di Enrico Deaglio
Al governo, alla Commissione europea, a chiunque sia interessato a conoscere la verità su una storia ignobile accaduta nella civile Italia nel funesto 2020.
Il 9 marzo 2020, con un atto di grande coraggio (di cui pochi lo credevano capace), il premier Conte decretò il lockdown totale, primo paese al mondo.
Purtroppo, poco o nullo interesse venne dedicato al mondo delle carceri, peraltro il più esposto alla propagazione del contagio. Risultato: in quei giorni ci furono proteste in tutti i penitenziari italiani. Le richieste, oltremodo democratiche: tamponi, colloqui con i famigliari, permessi, sconti di pena, indulto, sanatoria, amnistia.
A Foggia ci fu addirittura la breve evasione di alcune decine di detenuti.
Nel carcere Sant’Anna di Modena si verificarono fatti gravi e misteriosi: la tv mostrò colonne di fumo e venne riferito di scontri con le guardie, di feriti. Filtrarono notizie di spari, un morto, due morti, tre morti.
La mattina dopo, con un’operazione militare top secret, tutti i detenuti del Sant’Anna (548, la capienza era di 369) vennero trasferiti e venne comunicato: «L’ordine regna al S. Anna».
Ma nelle 48 ore che seguirono, strani fiori sbocciarono, sparsi nelle carceri del centro e del nord Italia: erano altri cadaveri, che venivano da Modena. Alla fine, ci dissero che i morti erano tredici, tutti di Modena. Cinque in loco, otto in altre carceri.
Ma come ci erano arrivati, in quelle altre carceri? Erano volati? Erano metastasi di un cancro? Era un complotto di Cosa nostra che aveva suscitato la rivolta per ottenere l’amnistia per i suoi boss?
Il lettore non mi prenda per pazzo: questa “narrazione”, che le rivolte nelle carceri fossero un piano della mafia per ottenere la libertà dei suoi boss fu la versione praticamente ufficiale del governo, ripresa da magistrati, giornali, trasmissioni televisive.
Ci vollero 11 giorni perché “i 13 di Modena” avessero un nome; e non li rivelò il governo, ma Luigi Ferrarella, coraggioso giornalista del Corriere della Sera. Due erano italiani, undici del Maghreb; tutti detenuti per reati legati alla droga, non gravi, diversi di loro erano a “fine pena”; nessuno era un boss.
Compare una versione degli eventi: i detenuti hanno scassinato l’armadietto dell’infermeria e preso una bottiglia di metadone: si sono abbeverati, si sono intossicati e sono morti per overdose.
Nelle poche parole che il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede dedicherà loro in parlamento, sosterrà che sono morti «perlopiù per overdose di metadone». (Quel «perlopiù» dice molto, purtroppo, della moralità del ministro).
A distanza di otto mesi le autopsie ancora “sono in corso”, ma i fatti di Modena sono forse uno dei pochi argomenti su cui non si litiga nel governo. E, peraltro, i contagi aumentano nelle carceri.
Invece, molte domande dovrebbero essere poste. Tutti sanno che l’overdose da metadone nell’adulto è facilmente curabile: in dotazione da vent’anni in tutte le ambulanze, e ovviamente in tutte le carceri, c’è la fiala (miracolosa) chiamata Narcan, che riporta in vita i morituri.
Ma, evidentemente, non venne usata; né a Modena, né nei cellulari che trasferirono i detenuti, probabilmente ammanettati e inconsci, in carceri distanti duecento chilometri.
Perché i rivoltosi vennero lasciati morire? Perché gli intossicati non vennero portati in ospedale? Gli agenti carcerari si vendicarono sui detenuti rivoltosi? Chi gestì tutta “l’operazione Modena”? L’Europa ci ha mai chiesto spiegazioni?
Mi dispiace di avervi rovinato la giornata, con questa storiaccia. Non la migliore, davanti al caminetto; ma è pur sempre un racconto di Natale.
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