Di analisi circostanziate sull'accorto Gran Bretagna-UE relativo alla Brexit ne circolano ancora poche. Di seguito proponiamo l'unica che al momento ha qualcosa da dire, al netto del taglio editoriale della fonte da sempre scettico verso questo "divorzio".
*****
Iniziata con cattiveria e proseguita con tristezza, la Brexit si è conclusa con un compromesso al ribasso. Dall’accordo siglato la settimana scorsa fra Londra e Bruxelles nessuno esce vincitore: l’unico obiettivo dell’intesa è limitare i danni di una decisione che, sotto il profilo economico, non ha veramente alcun senso. A ben vedere, infatti, non ci guadagna nessuno. Di sicuro non gli inglesi, che nei prossimi anni affronteranno difficoltà ben superiori a quelle sperimentate finora.
L’accordo di divorzio è stato raggiunto solo perché il premier britannico, Boris Johnson, si è reso conto che l’alternativa era ben peggiore. Il nuovo ceppo di Covid-19 ha dato un assaggio di quello che sarebbe accaduto con una hard Brexit: chilometri di camion in fila alle frontiere e banconi dei supermercati vuoti. Pur di evitare la catastrofe, Londra ha ceduto su molti punti che per mesi aveva definito irrinunciabili. In un attacco di teatralità, Johnson ha poi esultato davanti ai suoi connazionali, cercando di presentare il risultato come una vittoria britannica. L’ultima recita di un copione pieno d’inganni.
Per avere la misura di quanto insensata sia la Brexit, basta analizzare il capitolo più folle della trattativa: la pesca. I negoziati sono rimasti incagliati a lungo su questo punto e in Gran Bretagna se n’è parlato fino alla nausea. Il motivo? Semplice: la “sovranità sulle acque” è da sempre uno dei principali argomenti della propaganda pro-Brexit, perché – al contrario dei ragionamenti su commercio e finanza – è facile da vendere e ha presa sulle masse rurali (quelle che nel 2016 determinarono la vittoria del Leave). In termini economici, tuttavia, l’irrilevanza dell’argomento è davvero spettacolare, visto che la pesca vale appena lo 0,1% del Pil britannico.
Peraltro, anche a voler ammettere che le capesante siano cruciali per il destino della Corona, la resa britannica su questo fronte è stata pressoché totale. Dal primo gennaio inizierà un periodo di transizione di ben 5 anni e mezzo, durante i quali i pescatori europei potranno operare in acque britanniche riconsegnando solo il 25% del pescato. Fino a pochi giorni fa, Johnson chiedeva almeno l’80%.
Senza la pretesa di analizzare in modo esaustivo un documento di 1.200 pagine, veniamo ora alle faccende più serie. Il principale successo di Londra riguarda l’immigrazione. Dall’anno prossimo, non si potrà più andare nel Regno Unito per cercare lavoro: al contrario, per poter emigrare bisognerà già avere in mano un contratto da almeno 28mila euro l’anno di stipendio. In questo modo, l’ingresso sarà consentito soltanto alla manodopera specializzata, mentre gli aspiranti camerieri saranno costretti a scegliere altre destinazioni. La Brexit segna così la fine della libertà di movimento dei cittadini (fatta eccezione per i turisti, che però dovranno munirsi di passaporto).
Discorso diverso per le merci: Londra esce dal mercato unico europeo, ma l’accordo non prevede l’introduzione di dazi e tariffe (che invece sarebbero scattati automaticamente con il no-deal). La notizia è molto buona per l’Italia, che ha una bilancia commerciale ampiamente positiva con il Regno Unito (+15 miliardi l’anno). I britannici si salvano da un disastro che avrebbe reso difficili gli approvvigionamenti alimentari, ma non ne escono indenni. Il loro Paese dovrà infatti compilare ogni anno decine di milioni di dichiarazioni doganali, una per ogni bene spedito in Ue. Serviranno oltre 10mila nuovi doganieri e il rischio di creare comunque le file alle frontiere è altissimo.
Per quanto riguarda i servizi finanziari – che rappresentano l’80% dell’economia britannica – l’Ue non ha ancora garantito “l’equivalenza” completa: se ne riparlerà nelle prossime settimane. “Non è proprio quello che volevamo”, ha commentato Johnson.
Infine, l’Irlanda. Per non richiudere la frontiera fra la Repubblica e il Nord – una follia che distruggerebbe l’economia dell’isola e riaccenderebbe la guerra civile – si è deciso che la parte dell’Irlanda controllata da Londra rimarrà nell’unione doganale Ue per almeno quattro anni. È chiaro quindi che l’UK dovrà controllare il transito di merci e cittadini fra Irlanda del Nord e Gran Bretagna per non rendere una barzelletta il resto dell’accordo sulla Brexit. Questo significa due cose. Innanzitutto, che il regno di Sua Maestà istituirà una frontiera interna (secondo alcuni analisti, il primo passo verso una futura unificazione dell’Irlanda). E poi che, nonostante la Brexit, in Gran Bretagna rimarrà comunque un po’ d’Europa.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento