Se l’apparizione di un virus ha risvegliato gli spiriti animali dei sostenitori dell’eugenetica sociale (i più deboli muoiano, gli altri vadano avanti), le conseguenze della pandemia ne hanno palesati altrettanti nella eugenetica economica, che viene più spesso indicata come concorrenza o competitività tra i soggetti economici.
Come una gigantesca mannaia, il combinato disposto tra la recessione pre-esistente al Covid e la crisi pandemica, si è abbattuto sul tessuto polverizzato delle piccole e micro-imprese che caratterizzano il modello italiano, un tessuto e un modello spesso indicato come “intralcio” alla centralizzazione e alla modernizzazione capitalista nel nostro paese.
A sancire questo drammatico cambiamento di scenario è la stima elaborata dall’Ufficio Studi della Confcommercio, secondo il quale il 2020 si chiuderà con oltre 300mila imprese in meno rispetto all’anno precedente, sulla base del rapporto tra imprese del commercio non alimentare, dell’ingrosso e dei servizi, che hanno aperto e chiuso i battenti. L’80% a causa del Covid, stima la Confcommercio.
Le conseguenze del Covid si sono infatti combinate con il crollo dei consumi del 10,8% (pari a una perdita di circa 120 miliardi di euro rispetto al 2019), e questo porta a stimare per il 2020 la chiusura definitiva di oltre 390mila imprese del commercio non alimentare e dei servizi di mercato, una mortalità non compensata dalle 85mila nuove aperture di attività commerciali e nei servizi.
La riduzione del tessuto in questi settori ammonterebbe così a quasi 305mila imprese (-11,3%). Di queste, 240mila, esclusivamente a causa della pandemia.
Delle 240mila imprese “sparite” dal mercato a causa della pandemia, secondo l’Ufficio Studi Confcommercio, almeno 225mila sono andate perdute per un eccesso di mortalità e 15mila per un deficit di natalità. Una riduzione del tessuto produttivo che risulta particolarmente accentuata tra i servizi di mercato, che si riducono del 13,8% rispetto al 2019, mentre nel commercio rimane più contenuta, ma comunque elevata, e pari all’8,3%. Tra i settori più colpiti, nell’ambito del commercio risultano quelli dell’abbigliamento e calzature (-17,1%), ambulanti (-11,8%) e distributori di carburante (-10,1%). Nei servizi di mercato le maggiori perdite di imprese si registrano, invece, per agenzie di viaggio (-21,7%), bar e ristoranti (-14,4%) e trasporti (-14,2%).
Infine, c’è poi tutta la filiera del tempo libero che, tra attività artistiche, sportive e di intrattenimento, fa registrare complessivamente un vero e proprio crollo con la sparizione di un’impresa su tre.
Alla perdita di imprese, sottolinea Confcommercio, va poi aggiunta anche quella relativa ai lavoratori autonomi, ovvero quei soggetti titolari di partita Iva operanti senza alcun tipo di organizzazione societaria. Si stima la chiusura per circa 200mila professionisti tra ordinistici e non ordinistici, operanti nelle attività professionali, scientifiche e tecniche, amministrazione e servizi, attività artistiche, di intrattenimento e divertimento e altro.
Ma questa brutale selezione nel mondo delle imprese è stata tutta colpa della pandemia e dei lockdown? No, il processo era in corso da tempo e con risultati pesanti. Lo dimostra il grafico qui sotto.
È importante mettere a confronto i dati del 2020 con quelli forniti da Unioncamere nel 2019, cioè prima della pandemia di Covid 19.
Nel 2019, infatti, erano state aperte 353.052 imprese, circa 5mila in più rispetto al 2018. A fronte di queste, però, ben 326.423 avevano chiuso i battenti nello stesso periodo, 10mila in più rispetto al 2018.
Il risultato di queste due dinamiche aveva consegnato, a fine 2019, un saldo positivo tra chiusure e aperture per 26.629 imprese, ma che era il saldo minore degli ultimi 5 anni.
A fine dicembre 2019, lo stock complessivo delle imprese esistenti in Italia ammontava a 6.091.971 unità.
Già in quello scenario, il presidente di Uniocamere Carlo Sangalli affermava che: “Si accentua nel 2019 il turnover delle nostre imprese. Le incertezze del contesto internazionale si fanno sentire soprattutto in quei settori più esposti alla concorrenza dei mercati, come la manifattura. Anche il commercio mostra un calo, mentre la capacità attrattiva del nostro Paese alimenta l’industria del turismo, che continua a crescere, così come in aumento sono le attività professionali e i servizi alle imprese”. E poi aggiungeva la dichiarazione di rito secondo cui occorre continuare a lavorare al fianco delle imprese “per far crescere la loro competitività”.
Nel 2019 a guadagnare terreno erano stati i settori dei servizi legati al turismo (8.211 imprese in più per l’alloggio e la ristorazione), le attività professionali (+6.663), i servizi alle imprese (+6.319) e – sulla scia del basso costo dei mutui e degli incentivi al recupero edilizio ed energetico – le attività immobiliari (+4.663) e le costruzioni (+3.258). Nel 2019 erano invece già ed ulteriormente in caduta le imprese dell’industria manifatturiera (-4.107 imprese), quelle del commercio (-12.264) e dell’agricoltura (-7.432).
Balza agli occhi come la pandemia di Covid abbia colpito soprattutto un settore che si stava riprendendo come quello del turismo e della ristorazione.
Ma qui occorre separare le responsabilità tra un dato oggettivo (una pandemia che ha tenuto a casa i turisti in tutto il mondo) e le misure per contrastarla che hanno visto chiusure delle attività imposte dal governo. Infine, come abbiamo visto dal grafico, occorre tenere conto di tutto il processo in corso dalla crisi del 2007 e dalla recessione che ne è derivata. A ben vedere sono tre piani assai diversi tra loro.
Il primo e il terzo sono pienamente imputabili a quella “mano invisibile del mercato” e quindi della concorrenza e competitività che gli ideologi del capitalismo concepiscono e impongono come inevitabile, ineluttabile, anzi salutare. È sufficiente segnalare la totale omertà sui costi e il regime liberalizzato degli affitti privati che ha messo in ginocchio moltissime attività ancora prima della pandemia di Covid e dei lockdown. Solo il secondo è imputabile alle decisione governative che hanno portato a chiusure e riduzioni d’orario in nome della salute pubblica.
Ma su questa precisa scansione di responsabilità ci sono troppi finti tonti come Confcommercio e Confindustria che, come al solito, battono solo sulla responsabilità politica e pubblica mentre negano le conseguenze dell’eugenetica economica nel mondo delle imprese connaturata alla logica della prevalenza del privato rispetto al pubblico.
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