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20/12/2020

Benjamin, un marxista meravigliosamente arbitrario

di Fabio Ciabatti

Michael Löwy, La rivoluzione è il freno di emergenza. Saggi su Walter Benjamin, Ombre Corte, Roma 2020, pp. 136, € 13,30.

C’è un modo abituale di intendere la politica che rimanda all’azione degli stati, al ruolo delle istituzioni, alle elezioni, al parlamento e così via. C’è poi un altro modo che chiama in causa “la memoria storica delle lotte e delle sconfitte e il richiamo all’azione redentrice degli oppressi, un’azione inseparabilmente sociale politica, culturale, morale, spirituale e teologica”. È questa seconda via che contraddistingue il pensiero di Walter Benjamin e che rende possibile leggere la sua opera in chiave politica, come fa Michael Löwy in una breve raccolta di saggi recentemente pubblicata in italiano, dal titolo La rivoluzione è il freno di emergenza. Filo conduttore di questo testo, secondo il suo stesso autore, è l’idea di rivoluzione in Benjamin perché è convinzione di Löwy che se si espunge dal pensiero del filosofo berlinese “la dimensione sovversiva, rivoluzionaria, insurrezionale perfino, come purtroppo capita spesso nei lavori accademici, si perde qualcosa di essenziale, di prezioso, di inestimabile”.1 Questo tipo di lettura chiama in causa direttamente il rapporto peculiare che Benjamin intrattiene con Marx. Una peculiarità che consiste, tra l’altro, nel mantenere come parte integrante del suo pensiero quelle componenti filosofico-teologiche maturate prima dell’incontro con il marxismo: l’anarchismo, il romanticismo e il messianesimo ebraico.

Con il titolo del suo testo Löwy richiama l’attenzione su una delle poche prese di distanza esplicite da Marx da parte del filosofo berlinese: la definizione della rivoluzione come “freno d’emergenza” piuttosto che, marxianamente, “locomotiva della storia”. Questa affermazione può essere legata al fatto che Benjamin è “il primo marxista ad aver rotto radicalmente con l’ideologia del progresso”.2 Per Benjamin, infatti, “la rivoluzione proletaria non è il risultato ‘naturale’ o ‘inevitabile’ del progresso economico e tecnico, ma l’interruzione critica di un’evoluzione che porta direttamente al disastro”.3

Attraverso la lettura di Löwy possiamo capire che questa rottura per Benjamin ha due obiettivi: da una parte, mira a distinguere nettamente il materialismo storico dalle forme tradizionali del pensiero borghese, come lo storicismo tedesco che conferisce alle classi dirigenti lo status di eredi della storia vedendo nelle vicende passate solo una gloriosa successione di successi politici e militari; dall’altra, vuole criticare la coeva ideologia socialdemocratica che aveva commesso il grande errore di considerare lo sviluppo tecnologico solo dal punto di vista del progresso delle scienze naturali e non del regresso sociale, fino al punto di idealizzare il lavoro di fabbrica, dando luogo alla risurrezione, tra gli operai, della vecchia morale protestante del lavoro in forma secolarizzata.

La convinzione socialdemocratica di nuotare a favore di corrente è un elemento di forte corruzione degli operai tedeschi. A questo ottimismo ideologico Benjamin contrappone il suo comunismo inteso come organizzazione del pessimismo. Contro la riduzione della società senza classi a puro ideale, compito infinito che predispone all’attesa di una situazione rivoluzionaria che non arriva mai, Benjamin propone l’ipotesi secondo la quale anche il più piccolo istante nasconde un potenziale rivoluzionario, un’ipotesi che presuppone una concezione aperta della storia come prassi umana, ricca di possibilità inattese e inaudite.

Possibilità che, per esempio, emergono tra le barricate parigine del 1830, del 1848 e del 1871 nei confronti delle quali, sostiene Löwy, Benjamin subisce una vera e propria fascinazione. Le barricate, al di là della loro effettiva efficacia, rappresentano una sorta di luogo utopico, un’anticipazione dei rapporti sociali del futuro, costruito attraverso l’uso da parte dei dominati della geografia urbana nella sua materialità (strade strette, altezza delle case, pavimentazione urbana) in cui un ruolo di primo piano spetta alle donne. La ristrutturazione della città ad opera di Haussmann tra il 1860 e il 1870 vorrebbe cancellare la memoria collettiva di questa esperienza. Ennesima conferma del fatto che ciò che appare patrimonio culturale, se visto con gli occhi dei vincitori, rappresenta un documento della barbarie, se ci mettiamo dalla parte dei perdenti della storia. L’abbattimento dei quartieri popolari di Parigi avviene con il pretesto della loro bruttezza e insalubrità, ma il vero obiettivo è fare spazio agli ampi boulevard in cui i cannoni possono più facilmente colpire gli insorti. Un atto di guerra preventiva, diremmo oggi, contro la possibilità stessa del verificarsi di quella sorta di “illuminazione profana” che, secondo Benjamin, si può affacciare sul proscenio della storia con la rivolta degli oppressi.

L’interpretazione della rivoluzione in termini di illuminazione rimanda al messianesimo che Benjamin considera la dimensione più importante della spiritualità ebraica. Nella teologia benjaminiana, però, non esiste un Messia inviato dal cielo. “Il solo messia possibile è collettivo … l’umanità oppressa”.4 Ogni generazione ha un pezzo di potere messianico che deve cercare di esercitare perché le generazioni passate gli hanno assegnato il compito della redenzione: il sacrificio delle generazioni sconfitte, la memoria dei martiri del passato ispirano le lotte di liberazione del presente. Il compito messianico corrisponde allora con la rivoluzione, con l’interruzione di un continuum storico che, con il suo accumulare macerie su macerie, preannuncia l’imminenza di nuovi disastri. Benjamin parla comunque di un potere messianico “debole” perché la redenzione, l’avverarsi dell’utopia rivoluzionaria è soltanto un’incerta possibilità.

Questa utopia, i sogni di un futuro diverso, nascono, secondo Benjamin, in intima associazione con elementi provenienti da una storia arcaica depositati nell’inconscio collettivo. Si tratta della rammemorazione, altro elemento essenziale della teologia secondo Benjamin, che ha per oggetto il matriarcato, il comunismo primitivo, una società senza classi né stato. E si tratta anche del ricordo di un rapporto più armonico con la natura che non sia contrassegnato dall’avidità distruttrice della società borghese, dalla concezione “imperialista” del dominio dell’uomo sull’ambiente naturale. Löwy evoca il rischio che in base a tali concezioni si possa sacrificare l’utopia sull’altare del mito. Ma afferma anche che, a scongiurare questo pericolo, entra in gioco una “dialettica propria del romanticismo rivoluzionario” perché Benjamin sostiene “un ritorno al passato verso un nuovo avvenire, che include tutte le conquiste della modernità dal 1789”.5

In modo simile Benjamin afferma, seguendo i surrealisti, che occorre conquistare per la rivoluzione le forze dell’ebbrezza, il rapporto magico con il mondo, ma aggiunge che mettere l’accento solo su questo lato significherebbe trascurare la preparazione metodica e disciplinare della rivoluzione. In altri termini, secondo Benjamin, occorre ridare spessore sensibile alla rivoluzione senza toglierle la sua virtù emancipatrice. È necessario, per dirla ancora in un altro modo, cambiare la vita, come sostiene Rimbaud, e insieme cambiare il mondo, come afferma Marx. Se venisse meno la tensione dialettica tra questi poli apparentemente inconciliabili scivoleremmo verso un romanticismo reazionario che nutre il sogno impossibile di un ritorno al passato.

Non a caso la commistione tra arcaico e moderno è anche il tratto caratteristico del nazismo, per Benjamin vero e proprio Anticristo, cioè falso Messia che scimmiotta il vero redentore rappresentato dal socialismo. Sebbene utilizzi un discorso magico, il fascismo è profondamente radicato nello sviluppo moderno. Non si tratta di una parentesi storica che scomparirà con il procedere del progresso. Per vincere il fascismo, occorre perciò produrre “il vero stato di eccezione”, vale a dire l’abolizione del dominio, la realizzazione della società senza classi. Il vero Messia trionfa solo quando sconfigge l’Anticristo. Anche “in un momento di pericolo supremo si presenta una costellazione salvifica che unisce il presente al passato”:6 tra le folle asservite dai dittatori Benjamin non dispera di scorgere i nuclei di resistenza formati dalle masse rivoluzionarie del Quarantotto e dai Comunardi.

Di fronte alla minaccia del nazismo, Benjamin, in una lettera del 1938 a Horkeimer, esprime la speranza che l’Unione Sovietica si possa considerare “l’agente dei nostri interessi in una guerra futura” sebbene sia consapevole che si tratti di “una dittatura personale con tutto il suo terrore” che finirà per far pagare un conto salato ai lavoratori. In una lettera precedente, scritta nel 1926 al suo amico Scholem, annuncia di voler aderire al partito comunista tedesco, sebbene non darà mai seguito a questa intenzione. Rimarrà, come egli stesso sostiene, un “osservatore tedesco” in una posizione “estremamente scoperta tra fronda anarchica e disciplina rivoluzionaria”. Da una parte, dunque, c’è il suo anarchismo mai abiurato, il suo spirito libertario e romantico, dall’altra, come scrive in un’altra lettera a Scholem del 1924, la sua profonda attrazione per la prassi politica del comunismo intesa “come contegno normativo”. Egli stesso si descrive come un Giano Bifronte, con un volto rivolto a Gerusalemme e l’altro a Mosca sebbene il patto Molotov-Ribbentrop oscurerà definitivamente ai suoi occhi la luce della stella moscovita.

Si può considerare tutto ciò come un atteggiamento ondivago e contraddittorio. Oppure, come fa Michael Löwy, si può sostenere che Giano avrà pure due volti, ma possiede una testa sola. Se questo è vero si può considerare il pensiero di Benjamin come una “variante eretica del materialismo storico” che presta “un’attenzione sistematica e preoccupata per lo scontro di classe dal punto di vista dei vinti – a danno di altri topoi classici del marxismo, come la contraddizione tra forze e rapporti di produzione, o la determinazione della sovrastruttura attraverso l’infrastruttura economica”.7 Quella di Benjamin, in sintesi, è una “alchimia filosofica” con una “componente esplosiva”8 che mette capo a una reinterpretazione del marxismo “assolutamente eterodossa, fortemente selettiva e talvolta meravigliosamente arbitraria”.9

Note:

1) Michael Löwy, La rivoluzione è il freno di emergenza. Saggi su Walter Benjamin, Ombre Corte, Roma 2020, p 9. Per la la precedente citazione vedi p. 8 del testo di Löwy.

2) Ivi. p. 31.

3) Ivi. p. 33.

4) Ivi. p. 112.

5) Ivi p. 66.

6) Ivi, p. 106.

7) Ivi p. 80.

8) Ivi p. 10.

9) Ivi p. 8.

Fonte

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