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31/12/2020

Mentre tutti cambiavano rotta, gli Slayer incisero Divine Intervention

Il mio primo pensiero una volta entrato qua dentro è stato, oltre a trovare le parole per descrivere Remains degli Annihilator su Avere vent’anni, che mi avrebbe fatto piacere buttare giù un articolo sia su Schizophrenia dei Sepultura, sia su quest’album. Diciassette anni fa, insieme ad altri amici, mi trovavo sulla webzine con la peggiore veste grafica d’Italia e ci venne in mente di aprire delle rubriche a tema: per esempio, una che riguardava album thrash metal che neanche le band stesse avevano il coraggio di riascoltare, mentre un’altra aveva il titolo di Underrated ed era concentrata su uscite che – per chi scriveva – valevano molto più della considerazione generale che il tempo aveva riservato loro. Appunto, due titoli rappresentativi da portare in quest’ultimo contenitore potevano essere esattamente quelli che ho appena menzionato.

Che poi, underrated un cazzo. Divine Intervention fu disco d’oro in Stati Uniti e Canada, debuttò all’ottavo posto nelle classifiche degli album più venduti del proprio paese, e fece a spallate su Billboard con robe come Superunknown, The Division Bell, Jar Of Flies e – ahimè – la malsopportabile colonna sonora de Il Re Leone. Fu anche tenuto in gran considerazione dalla Def American, che pretendeva ad ogni costo da Tom Araya e soci un singolo di successo perché così andava a quei tempi. Gli Slayer gli risposero “scrivetecelo voi, noi al limite lo suoniamo” e non parlarono più con l’etichetta della futura pianificazione degli album. Anche se in futuro, sotto sotto, a qualche piccolo e non troppo fastidioso compromesso sarebbero scesi eccome. Piacque un sacco praticamente a chiunque, Divine Intervention, al punto di tornare a registrare un concerto che includesse il materiale inedito (Live Intrusion, a pochi anni da Decade Of Aggression), stavolta azzardando il salto all’edizione video. Fu anche un disco incredibilmente “mediatico”: testi controversi e che fecero rivoltare le budella e gli avvocati di un sacco di persone, immagini di arti incisi col logo della band, l’acronimo Satan Laughs As You Eternal Rot recuperato dai tempi di Show No Mercy e quella celebre foto con King che portava ancora i capelli lunghi, spezzata su un lato, ovvero quello in cui avremmo trovato incollato un certo Paul Bostaph. 

Gli Slayer avevano di fatto reclutato un nuovo batterista, che alla prima prova con un gruppo di punta dopo i trascorsi nei Forbidden, venne subito chiamato a non far rimpiangere Dave Lombardo, appunto il frammento di immagine mancante. La sua prestazione fu impressionante, forse troppo accentuata dal mixaggio di Toby Wright di cui parleremo più avanti, e solo in Mind Control – il brano più classico e lineare dell’intero lotto – si sarebbe effettivamente sentita la mancanza del membro originale. Paul Bostaph – che era già un ottimo musicista – si sarebbe mantenuto per molti anni su ottimi livelli: a partire dalla relativa semplicità con cui ha dettato il ritmo in Diabolus In Musica, passando per l’energia sprigionata a palate in God Hates Us All, o dietro alle pelli di Exodus e Testament. Oggi la sua creatività è crollata ai minimi storici e basta sentire Repentless – il disco col titolo sbagliato e non solo – per rendersene conto. Questo, mentre Dave Lombardo è ancora lì che spacca culi a piacimento, dai Dead Cross ai Suicidal Tendencies, uscendo da schemi che in Christ Illusion lo avevano legato troppo, e che solo in World Painted Blood, grazie anche alla sua scarna produzione dal sapore quasi live, aveva finalmente spezzato. Non ho una particolare preferenza fra i due, sull’eterna disputa riguardo chi meritasse maggiormente questo posto, né mi considero al pari dei più un oltranzista “pro-Lombardo”: dico semplicemente che in Divine Intervention e fino a God Hates Us All, l’ex-Forbidden si rivelò semplicemente perfetto, e che proprio qui offrì la sua prova definitiva.

Oggi, in molti hanno rivalutato al ribasso Divine Intervention, a partire dalla band che, ci avrete fatto caso, non ne ripropone quasi niente dal vivo. Si parla soprattutto dell’album con la produzione sbagliata e non sono per niente d’accordo con ciò: di base i suoni del disco del 1994 erano potentissimi, spinti da bassi capaci di mettere paura. Dopo l’intermezzo ai limiti dell’heavy metal offerto da South Of Heaven e da certe cose di Seasons In The Abyss, la sensazione di “distacco” da quel periodo condito da materiale un po’ più soft – lo sviluppo di certe mid-tempo oscure, per esempio – fu netta. Il problema nel duo Rick Rubin / Toby Wright riguardò soprattutto il mixaggio: la differenza insensata nei volumi di Killing Fields con lo scorrere dei secondi, così come la batteria eccessivamente in vetrina e la sensazione di “impastato” relativa alle chitarre; tutti elementi che non aiutarono Divine Intervention ad affermarsi come un possibile Reign In Blood parte seconda, concetto che in un primo momento aveva pubblicizzato in prima persona la sua release. Divine Intervention spartisce col terzo album della band californiana soprattutto la tendenza alla velocità e quella al ridurne il minutaggio al minimo essenziale: non ha molto altro in comune con esso, un capolavoro immortale che rappresenta al meglio il concetto di perfezione per gli amanti del metal estremo e delle sue radici, ma è ad ogni modo uno dei tre loro album che preferisco. L’altro è Hell Awaits, perché dagli Slayer ho sempre preteso ritmi alti, oscurità e cattiveria a palate; e sebbene gli ultimi lavori con Lombardo fossero ottimi, uscivano comunque da queste coordinate che ritengo non solo necessarie, ma fondamentali. Fermo restando che consiglierei a chiunque Seasons In The Abyss per avvicinarsi al loro nome. Altro aspetto importante, e per alcuni limitante, il ridotto contributo di Jeff Hanneman alla scrittura dei brani: è significativo che fosse esclusivamente sua la firma su 213, perché sarà l’unico punto di incontro con certe corazzate del passato a velocità ridotta, come Spill The BloodDead Skin Mask. Ma nonostante un’intro ed un riff promettente, il pezzo sembra funzionare a metà.

Kerry King scrisse buona parte dell’album, fra cui interamente il capolavoro Dittohead, quella del videoclip in cui non si capiva un cazzo ma si godeva ugualmente una cifra. Due minuti e mezzo di durata, una prova spaventosa da parte di Bostaph ed un riff centrale semplicemente indimenticabile: thrash metal ai limiti dell’hardcore che ricordava vagamente – per attitudine, velocità ed energia sprigionata – un’altra perla quasi contemporanea, Strenght Beyond Strenght dei Pantera. Niente, la colpa di Divine Intervention sulla lunga distanza resta quella di avere innescato lo stile definitivo degli Slayer in pilota automatico, quelli che avevano terminato di evolversi con God Hates Us All per ritornare a pestare come fabbri, ma con l’anima ovviamente invecchiata; la sua forza è quella di suonare come il loro album più violento senza tenere conto delle radici ed essere realmente un Reign In Blood parte seconda. Divine Intervention era semplicemente sé stesso ed era estremo da far paura, in un periodo storico in cui le grosse major avevano fatto a pezzi tutti i “compagni di classe” degli Slayer, dirottandoli un po’ dappertutto e nella maggior parte dei casi con scarsissimi risultati.

Me lo sono goduto ancora una volta oggi, e riesce sempre a sorprendermi: quel singolo pazzesco che era Serenity In Murder, con la sua strofa catchy inserita in una delle composizioni più veloci della tracklist; il singolare ritmo che avviava SS-3 per poi lasciare posto al thrash metal totale ed ai rutti di Hanneman nel break centrale, oppure la classicissima Mind Control, uno dei pochi ponti con brani passati come Born Of Fire. La sottovalutatissima Fictional Reality condita da un break centrale irresistibile, oppure la devastante accoppiata che apriva il disco. Tutto di ottimo livello tranne la copertina, in linea con la tendenza ad utilizzare la grafica in maniere orribili tanto in voga in quegli anni; anche se forse non ho ancora capito che opinione ho di Circle Of Beliefs, eccessivamente lineare e con quella voce effettata di Tom Araya che proprio non sopporto. Dettagli, si tratta pur sempre di uno dei miei tre dischi preferiti degli Slayer nonchè di quello per cui provo il maggior affetto, perché in fondo, fu a metà fra la sua uscita e quella di Undisputed Attitude che li conobbi. (Marco Belardi)

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