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30/12/2020

Russia - Strage di lavoratori del mare

La notizia, chi l’ha data, l’ha presentata come l’ennesimo tragico incidente; una disgrazia costata la vita a 17 lavoratori; una sciagura dovuta alla fatalità, alla natura, alle circostanze; uno sfortunato concatenarsi di circostanze.

La mattina del 28 dicembre, nelle acque in burrasca del mar di Barents, nel bacino dell’arcipelago di Novaja Zemlja il peschereccio “Onega”, appartenente al “kolkhoz” (il nome “kolkhoz” è virgolettato e va detto il perché: più avanti) di ittiocoltura “Kalinin”, si è rovesciato e i 19 membri dell’equipaggio sono finiti in acqua.

Il vascello “Vojkovo”, accorso per primo al segnale di soccorso, ha potuto raccogliere solo due sopravvissuti: forse, gli unici che avevano avuto il tempo di indossare i giubbetti di salvataggio e, soprattutto, le mute speciali per quelle temperature; un terzo, sembra, già privo di vita, all’ultimo momento sarebbe stato inghiottito dalle onde alte quattro metri.

Per il resto dei pescatori, le condizioni del mare, la temperatura dell’acqua (il mar di Barents, grazie alla Corrente del golfo, non gela, ma può scendere fino a +4°) e soprattutto quella dell’aria (-20°), fin da subito non hanno lasciato speranze.

Dunque: una sciagura; una tragedia del mare. Certo; ma, soprattutto, l’ennesima tragedia di lavoro. Certamente, come sottolineano gli esperti, la temperatura dell’aria, che faceva immediatamente congelare le bordate d’acqua attorno allo scafo, al sartiame, allo strascico coi palamiti, aveva fatto perdere di stabilità al peschereccio.

Certamente, il sopraggiungere di un’onda più alta, mentre i pescatori stavano riavvolgendo lo strascico congelato, aveva portato al ribaltamento del vascello. Certamente, i marinai non riuscivano a eliminare il ghiaccio dallo scafo, con palanchini e piccozze, che quello tornava a formarsi di nuovo.

Poi, una prima grossa onda faceva sbandare il vascello, tanto che il comandante aveva già lanciato l’SOS. Evidentemente, una seconda onda, ancora più alta, è stata fatale. Certamente, tutto questo; e così: la “fatalità”, la “disgrazia”.

Solo che, la “fatalità” non spiega come mai quei 19 lavoratori avessero dovuto uscire ugualmente, pur con il mare in condizioni proibitive. La “fatalità” non spiega come mai un kolkhoz (formalmente, una sorta di cooperativa; un termine che rimanda immediatamente all’epoca sovietica e alla collettivizzazione delle campagne, con l’eliminazione della proprietà privata dei terreni in mano ai kulaki) sia praticamente “proprietà privata” – se non di nome, quantomeno di fatto – di un singolo “imprenditore”.

Le “tragiche circostanze” non spiegano come mai quei 19 pescatori dovessero affrontare il mare anche quel giorno, pena il rimanere senza salario, dato che quest’ultimo, come ricordano ora alcuni loro familiari, dipendeva dal pescato.

La “sventura”, il “destino”, non spiegano come mai un vascello di oltre quarant’anni (nemmeno in buone condizioni: sempre a detta di altri familiari) dovesse affrontare il mare, anche in condizioni meteo pessime...

La moglie di uno dei pescatori inghiottiti dal mare, ha raccontato di aver parlato col marito la sera del 27 dicembre, e questi le aveva detto delle cattive condizioni del peschereccio e di come tutte le strutture esterne fossero congelate, anche con il vascello in banchina.

I morti sul lavoro; le “disgrazie” sul lavoro non sono mai una “fatalità”.

Ora, il Dipartimento investigativo di Arkhangelsk per i trasporti ha avviato un procedimento penale, ipotizzando un reato previsto dall’art. 263 del CP (“violazione delle norme di sicurezza di traffico e funzionamento del trasporto ferroviario, aereo, marittimo, delle acque interne e della metropolitana, che comportino, per negligenza, la morte di due o più persone”) che prevede fino a 7 anni di reclusione. Chissà se qualcuno verrà chiamato a rispondere per la morte dei 17 pescatori.

Il Partito comunista unito (OKP) di Russia ricorda che a capo del “kolkhoz” – formalmente, armatore del “Onega” – c’è tale Andrej Zaika, che è anche presidente dell’Unione dei kolkhozi ittici della regione di Arkhangelsk.

Dunque, scrive il OKP, Zaika, “come s’addice a un rappresentante della borghesia russa in occasione delle ferie di Capodanno, era in vacanza all’estero con la famiglia. Il signor Zaika è stato costretto a interrompere le ferie e rientrare a Murmansk. Ma il presidente del kolkhoz torna in patria senza paura: nella Russia borghese non è minacciato da alcuna responsabilità per la morte di lavoratori”; tanto più che ha in tasca “la tessera del partito governativo Russia Unita”.

Ora, a scanso di accuse di “parzialità”, ricordiamo che anche a capo di un’altra di tali aziende dal nome formalmente sovietico, il sovkhoz moscovita “Lenin”, c’è un altro biznessmen della nuova Russia post-sovietica, l’ex candidato alle elezioni presidenziali per il KPRF, Pavel Grudinin.

Il sovkhoz “Lenin”, tanto per dire, a dispetto del nome, non sarebbe altro che una grossa società per azioni dell’agrobusiness, il cui capitale sarebbe in mano a una quarantina di azionisti, con poco meno del 50% controllato da Grudinin e figlio.

Dunque, nella Russia post-sovietica, kolkhoz o sovkhoz non sono che nomi apparentemente diversi per lo stesso obiettivo: il capitale; per qualcuno di quei nuovi biznessmeny post-sovietici: più volgarmente, per far soldi. E le tragedie provocate dalle tempeste del mar di Barents, che trasformano pescherecci in “fosse comuni” di lavoratori, non sono affatto delle “fatalità” della natura: sono il prodotto “naturale” di un sistema che, a ogni latitudine, allorché imperversa, costringe i lavoratori a rischiare la vita per riscuotere il salario.

Anche nella Russia capitalistica dei kolkhozy e sovkhozy post-sovietici.

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