato contro le guerre, approvando anzi quella in Bosnia del 1998 e l’intervento in Kosovo nel 1999 – si tratta di posizioni basate sull’idea che il capitalismo non è la malattia, ma è malato e va dunque riformato. Ocasio-Cortez ha ribadito, in un’intervista, che è possibile essere socialista democratico e capitalista: lo può essere anche un padrone, se il suo operato punta a favorire una distribuzione più equa dei profitti, una partecipazione di stampo cooperativo dei lavoratori nel luogo di lavoro, ecc. [8] Esplicitato questo punto e data l’ovvietà che non si ha a che fare con concezioni di stampo marxista, è comunque facile vedere di buon occhio proposte più attente alla classe lavoratrice rispetto all’attuale panorama politico americano e non sono neppure mancati compagni che sono cascati nella speranza che i radicali dem possano essere i portavoce di un reale cambiamento.

La domanda da farsi, di conseguenza, è: che ruolo hanno, coloro che si definiscono democratic socialists, all’interno dei dem? Possono diventare reali rappresentanti degli interessi dei lavoratori americani?

Innanzitutto, per cercare di abbozzare una risposta, va posta attenzione su come il partito democratico, nel suo complesso, si è posto nei confronti di tali idee. L’area più moderata attualmente è la maggioranza all’interno dei dem e non ha mostrato grande apprezzamento per un possibile radicamento di politiche maggiormente di sinistra, specie di fronte a una situazione di disagio sociale che gli ultimi anni ha preso sempre più piede e che favorisce nei ceti medio-bassi la richiesta di misure sociali di sostegno. Fin dalle primarie è stata chiara la posizione della maggioranza del partito: a fronte di una partenza favorevole a Sanders – capace di conquistarsi il New Hampshire e il Nevada – e delle proiezioni che iniziavano a dare vincitore il candidato più a sinistra, i concorrenti secondari hanno iniziato man mano a ritirarsi e fare endorsement a Biden, dando un aiuto non indifferente a quest’ultimo: poco prima del Super Tuesday [9], Buttigieg e Klobuchar si sono ritirati dalla corsa indicando di votare Biden. Il 4 marzo, ha fatto lo stesso Bloomberg dati i suoi scarsi risultati. Scalpore ha fatto poi il mancato appoggio della Warren a Sanders, che invece non si è ritirata prima del Super Tuesday – togliendo così voti possibili per Sanders, essendo lei la candidata più vicina a quest’ultimo – bensì solo due giorni dopo, facendo endorsement a Biden quale presunto vincitore. Finite le primarie e con Biden ormai sicuro sfidante di Trump, l’ala dem più radicale ha accettato di lottare elettoralmente per la vittoria del proprio candidato e, nonostante questo, è stata tacciata dall’ala centrista di essere stata un danno e di aver fatto perdere voti al proprio partito: posizioni troppo radicali, come il medicare for all o il definanziamento agli organi di polizia, avrebbero infatti spaventato la maggioranza moderata della popolazione, e non avrebbero fatto cambiare idea ai supporter di Trump che andavano conquistati [10]. Questo nonostante durante le primarie le previsioni davano una maggiore possibilità di vittoria di Sanders che non di Biden contro Trump, o nonostante gli effettivi risultati elettorali abbiano mostrato che chi ha appoggiato una sanità più universale sia stato eletto, mentre chi si avvicinava maggiormente a politiche di destra abbia preso meno voti di quelli più posizionati a sinistra [11]. Lo ha ribadito Cortez stessa, per cui chi ha appoggiato politiche più progressiste ha fatto guadagnare voti ai dem: non bisogna dunque aver paura di sostenere le proteste anti-razziste, né posizioni sociali più avanzate [12]. Senza di ciò, probabilmente non si avrebbe avuto lo stesso afflusso di voti dem da parte della comunità afroamericana o della working class in certi territori [13]. Affermazione che, tra l’altro, evidenzia il ruolo tutt’altro anti-stablishment assunto dai radicali dem: la loro presenza e le loro proposte si sono infatti rivelate utili al mantenimento dello status quo, facendo affluire parecchi voti delle classi popolari a un partito dalla chiara guida moderata.

La maggioranza del partito ha, infatti, mantenuto una palese ostilità a politiche redistributive. Una risposta più che comprensibile, se si pensa a come funziona il sistema politico americano. L’appartenenza partitica comporta un’unità ideologica e organizzativa molto lasca e il sistema elettorale uninominale rende estremamente personalizzata ogni campagna elettorale. I candidati si ritrovano a dover guadagnare i voti all’interno del proprio collegio, entrando direttamente in relazione con i gruppi di interesse, che cercano di spingere il candidato a perseguire determinate politiche in cambio del loro appoggio. Tali gruppi sono sia espressione delle realtà industriali e commerciali private che di cittadini o lavoratori organizzati insieme, ma il peso di lobbying delle prime è assai maggiore: si calcola che le corporation spendano circa 2,6 miliardi di dollari per influenzare i politici e che, a ogni dollaro speso da organizzazioni sindacali o gruppi di cittadini per promuovere un interesse pubblico in politica, esse ne spendano 3.414. Tale situazione è stata aumentata specie negli ultimi decenni, di fronte all'incremento della forza di pressione delle grandi società private e a un loro accresciuto interesse non tanto per tenere il governo fuori dai propri affari, bensì per direzionare direttamente la politica pubblica a proprio favore. Questo contesto fa anche capire come mai nel periodo elettorale ci sia una forte spesa per supportare le campagne di determinati candidati (in queste elezioni, Biden è stato il candidato col maggior numero di donazioni): in totale, si è calcolato che le elezioni americane nel 2020 sono costate 14 miliardi, un record rispetto agli anni precedenti [15].

Di conseguenza, se molti candidati dipendono fortemente dal mondo dell’economia privata – senza, perciò, dimenticare anche altri gruppi di interesse – è inevitabile che buona parte dei dem stessi certamente non mostrino chissà che accondiscendenza per politiche che contraddirebbero i gruppi di interesse che li hanno promossi durante le elezioni. Nonostante questo, ai socialisti democratici conviene rimanere dentro ai dem, cioè all’unica realtà che concretamente permette ad alcuni di loro di essere eletti. È lo stesso sistema elettorale americano che favorisce l’inglobamento delle idee più social-democratiche nel Partito Democratico: il suo funzionamento di carattere maggioritario rende estremamente difficile a un partito terzo di farsi strada fra lo stradominio di repubblicani e democratici. Nelle elezioni presidenziali, chi prende il maggior numero di voti in uno Stato [16] ottiene tutti i grandi elettori assegnati a esso, i quali poi saranno fra coloro che eleggeranno presidente e vicepresidente. Anche per le elezioni dei deputati del congresso e dei senatori si adotta il maggioritario semplice. Il risultato storico di questo sistema è stato l’estrema polarizzazione dell’elettorato americano, diviso in repubblicani e democratici. Solo una minima fetta di elettori vota infatti al di fuori di questi due partiti, a causa della consapevolezza e convinzione diffusa che non ci sono speranze neppure per eleggere un solo deputato di un partito terzo.

Di fronte alla mancanza di partiti realmente vicini alle masse e alla apparentemente inscalfibile direzione anti-popolare del Partito Democratico, vi è però chi ritiene plausibile che esso possa esser spinto dai socialisti democratici verso politiche più popolari, allacciandosi, per giustificare questa idea, al passato: gli stessi socialisti democratici, nel richiamarsi a Roosevelt e al New Deal, evidenziano che c’è stato un periodo della storia americana, fra gli anni ’30 e gli anni ’70, in cui effettivamente si è sviluppata una politica meno predatoria nei confronti della working class – almeno quella propria, visto che la politica estera americana non ha mai abbassato le proprie mire imperialistiche.

L’errore, in tale argomentazione, sta tuttavia nel concepire questa eccezione storica come l’espressione di un’ala radicale dei dem che si è fatta strada nel partito: lo stesso Roosevelt, prima di intraprendere una certa politica sociale negli anni ’30 e ’40, non si discostava dagli altri politici di stampo moderato. Ciò che ha fatto la differenza all’epoca era una serie di fattori ora non presenti, fra cui un contesto internazionale differente – con il blocco socialista che diventava tanto più attraente per i lavoratori quanto più il sistema capitalista americano in recessione non offriva soluzioni alle condizioni critiche dei lavoratori – nonché la forte presenza di realtà politiche e sindacali di stampo socialista e comunista, che hanno permesso a molti lavoratori di prendere coscienza della propria forza di classe, di capire come organizzarsi per ottenere miglioramenti delle proprie condizioni, di comprendere che si poteva puntare a un sistema politico differente. Fra gli esempi, si pensi al ruolo del PCUSA nell’organizzare gli stessi disoccupati fin dall’inizio degli anni ’30, in piena recessione economica, e promuovere attivamente sia proposte politiche, come l’assegno di disoccupazione (che sarà pochi anni dopo istituito da Roosevelt), che azioni pratiche di tutela della working class: tramite l’organizzazione degli stessi ceti popolari, si riuscì infatti a bloccare lo sfratto di decine di migliaia di affittuari, nonché a evitare pignoramenti agricoli di piccoli agricoltori [17]. Sempre negli anni ’30, si sono registrati fra i più grandi scioperi della storia americana, i quali hanno permesso ai lavoratori di differenti stabilimenti e aziende di ottenere il diritto all’organizzazione sindacale, garantire la tutela e il rispetto da parte dei padroni di contrattazioni collettive, nonché mettere alle strette il governo americano nel promuovere certe politiche sociali [18]. Fra gli esempi principali, si pensi allo sciopero generale a San Francisco del 1934, guidato da Harry Bridges dell’ILWU, sindacato rappresentante soprattutto lavoratori portuali della costa ovest, con cui si ottenne la legittimazione del sindacato all’interno delle realtà portuali e un miglioramento delle condizioni lavorative; oppure allo sciopero a Flint negli stabilimenti General Motors, promosso dal sindacato United Automobile Workers e durato più mesi a partire da dicembre 1936: finì con una vittoria dei lavoratori, che ottennero anch’essi riconosciuto il diritto di organizzazione sindacale e un incremento del 5% del salario [19].

Roosevelt si è insomma ritrovato a promuovere certe politiche perché il contesto lo obbligava; il mondo borghese ha dovuto accettare certe concessioni per prevenire situazioni per sé peggiori. In tal modo si sono così conquistate politiche più popolari, per quanto negli anni successivi la classe lavoratrice americana non sia riuscita a difendere quanto ottenuto – sono ormai note le forti politiche anticomuniste e antisindacali intraprese dai governi americani a partire dagli anni ’50, che hanno indebolito le organizzazioni dei lavoratori e delle realtà più a sinistra. La situazione di relativa crescita economica nel dopoguerra ha comunque, per un certo periodo, favorito il mantenimento di certe politiche sociali, salvo poi – di fronte alla crisi economica degli anni ’70 e alla suddetta frammentazione e debolezza del fronte dei lavoratori – vedere i capitalisti vittoriosi nel riuscire a promuovere politiche neoliberiste e i conseguenti tagli alla spesa pubblica. In conseguenza di tali riflessioni, l’unica funzione che sembra assumere l’ala radicale dem è quella di sostenere un partito che non dovrebbe avere neppure il minimo supporto elettorale da parte dei lavoratori.

Inoltre, si evidenzia un altro problema: direzionare la politica in un senso popolare è impossibile se la classe dei lavoratori non è organizzata e non ha coscienza di come usare le proprie forze per far paura alla classe borghese e strappare concessioni a quest'ultima.

Manca attualmente, nel contesto statunitense odierno, la presenza di una soggettività politica che sia un reale riferimento politico per le masse, che permetta che le proteste spontanee abbraccino un orizzonte strategico più ampio, che riescano a unirsi in un’ottica di scontro con la classe capitalista.

Certo, lo spontaneismo totale non esiste e non mancano realtà di movimento o partitiche che hanno guidato le ultime rivolte. Si tratta tuttavia di soggetti politici che, per quanto portino anche dei punti corretti – come i Black lives matter – non hanno una progettualità di lotta più ampia di alcune rivendicazioni immediate, che sia diretta al ribaltamento del sistema capitalista, o sono realtà ancora poco radicate. Il risultato della situazione attuale è che una parte dei lavoratori che scendono in piazza per protestare e si organizzano nel locale contro determinati soprusi poi, quando deve trovare un riferimento politico, vede in politici come i socialisti democratici una speranza per far avanzare alcuni loro punti. Col problema che questi ultimi non solo non sono riusciti a far avanzare politiche più sociali in seno ai dem, ma finiscono proprio per favorire un assopimento delle proteste e dell’organizzazione dei manifestanti. Una parte delle proteste viene ricondotta in questo modo ad un’ottica di conflitto meramente elettorale, riponendo fiducia su personalità che non propongono un reale piano d’azione che possa permettere un reale avanzamento delle proprie posizioni nella lotta contro il capitale.

di Francesco Pietrobelli

Note:

1) A riguardo: https://www.youtube.com/watch?v=4lFX30hGZco; https://www.nytimes.com/2020/01/26/us/politics/biden-factcheck.html?searchResultPosition=4.

2) https://nypost.com/2020/06/02/biden-suggests-officers-shoot-in-the-leg-rather-than-to-kill/

3) https://www.corriere.it/esteri/20_ottobre_19/economia-cina-esce-prima-crisi-la-pandemia-pil-49percento-terzo-trimestre-4da7091c-11dd-11eb-9ff9-df76cb96fbac.shtml.

4) Per approfondire: http://www.senzatregua.it/2016/05/29/primarie-americane-tra-show-false-aspettative-e-malcontento-popolare/

5) Non bisogna scadere nell’idea che vi sia una totale compattezza nella cosiddetta ala progressista dei dem americani: al suo interno vi sono posizioni differenti, per quanto si presentino dei generici punti in comune quali una maggiore regolamentazione del mercato, maggiori tutele sociali, una tassazione più equa, ecc. Si pensi solo alle primarie dem e allo scontro fra Sanders e Warren, entrambi considerati progressisti ma con programmi non totalmente coincidenti, con Warren attenta a evitare di definirsi una “democratic socialist”, quanto piuttosto una intenta a regolare il mercato (https://chicago.suntimes.com/columnists/2020/2/24/21151126/democratic-socialism-bernie-sanders-elizabeth-warren-presidential-primary-jesse-jackson).

6) https://www.wbur.org/hereandnow/2020/03/05/bernie-sanders-and-democratic-socialism

7) Qui un esempio di proposta, da parte di Sanders, di tassazione sui miliardari in relazione alla crisi pandemica: https://www.wbur.org/hereandnow/2020/03/05/bernie-sanders-and-democratic-socialism

8) https://www.youtube.com/watch?v=esLJRHU-GvA&t=37s.

9) Data nel quale votano ben 15 stati americani, fra cui alcuni di peso notevole per il numero di candidati, come la California e il Texas.

10) https://jacobinmag.com/2020/11/alexandria-ocasio-cortez-democrats-aoc-biden-trump

11) https://badnews.substack.com/p/why-the-networks-cant-bear-to-call

12) https://www.nytimes.com/2020/11/07/us/politics/aoc-biden-progressives.html

13) Per una analisi del flusso dei voti: https://jacobinitalia.it/black-lives-matter-ha-fatto-la-differenza/

14) https://bit.ly/35NUoCa

15) https://bit.ly/393dmqo

16) Fanno eccezione il Maine e il Nebraska, dove i grandi elettori sono assegnati in base al risultato nazionale e ai singoli distretti

17) A riguardo: https://bit.ly/3oqz77V

18) A riguardo: https://rb.gy/glvdq8

19) A riguardo: https://bit.ly/3quVpr8

Fonte

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