La certificazione ufficiale della vittoria di Joe Biden nelle presidenziali del 3 novembre scorso si è accompagnata negli Stati Uniti al riesplodere improvviso di una violenta campagna anti-russa, come al solito alimentata, per quanto riguarda il fronte dei media, soprattutto dal New York Times e dal Washington Post. A innescare la nuova escalation era stata la notizia di un attacco su larga scala, registrato poco più di una settimana fa, contro le reti informatiche di alcune agenzie governative. Anche se, come sempre, non è stata presentata alcuna prova concreta circa le responsabilità, l’operazione è stata subito attribuita ai servizi di sicurezza del Cremlino, contro il cui occupante e il suo governo vengono quotidianamente sollecitate misure punitive durissime.
A subire l’incursione degli hacker sono state svariate compagnie private e, tra gli organi di governo, il dipartimento del Tesoro e del Commercio, tutti accomunati dall’utilizzo dei servizi informatici della società SolarWinds. Fin dall’articolo della Reuters che ne aveva dato per primo notizia, tutti i resoconti dell’intrusione hanno indicato come autori dell’attacco un gruppo collegato ai servizi segreti esteri russi (SVR) e noto col nome di “Cozy Bear” o “APT29”.
L’intensificazione dell’offensiva contro Mosca è poi arrivata con una serie di “analisi” del New York Times, a firma del reporter di riferimento per le questioni della sicurezza nazionale, David Sanger, cioè il veicolo preferito di CIA e Pentagono per la pubblicazione di storie a cui intendono dare la maggiore risonanza possibile. Tra il 14 e il 16 dicembre, Sanger e altri colleghi hanno contribuito a creare il clima da caccia alle streghe a cui tutta la galassia dei media “mainstream” USA ha finito per adeguarsi. Il culmine dell’aggressione verbale contro la Russia è stato un articolo che citava Putin fin dal titolo e che descriveva il presidente russo come il mandante di fatto dell’hackeraggio.
Quest’ultimo pezzo è servito a spiegare senza equivoci l’obiettivo della nuova campagna mediatica. Per il Times, Putin avrebbe voluto inviare una sorta di messaggio al presidente eletto Biden circa l’intenzione del Cremlino di non allentare le pressioni sugli Stati Uniti, continuando cioè a sfidare gli interessi americani in alcuni dei punti più caldi del pianeta, oltre che a portare la competizione tra le due potenze sul territorio USA. Stando così le cose, Sanger concludeva che l’amministrazione democratica entrante dovrà immediatamente adoperarsi per contrastare gli obiettivi “malevoli” del Cremlino, come se gli ultimi quattro anni durante la presidenza Trump fossero stati segnati da un qualche idillio tra Washington e Mosca.
L’aspetto più singolare, anche se non nuovo, è che le conclusioni riportate dalla stampa USA circa le responsabilità russe appaiono tutt’altro che definitive. I giornalisti che se ne sono occupati citano come sempre funzionari anonimi all’interno dell’apparato della sicurezza americana, a cui occorrerebbe credere senza farsi domande. Non solo, le loro fonti ed essi stessi ricorrono più di una volta nei loro articoli a formule ipotetiche e dubitative circa la colpevolezza di Mosca. Anzi, nei loro rapporti sull’accaduto, anche la compagnia informatica privata che avrebbe scoperto l’intrusione e le agenzie governative colpite non hanno mai indicato la Russia o soggetti riconducibili al governo russo come gli autori certi dell’hackeraggio.
Leggendo i pezzi dei giorni scorsi con un minimo di senso critico, si ha l’impressione di assistere alla costruzione di un edificio di accuse, con tutto il corollario di durissime iniziative ritorsive, salvo poi scoprire che per gli stessi accusatori non esiste certezza sull’identità dei colpevoli. Lo stesso atteggiamento lo si ritrova ovviamente anche tra i politici. Venerdì scorso, il segretario di Stato, Mike Pompeo, è stato il primo membro dell’amministrazione Trump a puntare il dito contro Mosca. L’ex direttore della CIA ha però anche lui definito le prove della colpevolezza russa “piuttosto chiare” e non incontrovertibili, per poi aggiungere che tutti i pezzi del puzzle devono essere ancora composti, ma “alcuni elementi resteranno classificati”.
In sostanza, la posizione di Pompeo è che la parola dei servizi segreti americani deve essere presa per buona senza che le prove a carico di Mosca vengano rese pubbliche. Al segretario di Stato ha fatto eco domenica il presidente della commissione Intelligence della Camera dei Rappresentanti, il democratico Adam Schiff. Dalle informazioni che avrebbe ottenuto, quest’ultimo ha concluso che “non ci sono dubbi che la Russia” sia responsabile dell’attacco informatico.
Le prove sono talmente lontane dall’essere definitive che lo stesso presidente Trump ha contraddetto Pompeo poco dopo che il segretario di Stato ha annunciato le sue conclusioni. L’uscita di Trump non ha fatto che confermare la natura politica della vicenda, così come delle accuse. L’opinione del presidente, verosimilmente anch’essa espressa senza il supporto di prove, è infatti che a introdursi nei server del dipartimento del Tesoro e di quello del Commercio sarebbero stati i cinesi e non i russi.
Ad ogni modo, il messaggio anti-russo è stato chiaramente recepito da Biden. Il presidente eletto, venerdì ha rilasciato una dichiarazione a proposito dell’hackeraggio, promettendo che gli autori dovranno pagare un “costo” per le loro azioni e che “una buona difesa non è sufficiente”, ma sarà necessario agire per scoraggiare “i nostri avversari dall’intraprendere attacchi” informatici in futuro.
La natura artificiosa di tutta la vicenda si deduce anche dal fatto che, se pure le accuse rivolte alla Russia si basassero su prove di ferro, l’operazione informatica in questione, di cui oltretutto non è ancora chiara la gravità né le conseguenze, rientrerebbe in larga misura nelle normali operazioni di spionaggio che tutti o quasi i paesi mettono in atto, Russia e Stati Uniti compresi. Ancor più, è proprio quest’ultimo paese a rappresentare la minaccia di gran lunga maggiore per la sicurezza dei sistemi informatici e delle comunicazioni elettroniche globali, con gli obiettivi delle operazioni USA che includono anche gli alleati più stretti. È inutile ricordare poi come la campagna di aggressione e di accerchiamento degli Stati Uniti contro la Russia abbia raggiunto livelli senza precedenti, facendo apparire irrisori anche eventuali attacchi informatici di Mosca come quello al centro dello scontro di questi giorni.
Tutto il polverone sollevato dal recente hackeraggio è in definitiva un’operazione di propaganda lanciata nel momento in cui le acque sul fronte della disputa elettorale sembrano apparentemente calmarsi. Il periodo pre-elettorale era stato segnato da avvertimenti continui sul rischio delle interferenze russe a favore di Trump. Con la vittoria di Biden, invece, delle manovre russe per manipolare l’esito del voto non si è più parlato, mentre all’improvviso le reti informatiche americane si sono dimostrate esposte pericolosamente agli attacchi di Mosca.
Come di consueto, l’offensiva contro la Russia sta seguendo varie strade. Oltre alla questione dell’hackeraggio è stata rilanciata ad esempio quella dell’avvelenamento del leader dell’opposizione Alexey Navalny, presumibilmente avvenuto lo scorso mese di agosto. Un rapporto diffuso nei giorni scorsi da un’organizzazione legata a doppio filo all’intelligence USA e del Regno Unito avrebbe confermato, sia pure senza chiarire uno solo dei dubbi macroscopici che restano sulla vicenda, come il “dissidente” russo sia caduto vittima di un’operazione condotta da funzionari dei servizi segreti di Mosca sotto la direzione del Cremlino.
Sullo stesso piano va messa anche la recentissima decisione di chiudere gli ultimi due consolati americani rimasti in territorio russo, quello di Vladivostok, un porto strategico nell’estremo oriente del paese, e quello di Ekaterinburg, a est dei monti Urali. Secondo la versione ufficiale, il provvedimento sarebbe la conseguenza del limite imposto da Mosca nel 2017 al numero di diplomatici americani a cui è permesso lavorare in Russia. La chiusura, che lascia come unica rappresentanza americana l’ambasciata di Mosca, costituisce in realtà un nuovo motivo di scontro alimentato ad arte da Washington.
Al centro di queste manovre promosse da determinati ambienti del governo e dell’apparato della sicurezza nazionale americana, con la collaborazione dei media ufficiali, c’è in primo luogo il proposito di incanalare da subito in una direzione anti-russa la nuova amministrazione di Joe Biden. Mentre non ci sono molti dubbi sulla predisposizione generale del neo-presidente democratico, è necessario ricordare che quest’ultimo, già nelle prime settimane del suo mandato, è atteso da alcune decisioni cruciali che impatteranno direttamente o indirettamente i rapporti con Mosca. Tra di esse spiccano il possibile rinnovo del trattato “New START”, l’unico rimasto in vigore per limitare il numero di armi nucleari, il tentativo di ostacolare la conclusione dei lavori per il gasdotto Nord Stream 2 tra Russia e Germania e il ritorno degli Stati Uniti nell’accordo sul nucleare iraniano (JCPOA), abbandonato unilateralmente da Trump nella primavera del 2018.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento