di Luca Baiada
Dai commenti di Tomaso Montanari sulla gestione di Firenze, a «Report», gli amministratori locali, compreso il sindaco Dario Nardella, si sono sentiti così urtati che gli hanno chiesto per vie legali un risarcimento in denaro.
Le posizioni di Tomaso Montanari, professore universitario, storico dell’arte e saggista, toccano i punti nevralgici fra potere e cultura, là dove il fare e il sapere possono molto, nel bene o nel male. Mentre la rappresentanza politica è svilita e la partecipazione democratica è mortificata, il compito dell’intellettuale è prezioso. La rassegnazione, il fatalismo, il timore, quando non le connivenze e i compromessi, sono bavagli più efficaci della censura. Se non bastano, ecco le carte bollate.
Lo scopo dell’impegno di Montanari, in questa vicenda come in altre, è segnalare scelte sbagliate, scuotere la cittadinanza fiorentina e italiana, impedire che Firenze, le altre città d’arte e in genere le città, della cultura diventino le tombe invece che le culle.
Scempi vistosi, in Italia, intrecciano affarismo, controllo del territorio e cultura reificata, immiserita in cattivo spettacolo, ridotta a trasformare lo spazio urbano in fondale da botteghe. È uno spaccato della modernità e un terreno di scontro. Montanari questa battaglia ha scelto di combatterla; perciò qui, forse, non vale la pena di sminuzzare le sue parole in un singolo episodio, di distinguerle, di ricollocarle nel contesto di un’intervista dove tutto si chiarisce.
Dallo sblocco delle locazioni con la legge sull’equo canone, per poi inventare i patti in deroga, passando per le regole sulla destinazione dei suoli, proseguendo con gli strumenti urbanistici e le loro varianti furbe, e ancora attraversando le norme e gli atti delle amministrazioni sul commercio, sul turismo e sulla ristorazione, sono decenni che la forma urbana, la comunità murata e integrata con la natura, la dimensione spaziale della cittadinanza, tesori della civiltà italiana e umana, sono stravolte e prostituite. Eppure sono antichi, i moniti a far buon uso dell’antico. Giuseppe Parini: «Conviene avvertire doverci noi italiani guardare che, mentre ci stiamo da noi medesimi adulando davanti allo specchio delle nostre antiche glorie, noi non venghiamo a fare come que’ nobili, che neghittosamente dormono sopra gli allori guadagnati da’ loro avi, e tanto più degni sembrano di biasimo e di vituperio, quanto né meno i domestici esempli vagliono ad eccitare scintille di valore nelle loro anime stupide e intormentite»[1]. Anche la sinistra, snaturando la sua funzione storica, è stata complice, e nascondere questa responsabilità non serve. Proprio nella regione amministrata da sempre dalla sinistra è importante tenere aperti gli occhi, e proprio in Toscana è pericoloso aprire la bocca.
Curiosa, la vicenda della scritta dettata da Luigi Russo nel 1954 per la lapide di San Miniato, dove dieci anni prima, il 22 luglio 1944, c’era stata una strage tedesca. Diceva fra l’altro: «Italiani che leggete, perdonate ma non dimenticate. Lo straniero di ogni parte sia sempre tenuto lontano delle belle contrade rifiutando ogni lusinga o d’aiuto o d’impero. Ricordate che solo nella pace e nel lavoro è l’eterna civiltà». Il prefetto tolse le parole da «lo straniero di ogni parte» a «d’aiuto o d’impero»; la lapide però aveva già le lettere metalliche fissate al marmo, così le parti non approvate furono tolte lasciando i buchi. Passarono gli anni: prima fu aggiunta una nuova lapide per contraddire la precedente e dare la colpa agli Alleati, poi, con la scusa della contraddizione, finirono entrambe in un museo. Bell’esempio di come far sparire la verità: basta appenderci tutt’altro e poi dire che l’attaccapanni sfigura. Se un Montanari denuncia un obbrobrio, basta accusare quel Montanari di un altro obbrobrio; poi si mette tutto l’obbrobriume vero e immaginario nell’indifferenziato, per evitare cattivi odori, fastidiose asimmetrie e posizioni – è una parola che dice voglia di padrone – divisive. Funziona.
Il muro di San Miniato è rimasto vuoto e ignavo. L’ignavia è una colpa, lo insegna un toscano così innamorato e battagliero che morì esule. Nel 2021 cadrà il settimo secolo dalla sua morte, e certamente quelli che hanno in uggia le critiche saranno in prima fila sul palcoscenico. Ma le parole di Luigi Russo, «belle contrade», cancellate subito, additano coi buchi il vuoto di autostima di un bel paese, quello dove a chi comanda piace un popolo fatto di fascisti ringhiosi oppure di imbelli. Adesso, chi difende la bellezza e insieme la democrazia trova avversari pronti a farlo inciampare in qualche parola.
A proposito di parola. Nel 2019 un altro amministratore pubblico dello stesso schieramento che governa Firenze, l’allora presidente della Regione Enrico Rossi, ha ricordato la mancata giustizia sui crimini nazifascisti commessi durante l’occupazione – videro la Toscana fra le regioni più colpite – e ha promesso impegno concreto per ottenere i risarcimenti economici, che sono dovuti dalla Germania ai familiari delle vittime e alla stessa Regione come ente pubblico[2]. I cittadini hanno creduto a una possibilità di giustizia. Ma la parola, Rossi non l’ha mantenuta.
Sono sostanziosi, i risarcimenti che spettano alle famiglie toscane e italiane, per stragi e deportazioni, a carico dello Stato tedesco. Ma gli amministratori fiorentini levano alti lai, trascinano orrende piaghe, sanguinano da ferite immedicabili per le parole di Tomaso Montanari. Dai palazzi del potere i crediti si vedono con un cannocchiale che fa rammentare quel racconto a veglia: «Per chi è codesta minestrona? – È per voi, madre badessa! – Per me codesta minestrina?»[3].
I poeti, diceva Jean Cocteau, fanno solo finta di essere morti. Quell’esule, che a Ravenna si riposa chiudendo un occhio solo, potrà commentare questa storia con due o tre parole delle sue, dure come gioielli e scottanti come lava. I suoi versi dovrebbero insegnar bene, che in Toscana non si è usi discorrere di cose pubbliche sciacquandosi la lingua col brodo di coniglio.
Ma forse no, l’esule farà parlare lo straniero, Albert Camus: «La libertà è il diritto di non mentire. Vero sul piano sociale (subalterno e superiore) e su quello morale»; e anche: «La verità è la sola potenza, allegra, inesauribile. Se fossimo capaci di vivere soltanto della e per la verità: un’energia giovane e immortale in noi. L’uomo di verità non invecchia. Ancora uno sforzo e non morirà»[4].
Note:
1) Giuseppe Parini, Corso sui princìpi di belle lettere, in Prose, Gius. Laterza & Figli, Bari 1913, p. 262
2) Alla commemorazione della strage del Padule di Fucecchio: «L’Armadio della vergogna c’è. Il nostro paese non si è mosso come avrebbe dovuto. Perché le sentenze, contro i mandanti di quelle stragi, non sono state portate a esecuzione. È una vergogna, questa, che ci portiamo dietro, come Italia. E come Regione Toscana siamo disposti a fare ancora di più per arrivare a una degna conclusione». Su Facebook: «Metterò tutto il mio impegno per affiancare i familiari delle vittime delle stragi naziste nella loro richiesta di risarcimento alla Germania e verificare la possibilità di far costituire la Regione stessa. Ci incontreremo a breve per una risposta ufficiale»
3) Una versione è in Rodolfo Nerucci (a cura di), Racconti popolari pistoiesi in vernacolo pistoiese, Premiata tipografia Niccolai, Pistoia 1901, racconto XLVII, p. 62.
4) Albert Camus, Taccuini. Maggio 1935-Febbraio 1942. Febbraio 1942-Marzo 1951. Marzo 1951-Dicembre 1959, Giunti Editore/Bompiani, 2018, pp. 213 e 485
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