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25/12/2020

La “distruzione creatrice” del G30 di Draghi e l’intervento dello Stato come concentratore del capitale

di Domenico Moro

Ogni crisi è occasione per il capitale di ristrutturarsi. Questo vale a maggior ragione per la crisi odierna, che è la più profonda dal 1929 e imporrà cambiamenti che vanno studiati, dal punto di vista del lavoro salariato, per capire come si trasformerà il modo di produzione capitalistico e, di conseguenza, il terreno di lotta fra le classi.

In questo senso è interessante quanto emerge dall’ultimo rapporto del Gruppo dei Trenta (G30), un think tank, fondato su iniziativa della Rockefeller Foundation nel 1978, che fornisce consulenze sui temi di economia internazionale e monetaria[1]. Il G30 è formato da accademici e banchieri o ex banchieri provenienti dalle più importanti banche centrali mondiali. Tra di essi ci sono Mario Draghi, che fa parte del comitato direttivo, e Jean Claude Trichet, ex presidenti della Bce, Janet Yellen, ex presidente della banca centrale Usa, la Fed, ed ora ministro del Tesoro designato da Biden, Raghuram Rajan, ex governatore della Banca centrale dell’India, Yi Gang, governatore della Banca centrale cinese, ed economisti di fama mondiale come Kenneth Rogoff, Paul Krugman, e Laurence Summers.

La situazione economica attuale è descritta dal G30 in modo catastrofico: le economie mondiali si stanno avvicinando “al bordo di una scogliera”. Durante la presentazione del proprio rapporto Draghi ha affermato che “Stiamo entrando in un’era nella quale saranno necessarie scelte che potrebbero cambiare profondamente le economie”. La domanda più importante è: “Chi dovrà decidere quali compagnie dovranno essere aiutate?” La risposta del G30 si basa sulla consapevolezza che la crisi determina l’esistenza di “masse di imprese zombie”, che sopravvivono a stento. La scarsità delle risorse disponibili, anche a causa dell’aumentato debito pubblico, rendono necessario un approccio strategico selettivo per scegliere chi è meritevole di essere salvato e chi no.

Tocca, quindi, ai governi varare delle politiche adeguate, ma, il rapporto del G30 è molto chiaro in proposito, non tutte le imprese vanno salvate. Occorre scegliere quelle che saranno redditizie dopo la pandemia, ponendo particolare attenzione alle imprese medio-piccole che hanno minore potere contrattuale verso i governi ma che sono importanti sul piano produttivo.

In sintesi, secondo il G30, lo Stato deve intervenire solo in presenza di fallimenti del mercato. Inoltre, il G30 consiglia interventi misti pubblici-privati, perché solo le banche e gli investitori “hanno l’expertise per valutare la redditività delle aziende e sicuramente subiscono minori pressioni politiche”. In altre parole è il privato a dover decidere, perché, a differenza del potere pubblico, non deve rispondere a elettori che sono anche lavoratori e (potenziali) disoccupati.

La durata della pandemia, sempre secondo il G30, spinge ad abbandonare il focus sulla liquidità, che era stato nella prima fase della pandemia il mantra degli interventi statali e delle banche centrali, e ad approcciare una strategia di lungo termine.

Infatti, un altro aspetto fondamentale del rapporto del G30 è il modo in cui il potere pubblico deve intervenire: non tanto attraverso prestiti bancari garantiti dallo Stato, come è stato fatto all’inizio della pandemia, quanto invece attraverso l’entrata diretta nel capitale delle aziende.

La trasformazione delle garanzie pubbliche ai prestiti, in capitale aziendale potrebbe essere una strada. In questo modo, si eviterebbe anche il problema dell’insolvenza delle imprese che potrebbe mettere in difficoltà le banche, già oggi piene di crediti inesigibili. In questo modo, il problema della solvibilità aziendale sarebbe scaricato sullo Stato senza pericoli per gli intermediari bancari.

Il G30 non esclude, inoltre, le nazionalizzazioni totali o parziali, ma come misura estrema e possibilmente con criteri chiari e una definita strategia di uscita. Forme di sussidi agli investimenti di capitale tramite deduzioni fiscali sono più indicate, secondo il G30. Soprattutto va evitata la tentazione di mantenere la situazione così com’è. Le politiche statali – sostiene il G30 riprendendo la nota espressione dell’economista austriaco Schumpeter – dovrebbero “richiedere anche una certa quantità di distruzione creatrice”. Questo significa che bisogna lasciar ridimensionare o chiudere le aziende non in grado di andare avanti, sopportando quindi una elevata disoccupazione, affinché altre aziende innovative possano aprire.

La filosofia del G30 è basata su un nuovo intervento dello Stato, ma con condizioni particolari cioè nella salvaguardia del mercato e delle sue virtù salvifiche, “distruzione creatrice” compresa. Ad ogni modo, la profondità della crisi mette anche un tempio del neoliberismo come il G30 di fonte alla nuova necessità dell’intervento statale. Significativo in questo senso è quanto sta avvenendo in Italia. Qui Conte ha cercato di tranquillizzare il mercato, ossia il capitale, sull’intervento dello Stato. Parlando a proposito dell’intervento statale in merito ad alcuni dossier – come quelli di Unicredit, Monte dei Paschi di Siena, Ilva e Alitalia – dove si prevede l’intervento statale, il premier ha affermato: “Ci sono alcuni interventi mirati dove lo Stato deve cercare di tutelare e proteggere asset definiti strategici, non è che ci stiamo prendendo gusto con l’intervento dello Stato nell’economia ma tutti i Paesi, con una pandemia del genere, con una recessione così pesante sono costretti a programmare degli investimenti e quindi anche l’intervento della mano pubblica, soprattutto in alcuni asset strategici.”[2]

Lo Stato italiano sta approntando alcuni strumenti che sono in linea con quanto dice il G30. Un esempio ne è Patrimonio destinato, lo strumento gestito da Cassa Depositi e Prestiti che potrebbe avere una platea potenziale di 2.900 imprese[3].

Patrimonio destinato potrà contare su una disponibilità massima di 44 miliardi di euro, una cifra considerevole. Il direttore generale del Tesoro, Alessandro Rivera, in una recente audizione dinanzi alle Commissioni Finanze e Attività produttive di Montecitorio ha tenuto a tranquillizzare il capitale italiano: la nuova leva messa in mano a Cdp non potrà rappresentare una nuova Iri. Contro una riedizione delle Partecipazioni statali, i paletti posti all’intervento della Cdp sono tre. Il primo è che il sostegno della Cdp si rivolgerà alle imprese con più di 50 milioni di fatturato, ma l’intervento minimo sarà di 100 milioni, il che restringerà ulteriormente la platea delle imprese. Il secondo paletto consiste nella vigilanza dell’Antitrust europeo per escludere surrettizie operazioni di aiuto di stato. Infatti, ed è l’aspetto più rilevante, la Cdp non potrà acquisire partecipazioni di controllo nelle società che chiedono il suo aiuto. Infine, il terzo paletto impone che l’aiuto della Cdp possa essere rivolto ad aziende che hanno subito un calo nel 2020 per via della pandemia ma che non siano decotte, introducendo una serie di standard per la valutazione delle imprese.

Altro strumento previsto dal governo è il nuovo Fondo del ministero dello sviluppo per la salvaguardia dei livelli occupazionali e l’attività d’impresa, che prevede che lo Stato, attraverso la sua controllata Invitalia, possa entrare nel capitale delle aziende in difficoltà per un massimo di 10 milioni, restando in minoranza e per un tempo non superiore ai 5 anni[4]. Il Fondo ha una disponibilità di 300 milioni con ulteriori 250 milioni per il 2021, 100 milioni per il 2022 e 100 per il 2023. Nato per le sole imprese titolari di marchi storici, il Fondo è stato esteso alle società di capitale con oltre 250 addetti e poi a tutte le Pmi se appartenenti a settori strategici o che “rivestono un ruolo chiave nel promuovere lo sviluppo e il benessere della comunità”. L’ingresso nel capitale delle imprese si accompagna a un contributo a fondo perduto per il salvataggio dell’occupazione basato su un contributo per addetto che è massimo nel caso di mantenimento del 100% della forza lavoro e che decresce in proporzione alla quota della forza lavoro mantenuta che non deve però mai scendere al di sotto del 70%. In ogni caso, anche con l’eliminazione del 30% della forza lavoro le imprese riceveranno sussidi statali.

Naturalmente il tutto deve essere sottoposto alla valutazione della Commissione Ue. Infatti, la sottosegretaria allo sviluppo, Alessandra Todde, ha sottolineato come il testo del decreto attuativo è stato sviluppato “in modo conforme alla normativa europea e rappresenta una dimostrazione di quanto l’Italia voglia tornare concretamente a fare politica industriale, investendo e tutelando il made in Italy”.

Fondamentalmente, l’orientamento da parte dello Stato che emerge da quanto detto è caratterizzato da alcune innovazioni importanti, che però sono, ovviamente, dati i rapporti di produzione e di forza vigenti, funzionali all’accumulazione di capitale. Da una parte, infatti, emerge un ruolo più interventista dello Stato rispetto al passato, spinto dalla gravità senza precedenti della crisi.

L’aspetto più interessante è che si privilegi la partecipazione statale al capitale delle aziende, che mira ad aumentare le dimensioni delle imprese italiane che, rispetto alle concorrenti estere, hanno una dimensione più piccola e sono meno concentrate.

Dall’altra parte, tale intervento è giocoforza funzionale al capitale privato, come dimostra l’assunzione di una posizione di minoranza dello Stato nel capitale delle aziende e la conseguente mancanza di peso nella governance delle imprese. Anche le nazionalizzazioni vengono viste come una extrema ratio e soprattutto come un qualcosa di temporaneo, da cui uscire al più presto per poter rimettere il tutto nelle mani del capitale privato. Il principio è sempre lo stesso, deve essere il capitalista privato a mantenere il controllo dell’impresa. Il ruolo dello Stato è quello di fornitore alle imprese di capitale fresco, drenato dalla fiscalità generale cioè dalle tasche dei lavoratori o a debito. In questo modo, lo Stato assume la funzione di facilitatore dei processi di concentrazione e di centralizzazione che sono tra gli strumenti tipici di ristrutturazione capitalistica in tempo di crisi. La verità è che questa tipologia di intervento se salverà il grande capitale italiano e le Pmi funzionali alle catene del valore, al cui vertice sono le grandi imprese, non salverà né i lavoratori né, in particolare, i livelli d’occupazione, tanto che si parla di un milione di disoccupati in più che si creeranno al momento in cui il blocco ai licenziamenti verrà tolto. Quello che lo Stato sta facendo è, in definitiva, di governare la “distruzione creatrice” di cui parla il documento del G30.

A noi, invece, spetta il compito in questa fase di organizzare la resistenza dei lavoratori occupati contro ulteriori tagli del salario diretto e indiretto e soprattutto contro i licenziamenti che si prospettano. Ma ciò non basta.

C’è la necessità di rilanciare una proposta complessiva di trasformazione in senso socialista del modo di produzione capitalistico, che mostra chiaramente tutte le sue crepe. Senza una visione ampia e senza una prospettiva strategica non è possibile procedere in una situazione di crisi epocale come quella odierna.

Note:

[1] R. Sorrentino, “G30 alto rischio d’insolvenze, nuovi mezzi per gestire gli NPL”, Il Sole 24 ore, 15 dicembre 2020.

[2] G. Pelosi, “Conte: Avanti solo con la fiducia di tutti, confronto aperto, Recovery a febbraio”, Il Sole 24 ore, 12 dicembre 2020.

[3] G. Trovati, “Patrimonio destinato, il Tesoro frena: non è la nuova Iri”, Il Sole 24 ore, 15 dicembre 2020.

[4] C. Fotina, “Crisi aziendali, al via il Fondo per l’ingresso dello Stato”, Il Sole 24 ore, 16 dicembre 2020.

Fonte

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