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31/03/2018

Il lato oscuro di Facebook: “crescere a qualsiasi costo”

Facebook ancora nel mirino dopo la pubblicazione da parte di un sito di informazioni Usa, Buzzfeed, di un memo interno di un dirigente il quale sostiene che “l’amara verità” è che il gruppo trova giustificazioni per qualunque cosa faccia per crescere. Il documento del 2016 afferma che ciò vale anche quando la vita delle persone è messa in pericolo dall’esposizione a bullismo e terrorismo.

Sia l’autore, Andrew Bosworth, sia il capo azienda, Mark Zuckerberg, hanno negato di condividere questa tesi, ma il memo getta un’ombra su un gruppo già alle prese con lo scandalo dei dati personali di 50 milioni di persone condivisi con la società di consulenza elettorale Cambridge Analytica.

Bosworth, tra gli inventori del News Feed di Facebook, è dirigente del social network dal 2006 con vari compiti e oggi guida la divisione realtà virtuale.

Nel 2016 scriveva: “Quindi mettiamo in contatto sempre più persone. Può essere un male se la rendono una cosa negativa. Forse può costare una vita se si espone qualcuno a dei bulli. Forse qualcuno può morire in un attacco terroristico coordinato con i nostri strumenti. Comunque, noi mettiamo in contatto persone. L’amara verità è che crediamo così profondamente nel mettere in contatto le persone che qualunque cosa ci consenta di mettere in contatto più persone è di fatto considerata un bene..... Ecco perchè tutto il lavoro che facciamo per crescere è giustificato. Tutte le pratiche discutibili per importare i contatti. Tutte le sottigliezze linguistiche per far sì che le persone siano cercate e contattate dagli amici. Tutto il lavoro che facciamo per includere più comunicazioni. Tutto il lavoro che probabilmente dovremo fare in Cina. Tutto”.

Bosworth ha poi twittato di “non essere stato d’accordo” con il memo nel momento in cui l’ha postato, ma di aver deciso di condividerlo con i dipendenti del gruppo come “provocazione”. “Discutere di temi difficili come questi è una parte fondamentale del nostro modo di procedere e per farlo in modo efficace dobbiamo prendere in esame anche cattive idee” ha aggiunto.

Anche Mark Zuckerberg ha emesso in comunicato. “Boz è un leader talentuoso che dice molte cose provocatorie” ha scritto. “Questa è una delle cose sulla quale la maggior parte dei dipendenti Facebook, me compreso, decisamente non è d’accordo. Non abbiamo mai creduto che il fine giustifichi i mezzi”. Un pezzo sul sito The Verge rivela che decine di dipendenti di Facebook hanno discusso sulla chat interna la pubblicazione del memo e le loro preoccupazioni per le fughe di notizie ai danni della società.

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Da sindacati ad agenzie assicurative. La “triplice” cambia ragione sociale


La lenta inesorabile mutazione del sindacalismo complice italiano.

Prima hanno offerto la loro complicità nell’opera di distruzione sistematica del Sistema Previdenziale Pubblico (leggi: Pensioni) in cambio degli enti bilaterali con cui co-gestire insieme ai padroni quei fondi pensione "chiusi" da rimpinguare con i TFR dei lavoratori da gettare in pasto alle speculazioni borsistiche delle holding finanziarie.

Poi hanno fatto da docile sponda allo smantellamento del Servizio Sanitario Nazionale (Leggi: Sanità) ed hanno inserito nei contratti i fondi sanitari integrativi ovviamente anche questi in co-gestione con i padroni.

Ora, tra una firma a perdere e l’altra, sono usciti allo scoperto e dopo aver definitivamente archiviata la funziona di difesa collettiva e generale dei diritti dei lavoratori, si stanno dedicando “anema e core” alla medesima attività che svolge proficuamente, da tre anni circa, il loro nume tutelare, guida spirituale, guru, idolo e modello irraggiungibile: Raffaele Bonanni, una pensione d’oro da 336.000 euro annui ed una splendida carriera da broker assicurativo.

Certo, arrivare ad eguagliare le performance di Bonanni sarà molto difficile anche per i suoi epigoni più talentuosi. Tuttavia, male che vada, per i più bravi a far danni, c’è sempre un posto pronto da deputato o senatore della Repubblica, ovvero, il meritato premio del sindacalista che ha dato il suo prezioso apporto al raggiungimento di due grandi obiettivi storici del padronato italiano: i salari più bassi d’Europa ai lavoratori deprivati ormai dei più elementari diritti e la consegna del welfare ai gruppi finanziari privati.

E i sindacati a questo punto a cosa servono più?

Ma certo, a mandare in giro “delegati” per appioppare polizze assicurative ai lavoratori, a percentuale. Dopo aver distrutto il più grande movimento dei lavoratori d’occidente, ora se ne contendono le spoglie per tirar su qualche quattrino nelle ore di permesso sindacale o di assemblea in cui vi presenteranno le “offerte più vantaggiose” del mercato assicurativo.

E se vi capitasse di parlare di sindacati italiani con un qualsiasi lavoratore di un qualsiasi paese europeo, state attenti: vi rideranno in faccia.

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Potere al Popolo - "A Gaza strage di civili, Israele straccia i diritti umani basilari"


“14 vittime e oltre 1.200 feriti fra i palestinesi: quanto accaduto oggi nella Striscia di Gaza è una tragedia immane, una chiara violazione dei più basilari diritti umani da parte di Israele”. Così Viola Carofalo, portavoce di Potere al Popolo.

“Oggi abbiamo assistito a una vera e propria strage di civili compiuta da uno stato che è al di sopra della legge internazionale grazie al sostegno pressoché unanime degli Usa e di troppi paesi dell’UE. Quest’ennesima strage dimostra quanto siano fallaci i richiami all’equidistanza che tutte le forze politiche nazionali e internazionali ripetono come un mantra a proposito di Israele e Palestina. Non si può essere equidistanti quando da un lato ci sono le pietre e dall’altro i carri armati”.

Carofalo attacca anche il governo italiano: “Come Potere al Popolo deploriamo il consueto silenzio-assenso dell’Italia di fronte alle violenze israeliane. Il governo italiano ancora una volta fa carta straccia dei diritti e di democrazia di cui tanto si fa vanto a parole e tace sui crimini israeliani. Noi sosteniamo la ‘Marcia del ritorno’ palestinese esprimendo la sua piena solidarietà alle ‘tende del ritorno’ allestite al confine tra la Striscia di Gaza e il confine israeliano”.

Così continua Carofalo: “Quello che accade in queste ore ci lascia sgomenti, ma non ci stupisce. Parliamo di uno stato, quello israeliano, responsabile di veri e propri eccidi nella Striscia nel 2009, 2012, 2014; uno Stato che continua a costruire le colonie in Cisgiordania in barba alle risoluzioni Onu. Uno stato che imprigiona l’adolescente palestinese Ahed Tamimi, ‘rea’ di aver schiaffeggiato un soldato israeliano il cui esercito poco prima aveva ferito gravemente il cugino. La vicinanza del nostro movimento va a tutte le donne e uomini palestinesi che resistono da oltre 70 anni alle politiche criminali e di apartheid implementate da Israele a danno del popolo palestinese. In queste ore in cui piangiamo 14 vittime umane, bilancio purtroppo ancora provvisorio, ribadiamo con forza il pieno sostegno alla campagna BDS (Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni) lanciata dai palestinesi nel 2005 e appoggiata da molte organizzazioni internazionali. Ribadiamo la denuncia dell’assedio che da oltre 10 anni è stato imposto sulla Striscia di Gaza, con la complicità dell’Egitto, così come la decisione di dicembre del presidente statunitense Trump di riconoscere Gerusalemme ‘capitale dello Stato d’Israele’ e di spostare lì l’ambasciata Usa”.

Così conclude Carofalo: “Crediamo che la pace in Palestina potrà realizzarsi soltanto quanto sarà data piena giustizia al popolo palestinese e sarà garantito il diritto al ritorno a tutti i rifugiati”.

Viola Carofalo - Potere al Popolo

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M5S nel cuore di Macron, al posto di Renzi

Quando le cose vanno veloci, gli “onesti” cominciano a correre... A lottare, infatti, i Cinque Stelle non ci pensano proprio.

Aveva fatto scalpore, ma era stata subito derubricata tra le notizie minori, la sortita di Shahin Valléè, ex consigliere del presidente francese Macron, che sul Corriere della Sera aveva aperto al M5S per la formazione di una comune forza liberale europeista, alla sola condizione di non fare un governo insieme alla Lega (che a Strasburgo fa gruppo con i fascisti di Marine Le Pen).

Come spiega bene il pezzo de IlSole24Ore, che qui di seguito vi alleghiamo, sono seguite smentite ufficiali e mezze conferme ufficiose. In fondo Macron aveva fatto un’operazione simile, ma in pompa magna, con la destra spagnola di Ciudadanos e Matteo Renzi, sempre al grido di “riformiamo l’Unione Europea”. Dunque il margine per cambiare così repentinamente cavallo italiano (da Renzi a Di Maio) non era ampissimo, visto che le elezioni non hanno ancora partorito un governo e la sua formazione appare piuttosto laboriosa. Ma non c’è dubbio che a Macron non piace accompagnarsi con i perdenti, e il Pd attuale è piombo nelle ali per chiunque – nel Vecchio Continente – ambisca a recitare un ruolo di primattore.

Dunque, per un presidente griffato Banca Rotschild, il panorama italiano non offre molte alternative. Salvini ha una fama da lepenista, Berlusconi fa ancora ridere tutti (nonostante l’appeasement con Angela Merkel, o forse anche per questo), Renzi è con un piede nella fossa. Restano solo i Cinque Stelle, che si erano fatti cucire addosso (da Grillo, però) il vestito da euroscettici, ma che molto prima del voto hanno preso a far girare a Di Maio il mondo per “rassicurare i poteri forti”.

Confindustria – l’editore de IlSole24Ore – si trova nella stessa posizione di Macron e quindi fa ottimo viso al nuovo, ma non cattivo, gioco. In fondo il potere economico è in questa fase molto più forte di quello “politico”; specie se quest’ultimo è rappresentato da un movimento di neofiti che devono farsi perdonare qualche vecchio eccesso verbale del loro anziano guru.

Il “riposizionamento europeo” del M5S in versione Di Maio è stato in effetti molto rapido e promette ulteriori accelerazioni, che probabilmente stordirebbero un elettorato consapevole. Il voto popolare massiccio a grillini e leghisti non è però stato un’adesione “ideologica”, ma un semplice “spazziamo via il Pd di Renzi e delle banche” e anche chi gli ha tenuto bordone (Forza Italia, dal Nazareno a Verdini).

Insomma, Di Maio non rischia l’implosione elettorale solo perché passa dal campo degli euroscettici a quello dei presunti “riformatori” della Ue. Il problema, per lui e i suoi colleghi, sorgerà al momento dell’eventuale ingresso a Palazzo Chigi; ossia quando – come tutti i giornali mainstream gli ricordano a ogni pagina – ci sarà da varare una “manovra correttiva” di parecchi miliardi (12,4 soltanto per evitare che scatti l’aumento dell’Iva come “clausola di salvaguardia”) e soprattutto disegnare insieme alla Ue una “legge di stabilità 2019” che recepisca in pieno, per la prima volta, il Fiscal Compact; e quindi una riduzione del debito pari al 5% del Pil (più o meno altri 50 miliardi da trovare tra nuove tasse e tagli di spesa).

Un quadro di vincoli esterni tale da far rapidamente cancellare le promesse elettorali (reddito di cittadinanza, rottamazione della legge Fornero, ecc.) e trasformare il M5S, agli occhi della popolazione, nell’ennesima variante del partito-servo-di-Bruxelles. Se e quando Di Maio dovesse effettivamente accreditarsi con i fatti (gli atti di governo), oltre che con le rassicurazioni salottiere, allora certamente l’apertura di Macron per la formazione di un “grande centro” europeista, in grado di concordare con Merkel alcuni aggiustamenti minimi all’architettura dei trattati europei (in chiave “restrittiva”, verso l’”Europa a due velocità”), diventerebbe un invito a corte.

Queste manovre dense di incognite – da qui a un anno possono accadere tante cose, sia sul piano economico sia geopolitico – hanno un certo interesse per quanto potranno modificare nel contesto politico europeo. Soprattutto, però, gettano un fascio di luce sulla necessità di cominciare da subito ad affrontare il nodo che stringerà alla gola le varie “sinistre” del Vecchio Continente in vista delle elezioni europee del prossimo anno.

Già ora, infatti, emerge con notevole chiarezza che non serve a nulla – letteralmente a nulla – scrivere l’ennesimo “programma” pieno di buoni propositi sociali, se non si delineano prospettive politiche concretissime sul come si pensa di realizzare quel programma.

Le recenti tensioni che hanno attraversato la “famiglia della sinistra europea”, rese evidenti dalla richiesta di France Insoumise di “espellere” Syrizia (respinta, per ora), si sono svolte sulla faglia aperta dal crollo di Tsipras di fronte alle pressioni della Troika.

Quel crollo infatti dimostra che non è possibile “riformare l’Unione Europea”, né sottrarsi ai suoi diktat, per quanto “di sinistra” possa essere la composizione di un governo nazionale e la sua classe politica.

La riflessione da fare sul prossimo futuro deve tenere insieme la praticabilità di un obiettivo, il peso specifico dei vari paesi (e certo la Grecia non “pesa” come la Francia), il realismo dell’analisi, il consenso popolare strutturato (ossia consapevole che c’è un conflitto da praticare, non un banale “io ti voto, tu mi dai”) intorno a un movimento progressista radicale.

Un tema che oggi vede in campo due risposte molto diverse: da un lato il generico e fumoso “riformiamo l’Europa”, dall’altra l’abbozzo di strategia messo in campo da Mélenchon e altre formazioni europee (detto grossolanamente: Piano A: riscriviamo tutta una serie di trattati che ci strangolano, Piano B: rottura con la UE, compresa la moneta unica).

Nel primo caso, si resta “dentro” una gabbia costrittiva che non consente neppure un’opposizione minimamente significativa (chi sa dire cosa abbia ottenuto la “sinistra europea” in tanti anni a Strasburgo?). Nel secondo, si comincia a lavorare – come da tempo suggerisce la Piattaforma Eurostop – a una rottura che disegna fin d’ora un’area euromediterranea basata su criteri e principi di cooperazione opposti a quelli rappresentati dall’ordoliberalismo della Ue.

L’opposto, insomma, di qualsiasi “ritorno alla sovranità nazionale”.

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M5S da euroscettico a «eurocritico»: a Strasburgo sogna un grande centro alternativo a Merkel

di Manuela Perrone

IlSole24Ore

Da euroscettici a «eurocritici responsabili», fautori di una linea che sia meno dipendente da Berlino senza più confondersi con estremisti e forze anti-sistema. Il riposizionamento del Movimento Cinque Stelle in Europa passa per questa metamorfosi, accuratamente accelerata negli ultimi tempi. A beneficio di chi? Le indiscrezioni sull’avvicinamento a Macron, con l’intento di entrare nel suo futuro gruppo all’Europarlamento dopo le elezioni del 2019, non vengono commentate ufficialmente. «Calma e gesso», ripetono i pentastellati a taccuini chiusi. «In un anno può succedere di tutto».

Quel che è accaduto ieri tra Bruxelles e Parigi testimonia quante e quali correnti scorrano sotto la superficie. Dopo le indiscrezioni pubblicate sul Foglio e l’intervista al Corriere della Sera dell’ex consigliere del presidente francese, Shahin Valléè, che apre al dialogo con il M5S purché non si allei con la Lega, arriva una nota durissima dell’associazione Europe En Marche: «I valori progressisti, di apertura e umanità sono la colonna vertebrale di Europe En Marche e non sono compatibili con le posizioni demagogiche, populiste e apertamente euroscettiche del M5S». In molti la leggono come un alt secco dei macroniani. Ma qualche ora dopo, via twitter, il partito En Marche chiarisce la versione ufficiale: «A proposito dell’Italia, come su tutti gli altri temi di politica estera soltanto @enmarchefr può esprimersi a nome della #LaREM». Né l’associazione, che ritira la nota, né Valléè. Se non è una sconfessione, poco ci manca.

Che cosa è successo? Secondo i Cinque Stelle, dietro la mossa di Europe En Marche potrebbe esserci lo zampino di Sylvie Goulard, nemica giurata del Movimento e tra le principali artefici del fallimento del passaggio dei pentastellati nel gruppo dei liberali ultraeuropeisti di Alde, tentato lo scorso anno per svincolarsi dall’abbraccio con l’Ukip di Nigel Farage nel gruppo Efdd. Goulard ha lasciato Strasburgo subito dopo, perché scelta da Macron come ministra della Difesa. Ma è stata travolta da uno scandalo riguardante una presunta truffa proprio all’Europarlamento ed è stata spostata alla vicepresidenza della Banque De France, possibile trampolino di lancio verso la poltrona di Benoit Couré (che scadrà a gennaio 2020) nel comitato esecutivo della Bce. In sintesi: Europe En Marche è la voce dei falchi, ma l’area di Macron è popolata di colombe disposte a valutare con molta più cautela. E più tempo.

Lo scenario che il M5S ha ben presente, a Roma come in Europa, è uno: l’unico gruppo che l’anno prossimo non perderà eurodeputati sarà il Ppe di Merkel e Berlusconi, mentre la Brexit causerà emorragie importanti tra i conservatori di Ecr, tra i socialisti del Pse (si stima il 40% di parlamentari in meno) e nello stesso Efdd. Al contempo faranno il loro ingresso all’Europarlamento forze nuove, dagli spagnoli di Ciudadanos allo stesso Macron, fino ai verdi danesi di Alternativet (che Di Maio andò a incontrare un anno fa a Copenaghen, ergendoli a modello del piano energetico M5S). È in questa scacchiera che il Movimento dovrà muoversi. Quello che si attende è capire come si costruirà il «contropotere» rispetto ai popolari di Merkel: se intorno a una nuova sinistra che metta insieme i socialisti e i verdi, oggi tutti deboli, o se intorno a un raggruppamento neocentrista, che possa coagulare liberali e macroniani. E poi?

Qui la partita si intreccia con quella nazionale del governo e dei rapporti tra partiti. Finora l’unico endorsement esplicito per Macron è arrivato da Matteo Renzi: se fondasse un suo movimento per correre alle europee – è il ragionamento tra i Cinque Stelle – ogni interlocuzione con il presidente francese resterebbe sulla carta. Significa che quel che accadrà nei prossimi mesi nel Pd non sarà ininfluente né sul piano interno né su quello europeo. Le altre soluzioni sono al vaglio. E la posizione che si assumerà sarà la stessa di questi giorni in Italia: massimo dialogo con tutti, confidando in una delegazione più numerosa (oggi i pentastellati rimasti nel M5S sono 14 rispetto ai 17 iniziali), che possa fare gola.

Ma un punto fermo ci sarà, almeno stando a quanto trapela: mai con Le Pen, che oggi siede nel gruppo Enf (Europa delle nazioni e della libertà) insieme ai leghisti di Matteo Salvini, comunque vada la partita del governo. Il M5S di Luigi Di Maio ha cominciato prima e in modo più convinto la “normalizzazione” per accreditarsi presso le cancellerie europee, mentre Salvini, nel suo ultimo giorno da eurodeputato qualche settimana fa, ancora tuonava contro la moneta unica e si faceva fotografare con Farage. Il M5S intende giocare la carta del lavoro concreto svolto a Strasburgo. «Il Movimento vota diversamente da Ukip su tante questioni politiche», certifica VoteWatch Europe, organizzazione indipendente che monitora le votazioni di tutti gli europarlamentari. Molta più sintonia emerge con la Sinistra europea, con i Verdi e con Alde. «Fabio Massimo Castaldo – fanno notare dal gruppo a Strasburgo – è vicepresidente dell’Europarlamento, scriviamo regolamenti importanti, come quello sull’immigrazione che tra due settimane andrà al voto o come quello sulle etichettature energetiche. C’è una consapevolezza diversa di noi».

Un dato è certo: sono lontani i tempi delle battaglie anti-euro, delle lunghe interviste per il blog a Farage («Lui è un vero euroscettico», lo osannava Beppe Grillo nel 2013), del Movimento di piazza che tuonava contro l’establishment. Se nel 2014 si entrava da alieni a Strasburgo cercando conforto tra le braccia degli acerrimi nemici dell’integrazione europea – oltre a Farage, i leghisti di Speroni, la Polonia solidale, il Fronte nazionale per la salvezza della Bulgaria, il Raggruppamento popolare ortodosso greco – oggi il vento che soffia da Roma impone tutt’altra linea: non euroscettica, appunto, ma eurocritica. Moderata e responsabile. Da moderna balena bianca: una forza che aspira a occupare tutto il centro dell’arena, in Italia come in Europa.

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Gaza - "Marcia del ritorno" morti e feriti

Se l’obiettivo di Israele era quello di alzare la tensione già altissima nella Striscia, il suo tentativo si può dire riuscito: stamane all’alba un contadino palestinese, Omar Wahid Samur (27 anni), è stato ucciso dai colpi sparati da un carro armato israeliano nei pressi di Khan Yunis, nel sud della enclave assediata palestinese. Nell’attacco, riferisce il Ministero della salute locale, è rimasto gravemente ferito un altro palestinese. Scarno il comunicato emesso da Israele su quanto accaduto stanotte: “Due sospetti si sono avvicinati alla recinzione [al confine] e hanno avuto un atteggiamento sospetto vicino ad essa. L’unità dell’esercito ha risposto sparando con un carro armato”. Israele ha colpito anche due persone “sospette” nel nord della Striscia sempre perché troppo vicine al confine. Non è chiaro al momento quali siano le loro condizioni.

L’uccisione di Samur giunge a poche ore dall’inizio della “Marcia del Ritorno”, proclamata dai palestinesi in occasione del “Giorno della Terra” che commemora i sei palestinesi uccisi dalla polizia israeliana in Galilea durante le proteste, 42 anni fa, contro la confisca delle terre arabe. Una ricorrenza che, nel corso degli anni, si è trasformata in un’occasione di condanna dell’occupazione militare dei Territori palestinesi e di sostegno alla minoranza araba in Israele.

La tensione è altissima: il capo di stato maggiore israeliano, Gadi Eisenkot, mercoledì ha annunciato di aver autorizzato l’uso di pallottole vere contro i palestinesi che si avvicineranno o attaccheranno le barriere di confine durante la “Marcia del Ritorno”. Eisenkot ha parlato di situazione “altamente esplosiva” nella Striscia: “Stiamo rinforzando le barriere – ha detto – e un gran numero di soldati saranno di guardia nell’area in modo da prevenire possibili tentativi di passare in territorio israeliano‎”. L’esercito schiererà più di 100 tiratori scelti, ha fatto arrivare rinforzi a sostegno delle unità già presenti e ha anche lanciato avvertimenti alle compagnie di trasporto palestinesi che porteranno i manifestanti alla tendopoli.

Il Maggior Generale Yoav Mordechai, coordinatore delle attività del governo israeliano nei Territori occupati, ha avvertito il movimento islamico Hamas e le altre fazioni palestinesi a non usare le proteste (“manifestazioni di anarchia” a suo dire) per intraprendere un confronto violento con l’esercito israeliano. Ad alimentare la tensione è anche Jason Greenblatt, l’inviato statunitense per le negoziazioni tra Israele e palestinesi che sul suo account di Twitter ha accusato oggi Hamas di “incoraggiare una marcia ostile” lungo il confine con Israele. “Hamas – ha aggiunto – dovrebbe concentrarsi a migliorare la vita dei palestinesi di Gaza invece di istigare alla violenza contro Israele che aumenta solo le difficoltà [dei gazawi] e mina le possibilità di pace”.

Gli islamisti, dal canto loro, ieri sera hanno esortato nuovamente i palestinesi a “restare pacifici così da raggiungere l’obiettivo di questo evento”. Nei giorni scorsi, però, il movimento islamico aveva anche chiarito che i palestinesi non resteranno con le mani in mano qualora le forze armate israeliane dovessero usare la forza per disperdere le manifestazioni.

Dopo un tour delle “tende del ritorno” allestite dai manifestanti palestinesi in questi giorni vicino al confine con Israele, Khalil al-Haya, un ufficiale di Hamas, ha affermato ieri che i palestinesi sono determinati a tornare alle loro terre e alla loro patria. “Il nostro popolo non sarà intimidito dalle minacce israeliane – ha poi aggiunto – Abbiamo aspettato troppo a lungo per ritornare nelle nostre terre da cui i nostri nonni sono stati espulsi 70 anni fa”.

Anche il comitato responsabile del coordinamento delle proteste di oggi ha invitato i manifestanti a protestare “pacificamente”. “Siamo a poche ore dalla fragorosa, legittima e pacifica marcia vicino alle terre, case e proprietà da cui siamo stati espulsi”, si legge in un suo comunicato. Il comitato ha anche invitato le famiglie palestinesi a organizzare viaggi nell’area adiacente al confine “per godere delle bellezze della natura nelle terre occupate della patria”.

AGGIORNAMENTI:

ore 19:15 Sale a 14 il numero dei palestinesi uccisi oggi
Le ultime due vittime erano due membri del Jihad Islamico. Sono stati uccisi da una cannonata mentre erano sulle barriere in missione. Ezzedin al-Qassam, intanto, fa sapere che tra i morti di oggi c’è anche uno dei suoi uomini. Ma non era armato ed è stato colpito mentre si trovava tra la gente.

ore 19:00 Ministero di salute palestinese: “Numero delle vittime 12, 1.000 palestinesi feriti da gas lacrimogeno, pallottole vere e coperte di metallo”

ore 15:20 Scontri ad al-Bireh (Ramallah, Cisgiordania Occupata): 14 palestinesi feriti

ore 14:50 La settima vittima si chiamava Mohammad Sa’adi Rahmi

ore 14:40 Partita poco fa la manifestazione a Sakhnin in Galilea (nord d’Israele) per commemorare “il Giorno della Terra”. Il corteo si dirige verso la città di Arraba.

ore 14:35 Foto da Gaza. (Fonte: Dal portale Ma’an in arabo)

ore 14:30 Sale a 7 il numero dei morti palestinesi oggi. Più di 570 i feriti

ore 14 – Sale a cinque il bilancio delle vittime a Gaza
Sono almeno cinque le vittime palestinesi, uccise dal fuoco dell’esercito israeliano a Gaza. Il Ministero della Salute di Gaza ha identificato la quarta e la quinta vittima: Omar Sammour, 31 anni, e Ahmad Ibrahim Odeh, 16. Sarebbero tra i 15mila e i 20mila i palestinesi che sono riusciti a raggiungere gli accampamenti di tende, forma di protesta per il diritto al ritorno.

ore 13.45 –  Ministero della salute palestinese: “4 i palestinesi uccisi oggi. Più di 365 i feriti”
L’ultima vittima si chiamava Mohammad Abu Omar. Secondo il ministero, sono 365 i palestinesi feriti o intossicati da lacrimogeni, proiettili veri o di gomma.

ore 13.20-  Terzo palestinese ucciso. Questa volta a Rafah, a sud della Striscia. 
Si chiamava Amin Mahmoud Muammar (35 anni). Fonti palestinesi parlano di 100 feriti

ore 12.15  – Sale a due il bilancio dei palestinesi uccisi oggi dall’esercito israeliano.
Secondo fonti locali di Gaza, la seconda vittima si chiama Mohammed Kamal al-Najjar.
ore 11.20 – Haniyeh, leader di Hamas: “ Non cederemo un pezzo di terra di Palestina né riconosceremo l’entità israeliana”
Arrivato al campo di tende allestito dai palestinesi al confine est della Striscia, il capo politico di Hamas Ismail Haniyeh ha detto: “Diamo il benvenuto ovunque al popolo palestinese che ha sconfitto la scommessa dei leader nemici secondo cui i vecchi sarebbero morti e i giovani avrebbero dimenticato. Ecco i giovani, i nonni e i nipoti. Non cederemo nemmeno un pezzo della terra di Palestina e non riconosceremo l’entità israeliana. Promettiamo a Trump e a tutti quelli che sostengono il suo complotto che non rinunceremo a Gerusalemme e che non c’è soluzione se non il diritto al ritorno”. A riferirlo è la tv palestinese
ore: 10.50  – Ministro difesa israeliano Liberman: “Chi si avvicina alla barriera si mette in pericolo”
(Traduzione dall’arabo: “Agli abitanti della Striscia di Gaza. La leadership di Hamas mette la vostra vita in pericolo. Tutti coloro che si avvicineranno alla barriera, metteranno a repentaglio la loro vita. Vi consiglio di continuare la vostra vita normalmente e a non prendere parte a questa provocazione”).

ore 10.30 – Fonti da Gaza a Nena News: “19 palestinesi feriti a colpi di arma da fuoco”
Fonti palestinesi da Gaza riferiscono a Nena News che 19 palestinesi sono stati feriti nella Striscia di Gaza da colpi d’arma da fuoco sparati dall’esercito israeliano. La notizia al momento non è stata confermata dal Ministero della Salute palestinese. Nella piccola enclave palestinese migliaia di persone sono presenti al confine con Israele. Le fonti contattate da Nena News fanno sapere che la popolazione non vuole rispettare l’ordine israeliano di non avvicinarsi alla barriera di sicurezza.

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30/03/2018

Siria - La "Tigre" al posto di Assad

di Michele Giorgio il Manifesto

L’indiscrezione va presa con le molle perché a diffonderla è stato al ‎Rai, quotidiano kuwaitiano notoriamente schierato con il fronte ‎sunnita e contro Iran e Siria. Eppure va considerata perché riguarda le ‎manovre intorno al futuro della Siria. Suheil Hassan, il famoso comandante “Tigre”, il generale più vittorioso della Siria, gode di grande stima e considerazione da parte del leader russo Vladimir Putin che lo vedrebbe come il successore ideale del presidente Bashar Assad. Secondo Al Rai, il Cremlino scorge nel “Tigre” le doti di un ‎capo militare forte e determinato, garante della continuità dell’attuale ‎leadership siriana (e degli interessi di Mosca nella regione) e allo ‎stesso tempo non soggetto all’influenza di Tehran. Al contrario di ‎Bashar Assad che, sostiene il giornale, è troppo condizionato dalle ‎decisioni dell’Iran e dipendente dal sostegno militare del movimento ‎sciita libanese Hezbollah, stretto alleato di Tehran.‎

È «fantascienza», una «fake news», ci diceva ieri una fonte giornalistica siriana insistendo che Mosca non può mettere in discussione la presidenza dell’alleato Assad ora che, più forte che ‎mai, è sul punto di vincere la guerra contro i gruppi islamisti e ‎jihadisti sostenuti dalle petromonarchie del Golfo. Peraltro Suheil ‎Hassan difficilmente potrà essere visto dall’opposizione siriana come ‎un’alternativa ad Assad poiché il suo nome è legato alle sconfitte ‎più cocenti inflitte dall’esercito siriano a jihadisti e “ribelli”. I reparti ‎‎(circa 8mila uomini) agli ordini del “Tigre” inoltre non sono noti per ‎tenere troppo in considerazione il “diritto umanitario in tempo di ‎guerra”.‎

Forse è «fantascienza» però la Russia si sta mostrando più spregiudicata del solito sui vari fronti di guerra in Siria e sui tavoli della diplomazia imponendo decisioni che Damasco talvolta deve ingoiare in silenzio. Mosca prima ha lasciato, assieme a Washington, ‎campo libero alla Turchia decisa a strappare ai curdi la città di Afrin – ‎in cambio dell’impegno di Ankara per far uscire da Ghouta Est i ‎miliziani islamisti di Ahrar al Sham e Faylaq al Rahman – e ora fa pressioni su Damasco affinché, dopo la liberazione della Ghouta, accetti la formazione di un esecutivo di consenso nazionale con dentro rappresentanti dell’opposizione inclusi quelli di Ahrar al Sham. ‎«La leadership siriana non è convinta della proposta russa – ha ‎spiegato la nostra fonte – ma il Cremlino afferma che questa è l’unica ‎strada per mettere fine alla guerra e dare spazio a un vero negoziato».‎

Comunque sia Damasco ha sempre bisogno della Russia e del suo appoggio militare e politico. Il conflitto non è finito. Resta da decidere una soluzione per i miliziani di Jaysh al Islam (sostenuti dall’Arabia Saudita) che rifiutano di lasciare l’ultimo caposaldo nella Ghouta, e di essere trasferiti nella provincia di Douma. Così come resta da risolvere l’occupazione da parte di combattenti dello Stato islamico del campo profughi palestinese di Yarmouk e della cittadina di Qadam, a ridosso di Damasco. Infine c’è la provincia di Deraa dove si combatterà forse l’ultima decisiva battaglia tra l’esercito siriano e le formazioni islamiste.

AGGIORNAMENTI:

ore 12:40 Il presidente francese Macron si propone come mediatore tra Turchia e forze Fds a maggioranza curde. Erdogan: “Resti al suo posto”. Dagli Usa, intanto, Trump fa sapere che i soldati americani “se ne andranno molto presto”

Dopo aver incontrato ieri per la prima volta una delegazione curda (tra questi vi erano anche esponenti delle unità militari YPG) l’ufficio politico di Macron ha rilasciato un breve comunicato: “Il presidente ha reso omaggio ai sacrifici e al ruolo determinante svolto dalle Sdf nella lotta contro Daesh”. Macron, continua la nota, “ha confermato il sostegno francese alla stabilizzazione delle zone di sicurezza nel nord-est della Siria all’interno di un quadro che prevede un governo bilanciato che impedisca il ritorno dello Stato islamico”.

Immediata la risposta del presidente turco Recep Tayyip Erdogan: “Non abbiamo bisogno di un mediatore. Da quando la Turchia si siede a tavolo con delle organizzazioni terroristiche? La Turchia lotta queste organizzazioni in posti come Afrin” . “La nostra posizione – ha aggiunto poi su Twitter il portavoce di Erdogan, Ibrahim Kalin – è chiarissima. Rifiutiamo qualunque sforzo che promuova “dialogo”, “contatto” o “mediazione” tra noi e questi gruppi terroristici”.

Di Siria ha parlato ieri anche il presidente Usa Trump. Rivolgendosi ai lavoratori industriali dell’Ohio, il leader repubblicano ha detto che le forze Usa “molto presto” se ne andranno dalla Siria. “Lasciamo che siano altri popoli ad occuparsene ora” ha aggiunto. “Spendiamo 7 trilioni di dollari in Medio Oriente. E sapete per cosa? Per niente” ha poi chiosato, promettendo di concentrare le spese sui posti di lavoro e sulle infrastrutture negli Usa.

ore 16:00 Jaish al-Islam nega intesa con la Russia nella Ghouta est

Il gruppo islamista Jaysh al-Islam, che controlla la città di Douma (Ghouta orientale, vicino a Damasco), ha smentito di aver raggiunto una intesa con la Russia. “La nostra posizione è chiara e ferma: rigettiamo l’evacuazione forzata e il cambiamento demografico in quel che resta della Ghouta orientale) ha detto il portavoce del gruppo Hamza Birqdar su Telegram.

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Egitto - Elezioni per legittimare il dittatore

La legittimazione del dittatore tramite la blindatura delle presidenziali, volta a tenere sigillato il Paese per i prossimi anni, ha concluso il percorso. Com’era accaduto nel 2014, il generale golpista Abdel Fattah al-Sisi riavrà il consenso popolare grazie alla diffusa consapevolezza che tutto ciò serve alla nazione. Per settimane la martellante propaganda mediatica di giornalisti asserviti e stelle dello spettacolo e dello sport ossequiose, ha ripetuto: “Siamo con il nostro Paese e con il nostro presidente”. Lui, presidente certamente rieletto, non era più uno sconosciuto. Le incognite di quattro anni fa erano svanite dentro certezze assolute: un sorriso pacioso che cela a stento un pugno di ferro e un cuore ancor più duro, rivolti agli oppositori, ai comunicatori, alle migliori menti d’Egitto di cui, la legge del comando che l’ispira, si fa beffa. Anzi, chiunque obietti, dubiti, osi parlare viene visto con fastidio, isolato, privato della libertà se non addirittura della vita. Con questi presupposti ottenere il pieno del consenso e bissare il successone di quattro anni addietro, diventa semplice. Chi non si convinceva con la propaganda paternalista sull’uomo giusto che guida la nazione per il bene del popolo, lo capiva col clima intimidatorio su cui neppure gli osservatori internazionali impegnati in alcuni seggi campione dei 13.700 predisposti hanno potuto tacere. Dunque, Sisi presidente col 92% dei consensi. E’ lui il partner che l’Occidente vuol mostrare nei summit mediorientali, che servirà nell’asse d’acciaio stabilito con l’uomo implacabile dell’instabile terra libica: il generale Haftar. Sisi è il leader che non dispiace a Israele e che il sovrano di fatto della dinastia Saud, l’iper realista Bin Salman, condurrà per mano attraverso i propri piani finanziari e geopolitici regionali.

Chi è interessato alle cifre (che saranno certe, forse, il 2 aprile) può confrontarle con quelle delle ultime tre elezioni: nel 2005 Mubarak vinse contro Abdel Aziz Nour con l’88% dei consensi, votava il 23% degli iscritti. Nel 2012 Morsi prevalse su Shafiq col 51.7% e il 52% dei partecipanti, mentre nel 2014 Sisi vinse contro Sabahi col 97% e votò il 47% dei chiamati alle urne, in realtà fu il 15%. Però l’operazione camuffamento, che aveva prolungato le consultazioni proprio per la scarsa affluenza a seguito del boicottaggio lanciato dalla Fratellanza Musulmana, raggiunse lo scopo prefisso. Principalmente si cercava un concorrente morbido che accreditasse il ‘confronto democratico’ da inchiodare su una percentuale di consenso infinitesimale. Allora fu il post nasseriano Sabahi, stavolta si è trattato del liberal-sissiano Moussa. Un boicottaggio non solo dell’estinta, almeno agli occhi pubblici, Brotherhood c’è stato anche stavolta. L’aveva indicato a gran voce Aboul Fotouh, e pur non scandendolo apertamente il generale Anan, entrambi esclusi dal confronto con motivazioni pretestuose. Conoscere le percentuali reali di voto e d’astensione da quelle parti è sempre approssimativo, per la palese opera d’occultamento dei dati compiuta dal ministero dell’Interno che umilia il ruolo indipendente del Comitato elettorale. Di fatto viene ribadita quella spaccatura esistente dal 2011 che contrappone la lobby militare, e chi si stringe attorno a essa per interesse, adesione ideale, paura, e gli oppositori al regime dei raìs, incarnata dalla fazione islamica della Fratellanza da tempo fuorilegge e perseguitata e dagli oppositori laici, essi stessi perseguitati. Una polarizzazione deleteria per gli interessi dei più deboli, ma di fatto esistente.

Per tamponare l’astensione la giornata di ieri ha visto all’azione gli esattori di multe (500 lire egiziane, cioè 28 dollari) per chi non s’era recato alle urne. Sono bastate minacce e azioni per ‘addomesticare’ parecchi elettori dell’ultim’ora che fanno salire il quorum su parametri accettabili, tanto per salvare la faccia del consenso al nuovo faraone. Non erano servite a molto neppure le sbandierate presenze dei primi due giorni che avevano visto susseguirsi gli inviti al voto del premier di comodo Ismail e la presenza al seggio delle due maggiori autorità confessionali entrambe favorevoli al regime: il grande imam di Al-Azhar El Tayeb e il papa della chiesa copta Tawadros II. Anche nel terzo giorno del voto, svoltosi in totale assenza di atti violenti (dopo l’attentato con autobomba compiuto sabato scorso ad Alessandria e costato la vita a due poliziotti) l’informazione televisiva ha ripetuto il mantra del “voto libero e giusto”. Altra nota di colore per invogliare la cittadinanza ai seggi è stata la distribuzione di cibo, messo a disposizione da alcune catene alimentari, come sostegno materiale allo stress dell’attesa per deporre la scheda nell’urna. Inflessibili i sostenitori della Fratellanza che ideologicamente hanno accettato l’indicazione del boicottaggio e delle contromisure sanzionatorie. Il loro pensiero andava all’unico presidente frutto d’una reale consultazione che l’Egitto contemporaneo ha conosciuto, quel criticabile Mohamad Morsi che da anni languisce in galera. Alla stregua di tanti suoi colleghi di partito ma, riferiscono fonti vicine alla Confraternita, malmesso per ragioni di salute e a rischio vita proprio per il carcere duro cui è sottoposto.

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Libero scambio tra i paesi africani, ma non tutti ci stanno

Il trentesimo summit dell’Unione Africana (UA) tenutosi ad Addis Abeba a fine gennaio ha avuto un seguito.

Qualche giorno fa, in Ruanda, è stato siglato un accordo che da il via libera a una zona di libero scambio in Africa. Protagonisti i leader del Ruanda (Kagame) e quello del Ciad (Faki).

Il primo aveva presieduto il vertice di Addis Abeba, il secondo presiede invece la Commissione dell’Unione.

Come sempre accade in questi casi il diavolo potrebbe nascondersi nei dettagli; più precisamente andrebbe visto chi ci guadagna e chi ci rimette, o comunque teme che i danni superino i benefici.
Non basta infatti sottolineare che, sulla carta, gli scambi economici in atto tra le nazioni africane rappresentano meno di 1/5 del totale e che quindi l’operazione pare effettivamente in grado di ridurre la dipendenza dei paesi dai finanziamenti internazionali.

A cancellare il dubbio che tale operazione possa essere magari bypassata con qualche escamotage dai paesi più ricchi sarebbe allora ancora più interessante l’adozione concreta di un altro provvedimento, previsto nel quadro di una riforma più generale, volto ad introdurre una tassa dello 0,2% su determinate importazioni, al fine di potenziare l’autonomia economica della UA.

Resta peraltro il nodo politico. Anche se ben 44 paesi hanno aderito all’accordo, su di esso pesa come un macigno il fatto che se ne sia tirata fuori la più consistente potenza petrolifera del continente, la Nigeria, timorosa che una accentuata concorrenza dei vicini indebolisca la crescita di un Pil peraltro accompagnato da pesanti diseguaglianze.

Ma anche l’assenza di altre nazioni è indicativo di come i problemi del continente siano lontani da un decisivo punto di svolta e che la loro natura politica sia in grado di neutralizzare all’atto pratico i benefici del provvedimento adottato il 21 marzo.

A parte dunque i timori della potenza nigeriana, vediamo che negli altri paesi che si sono rifiutati di firmare è ricorrente una situazione di guerra e di miseria. Esemplare la situazione della Sierra Leone che, appena uscita dalla pestilenza dell’Ebola, si è trovata a fare i conti con gli scontri militari di chi è interessato alla appetitosa consistenza diamantifera del paese. E di diamanti è ricca pure la Namibia, altro paese non sottoscrittore, che evidentemente preferisce far da sé.

Un paese ai confini con le emergenze belliche è il Burundi (anche lui non sottoscrittore), che risente della vicinanza con il Congo e le sue tragedie infinite.

D’altronde, anche tra chi ha sottoscritto l’accordo, è pensabile che i così detti “dolci costumi” del commercio internazionale, evocati da Montesquieu, siano in grado di sopire il fragore delle armi (come nella Repubblica Centroafricana e nel Congo medesimo)? O non avverrà piuttosto che, altrove, il libero mercato possa innescare inizialmente una aspra competizione non violenta destinata però sul lungo periodo a ripercussioni di ordine militare, magari sobillate da qualche ex colonizzatore dell’occidente già presente su molti territori in assetto armato e con ripetute ingerenze.

E infine, sarà possibile in questo modo rompere l’isolamento di un paese alla fame come l’Eritrea, sempre al vertice nel numero di migranti che cercano protezione in Italia; ancora dentro ai meccanismi della guerra, sia pure fredda, con l’Etiopia, oltre che leader nella violazione dei diritti umani? Oppure il suo ruolo di Corea del Nord africana, lo spingerà a trovare partnership non raccomandabili di altro genere, come pare stia già facendo coi sauditi?

Tutti interrogativi che la svolta recente della UA lascia aperti. Con un briciolo di ottimismo si potrebbe pensare che l’accordo possa comunque servire a smuovere le acque di una situazione mefitica e paludosa.

Ma incombe sulla previsione degli ottimisti il giudizio tagliente che della UA fornisce Domenico Quirico. Il giornalista de La Stampa, già sequestrato dall’Isis e conoscitore della zona, che dell’Unione e della sua gestione dice peste e corna, sottolineando la diffusione al suo interno di macroscopici fenomeni di corruzione e ritenendola subordinata a interessi che poco hanno a che fare con quelli delle genti che dovrebbe tutelare.

Peraltro, anche di corruzione il summit aveva discusso, facendo i conti coi dati di Transparency International che indicano la Somalia, il Sud Sudan, la Libia e la Guinea Bissau, rispettivamente ai posti n. 176, 175, 170, e 168 in materia, vale a dire tra i più corrotti al mondo.

La speranza è venuta da Botswana,(n.35), Capo Verde (38) e Maurizio (50), i paesi meno corrotti del continente; una speranza che l’esempio dia i frutti desiderati da chi ama l’Africa.

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Gli ultimi figli d’Europa

di Sandro Moiso

Giovanni Iozzoli, Di notte nella provincia occidentale, Edizioni ARTESTAMPA, Modena 2018, pp. 272, € 17,00

E’ un vero peccato che oggi non ci siano più registi del calibro di Mario Monicelli, Pietro Germi o Dino Risi, in grado di prendere in mano un romanzo come questo e trasformarlo in uno dei grandi classici della commedia all’italiana e che, dietro al sorriso e all’umanità della narrazione, avrebbero saputo rivelare l’amarezza delle vite dei protagonisti e i drammi dall’esito incerto di una società in via di smantellamento.

Una vicenda che procede per cerchi concentrici: dal dramma individuale a quello famigliare a quello sociale, locale e internazionale; da quello dei sogni racchiusi in attività lavorative in attesa di essere definitivamente soppresse a quelli legati ad attività in proprio destinate a morire ancor prima di nascere; da quello delle speranze giovanili infrante ancor prima di essere espresse a quello delle speranze degli adulti riposte un tempo nel sindacato, nel partito o semplicemente in una vita onestamente vissuta e sudata.

Si piange e si ride, proprio come negli esempi migliori della commedia all’italiana, assistendo alle vicende di Pasquale Altiero, di sua moglie Lucia, del figlio Gabriele, del kebabbaro Mustafà, di suo figlio Karim e degli innumerevoli altri personaggi che popolano le pagine del romanzo di Iozzoli. Personaggi che vanno dal tossico senza speranza destinato a morire all’alba sulle rive del fiume Secchia ai pensionati appassionati delle canzoni di Toni Santagata e dallo stesso Santagata a Abu Bakr Al Baghdadi. Tutti hanno storie da raccontare, tutti sperano in questo modo di dare un senso alle loro vite e di lasciare traccia di sé in un mondo che già non si ricorda più di loro mentre sono ancora in vita.

Tutti tranne i due giovani adolescenti, allo stesso tempo ideali e concreti, rappresentanti di quegli ultimi figli d’Europa che, da Modena a Molenbeek, dalla Siria a Bruxelles a Bologna o a qualsiasi altra città europea, non hanno nulla da ricordare e ben poco in cui sperare, così implacabilmente diretti come sono verso un futuro oscuro e incerto che rischia di trasformarsi, in qualsiasi momento, in un irresistibile vortice in grado di farli sprofondare sia nel buio dello Stato islamico e dei suoi profeti che nel buco nero rappresentato dal consumo di eroina e di crack.

Giovanni Iozzoli, giunto al suo quarto romanzo, è stato tra i fondatori dell’esperienza di Officina 99 a Napoli, da ventiquattro anni vive e lavora a Modena, della cui provincia è diventato allo stesso tempo il cantore e il cronista, e con il suo terzo romanzo, La vita e la morte di Perzechella (edito sempre da ARTESTAMPA), ha vinto nel 2016 il primo premio alla trentatreesima edizione del concorso Città di Cava de’ Tirreni.

Il suo attuale romanzo piomba dritto come una bomba su quelle province dove un tempo regnava il PCI, la terra delle coop rosse e degli imprenditori che erano usciti dalla classe operaia e dove oggi, da Brescello a tanti altri comuni grandi e piccoli, lo scettro è passato ad altri partiti, ad altre promesse che pure affondano le loro radici in quella distorsione di un immaginario collettivo e politico iniziata già dai contemporanei di Peppone e Don Camillo.

Il sogno dell’integrazione formale tra classe operaia e impresa, tra lavoro e capitale ben temperato, tra immigrati e residenti (che spesso hanno dimenticato le loro origini di immigrati), tra partito e società è fallito e non è rimasto nulla con cui sostituirlo se non rancore, desideri insulsi, mutui sempre più difficili da pagare oppure un nichilismo individualistico che non comprende neppure di essere tale.

Viaggia con leggerezza e amarezza lo scrittore tra i flutti di una mareggiata che viene da lontano e che non finirà presto e, quasi unico negli ultimi anni, sa raccontarci una storia italiana e globale, generazionale e sociale senza cadere nel dramma ad ogni costo o nella narrazione intimistica di una vicenda meramente individuale.

Non viaggia in superficie l’autore, ma si tuffa nel mondo di oggi senza farci annegare e senza soffocare i suoi personaggi in un mare di banalità o di retorica, giocando sapientemente con gli artifici della narrazione e rivelandoceli poco a poco con ironia e intelligenza. Riuscendo a far sì che, ancora una volta, sia la letteratura a fornirci la chiave interpretativa più utile per provare a comprendere il mondo che ci circonda. Feroce, comico, drammatico, complesso o in qualunque altro modo lo si voglia definire.

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Bolton, gli Usa, la guerra. E “la sinistra” nel teatrino...

C’è un vago senso di nausea e soffocamento nel seguire il cosiddetto “dibattito” nella cosiddetta “sinistra”, comprese larghe parti della sua versione “radicale”. Stupisce e preoccupa, in questi ambiti, una prevalenza assoluta dell’attenzione sulle vicende di cortile, più precisamente sulla “competizione” interna, nella compulsiva ricerca di una impossibile “egemonia” su un’area che va restringendosi – con lodevoli e importantissime eccezioni, concentrate in genere intorno a Potere al Popolo – per assoluta indifferenza alla realtà dei problemi sociali, europei, geopolitici.

Come sempre, più che dare un nome a queste “tendenze”, ci interessa individuarne la logica interna, convinti come siamo – a dispetto dei tanti tentativi andati a vuoto – che la razionalità del reale possa alla fine far breccia anche negli schemi più incancreniti.

Una logica che avevamo sommariamente descritto così:
la logica per cui tutto ciò che conta è conquistare qualche seggio, avere una presenza purchessia, e poi vedere... E’ la logica per cui “i programmi” sono lunghi elenchi di promesse (che nessuno legge...) che torneranno utili solo alle elezioni successive, mentre intanto – se hai avuto la fortuna di avere un seggio – voti pro o contro le singole leggi in base a un calcolo esclusivamente politicista (“cosa ce ne viene se...”).
Si potrebbero aggiungere numerosi altri vizi (la pretesa che “il metodo della condivisione” sia applicato come diritto di veto individuale, il parlare per allusioni, l’attribuire ai compagni di viaggio posizioni che non hanno, ecc.), ma nulla è più grave dell’interpretare l’attività politica come esibizione di sé (individuo o collettivo), invece che come conflitto tra classi sociali e relative rappresentanze per il potere di dare un ordine o un altro all’assetto produttivo, sociale, culturale. Un conflitto che richiede risposte efficaci, serietà, affinamento di competenze, verifica delle idee.

Le conseguenze di questa logica sono sotto gli occhi di tutti, meno di chi ancora la applica: l’estraneità della “sinistra” alla lotta politica reale, tanto da ridurla a pulviscolo ininfluente ma supponente.

Premessa forse troppo lunga rispetto alla pochezza dell’oggetto, ma ci sembrava necessaria per misurare lo scarto tra questo chiacchiericcio e quanto va maturando nel mondo.

Viviamo in tempi che corrono veloci verso esiti che nessuno sa prevedere, ma comunque altamente conflittuali; che ripropongono con inattesa forza i fantasmi della guerra mondiale alle porte.

Pubblichiamo qui un articolo apparso sul Washington Post che inquadra meglio la figura del nuovo “consigliere per la sicurezza” scelto da Donald Trump in sostituzione del tenente generale H.R. McMaster. Mettere un ideologo guerrafondaio al posto di un generale (il governo di Trump ne è pieno quanto una giunta golpista) significa privilegiare le forzature avventurose rispetto al brutale, ma realistico, calcolo dei rapporti di forza. Se poi questo “amore del rischio” pretende di far nuova forma ai rapporti con un’altra potenza nucleare come la Russia c’è sicuramente materia di cui preoccuparsi. Molto e subito.

C’è ancora qualcuno, in questo paese in questa parte del mondo, che sappia cogliere (non “stabilire” arbitrariamente) la gerarchia di importanza tra i problemi? Ossia le connessioni che legano fatti apparentemente lontani e la nostra vita concreta?

Pensiamo di sì, ma deve immediatamente sottrarsi al chiacchiericcio inconcludente di chi, in assenza completa di idee, si gingilla con l’ego.

C’è troppo da fare e pensare, per preoccuparsi di loro...

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Per John Bolton la Russia è parte di un nuovo “asse del male”

Josh Rogin – Washington Post

John Bolton è intelligente ed efficace. Ecco perché dovremmo essere preoccupati.

L’editore di Democracy Post, Christian Caryl, afferma che il nuovo consigliere per la sicurezza nazionale del Presidente Trump è più capace di altri funzionari. Questo è il problema. (Gillian Brockell / The Washington Post)

L’amministrazione Trump sembra essersi indurita verso la Russia, ma non abbastanza velocemente per il suo nuovo consigliere per la sicurezza nazionale. John Bolton vuole che il presidente Trump vada all’offensiva contro Mosca – e non solo quando si tratta dell’interferenza di Vladimir Putin nella democrazia americana.

Parlando il mese scorso al Daniel Morgan Graduate School of National Security, Bolton ha esposto la strategia che suggerisce per rispondere alle ingerenze della Russia nelle elezioni presidenziali del 2016 e all’aggressione russa in tutto il mondo. Bolton non sapeva che, solo alcune settimane dopo, avrebbe sostenuto la sua strategia come principale aiutante di politica estera del presidente.

“L’amministrazione Trump non ha fatto abbastanza per rispondere all’attacco della Russia contro gli Stati Uniti e le nostre istituzioni democratiche”, ha detto Bolton, e “Putin deve pagare un prezzo pesante per le sue azioni”.

“Penso che questo sia in realtà ora un momento perfetto, per il presidente Trump, per fare chiarezza sul fatto che non permetterà ulteriori ingerenze russe o l’ingerenza da parte di nessun altro governo straniero nel nostro processo elettorale”, ha detto Bolton. “Se tu pensi che [i russi] stiano cercando di colludere con la campagna di Trump o con quella di Clinton, la loro interferenza è inaccettabile. È davvero un attacco alla Costituzione americana”.

Gli Stati Uniti dovrebbero rispondere nel “cyberspazio e altrove”, ha detto Bolton, suggerendo un’azione offensiva contro gli agenti russi che hanno perpetrato l’interferenza. Solo se la risposta è schiacciante, la Russia e altri paesi saranno scoraggiati.

“Non penso che la risposta debba essere proporzionata, penso che dovrebbe essere molto sproporzionata”, ha detto.

Ma Bolton non vuole che Trump si fermi qui. Come ha spiegato durante le sue ampie osservazioni, gli Stati Uniti dovrebbero anche respingere una serie di trasgressioni del Cremlino: il suo sostegno alla Siria, la sua alleanza con l’Iran, il suo indebolimento delle sanzioni alla Corea del Nord e il suo coordinamento con la Cina per contrastare l’Occidente.

Nella visione del mondo di Bolton, la Russia fa parte di una serie più ampia di sfide che devono essere affrontate insieme. Gli avversari dell’America formano una rete che lavora insieme in modi complessi. Bolton ha affermato che la Russia e la Cina “si sostengono l’un l’altra” nelle Nazioni Unite e hanno una “divisione del lavoro territoriale de facto in tutto il mondo”.

L’alleanza Russia-Iran in Siria rappresenta una minaccia in tutta la regione, ha detto Bolton, il che significa che gli Stati Uniti non possono collaborare in modo credibile con la Russia contro il terrorismo. “Questa penetrazione russa in Medio Oriente ha avuto conseguenze molto significative”, ha affermato. “Sono allineati con il finanziatore del terrorismo più importante del mondo”.

Nel frattempo, “l’Iran e la Corea del Nord stanno collaborando sui missili balistici e forse anche nell’area della tecnologia nucleare”. Ciò significa che i problemi sono collegati, ha detto Bolton, e uno non può essere risolto senza l’altro. Dopo la guerra in Iraq, che Bolton continua a difendere, “la Corea del Nord e l’Iran hanno continuato e continuato in un modo che dimostra la vitalità della metafora dell’asse del male”, ha affermato.

A partire dal mese scorso, Bolton ha visto poco vantaggio – e un notevole inconveniente – ad avviare negoziati con la Corea del Nord. “Nell’area della proliferazione nucleare, il costo della negoziazione è la perdita di tempo”, ha affermato.

George Will: Il presidente americano non è più la persona più potente del mondo

L’editorialista George F. Will afferma che la politica economica del presidente Trump ha ceduto il palcoscenico mondiale alla Cina. (Gillian Brockell, Kate Woodsome, James Pace-Cornsilk / The Washington Post)

Nel complesso, Bolton vede che Trump deve affrontare una serie di problemi e sfide che sono “le bollette dovute dall’inattività delle amministrazioni precedenti che stanno arrivando ora”.

Bolton è trasparente riguardo alla sua visione. Vuole usare la forza militare per impedire alla Corea del Nord – e forse anche all’Iran – di costruire la capacità di lanciare un attacco nucleare contro gli Stati Uniti. È scettico sul fatto che l’America sarebbe in grado di fermare la diffusione delle armi nucleari in qualsiasi altro modo.

“Chiunque dica, in un mondo multipolare, che la deterrenza funziona come ha funzionato nella Guerra Fredda, sta semplicemente facendo ipotesi”, ha affermato.

La posizione di Bolton sulla Russia sembra in contrasto con quella di Trump, che ha ripetutamente affermato di voler mantenere relazioni cordiali con Putin nella speranza di migliorare le relazioni USA-Russia. Ma la maggioranza degli altri consiglieri di Trump è in sintonia con la visione di Bolton.

Nikki Haley, l’ambasciatrice degli Stati Uniti presso le Nazioni Unite, ha condannato la Russia al Consiglio di sicurezza martedì per aver massacrato i civili siriani mentre ignorava il suo accordo per il cessate il fuoco.

Sempre martedì, il segretario alla Difesa Jim Mattis ha affermato che il Cremlino ha usato un’arma di distruzione di massa in un caso di “tentato omicidio” in Gran Bretagna contro un’ex spia russa.

Come risposta all’azione della Russia in Gran Bretagna, il consigliere per la sicurezza nazionale in carica, H.R. McMaster, ha condotto un processo tra agenzie che ha comportato l’espulsione questa settimana di 60 diplomatici russi. La Casa Bianca ora dice che spetta alla Russia cambiare il suo comportamento, se vuole migliori relazioni con gli Stati Uniti. Se Putin è interessato, dovrebbe agire velocemente.

E’ previsto che Bolton entri in carica il 9 aprile.

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“Qualcuno faceva l’università” – La dolorosa esperienza di uno studente

Depression feels surrounding, womblike, and I burrow under covers to experience it even more. It’s a series of folding-ins that seek comfort in formal repetition. Geometry becomes newly comforting. As does repetition. Again and again. Masturbation helps to sustain living as repetition.

Christopher Stackhouse, On quitting

Tempo fa ho letto un articolo di Francesca Coin, “On Quitting. The labour of academia” (tradotto in italiano su Effimera) che cominciava così:
Il 3 maggio 2013, Keguro Macharia ha scritto un pezzo per The New Inquiry intitolato “On quitting”. Era un pezzo coraggioso e dolorosamente bello che partiva da una diagnosi: «disturbo bipolare, un’oscillazione tra periodi di attività frenetica e periodi di profonda depressione» (Macharia, 2013). Si tratta di una condizione perfettamente compatibile con il calendario accademico  –  aggiungeva Macharia  –  nel quale si alternano raffiche di produttività intellettuale, quasi indotte farmacologicamente, e stati quasi catatonici di esaurimento e ritardi prolungati. Trascorro gloriose giornate estive a letto, incapace di muovermi, incapace di mettere insieme l’energia per accendere il ventilatore, incapace di farmi una doccia, incapace di pensare. Trovo conforto in romanzetti trash e libri per bambini. La lettura tiene in piedi qualcosa, un debole tremolio di qualcosa. Può essere molto peggio di quanto non confesserò mai. E poi peggio ancora.
Un articolo straordinario, però quasi un mese dopo mi sono accorto che mancava qualcosa: se bisognava scrivere una side story dell’Università Italiana, dei suoi dolori e delle sue esistenze precarie, all’appello mancava almeno un’altra condizione, ignorata dalla classe docente specularmente a quanto fanno gli studenti: la condizione studentesca, in tutta la sua drammaticità, per certi versi molto simile.

Se però esiste almeno un genere letterario (il “quit-lit”) in grado di rendere comunicabile l’oscillamento compulsivo della propria attività, tipico della classe docente, gli studenti non trovano alcuna possibilità codificata in grado di fare la stessa operazione. Ho deciso perciò di provare ad inaugurare questo genere, a partire dalla mia esperienza e parlando unicamente della didattica, senza perciò voler essere esaustivo in tutti i mille altri ambiti che ci costringono a precarietà e sofferenza.

Sono uno studente di magistrale a Bologna, frequento il corso di Sociologia e Servizio Sociale, non ho avuto un’ottima carriera accademica e mi sono laureato con 98.

Nell’ultimo anno della triennale, per cercare di laurearmi in fretta (ti veniva dato un bonus velocità di un punto sul voto di laurea), ho dato quattro esami del primo semestre in una settimana in modo da avere quello successivo più libero.

Una delle cose che ricordo più dolorosamente sono gli esami che ho dato in triennale: praticamente solo scritti, la maggior parte a crocette, qualcuno a risposta medio-lunga, ma sempre sotto forma di domandine. Si trattava cioè di una pratica di valutazione spersonalizzante, disumanizzante, in cui non c’era spazio per te stesso, per le conoscenze che avevi maturato anche fuori da quei manuali. Il trionfo di una coscienza squisitamente tecnica, asettica, spogliata di ogni possibile panorama: una storia ordinaria di morte valutativa.

In quella valutazione ho trovato le prime ragioni di un disprezzo di un certo sapere accademico, io che fino ad allora avevo cercato in tutti i modi di sobillare quello strano rapporto formale-informale tipico delle superiori in cui il paternalismo segna la differenza tra te e loro che stanno alla cattedra. Ho scoperto invece che un mostro peggiore del paternalismo è la lucida indifferenza dell’autorità universitaria, una distanza che si costruisce per tenerti saldamente dominato.

Difatti mi rimaneva una sola lezione da frequentare e la tesi da scrivere. Ad aprile comincio a scriverla (sì, forse era un po’ tardi), a giugno quello che ero riuscito a produrre era purtroppo una trentina scarsa di materiale grezzo e inutile, perciò dopo aver dato l’ultima materia mi lascio convincere dal mio relatore e mi laureo a settembre invece che a luglio. Perdo un punto, ma faccio la cosa più soddisfacente della mia intera carriera accademica: finisco la mia tesi, studiando le cose che amo, una 60ina di pagine su “Anvur e razionalità neoliberale”: capisco finalmente cosa voglio fare nella vita.

Vorrei fare ricerca, occuparmi di Valutazione della Ricerca, Università e Sociologia del lavoro. Purtroppo so bene come funziona questo mondo, ma decido di andare avanti. Quello che volevo fare l’ho deciso non certo per le materie della mia triennale, ma per due motivi assolutamente distanti ma contingenti nel tempo.

Il primo è che negli ultimi due anni ho fatto sindacato studentesco, ho trovato un gruppo che è diventato la mia casa e la mia famiglia. Mi sono occupato principalmente di ANVUR e ricerca, sono venuto a contatto con la comunità di Roars, ho scoperto il mondo dei docenti, dei ricercatori, dei precari della ricerca.

Il secondo motivo è che ho trovato un buon professore, che ha colmato molte delle lacune che avevo su società ed economia, e che in qualche modo mi ha dato la speranza che si possa fare questo lavoro senza uscire pazzi. Se è servita a qualcosa la mia laurea triennale è stato introdurmi in questa comunità accademica, farmi capire le cose che mi piacciono e le cose che non mi piacciono, ogni tanto qualche professore illuminato e tendenzialmente una conoscenza diffusa di quello che mi serviva. Non il massimo, né quello che mi aspettavo, ma accettabile.

Il vero dramma è stato alla magistrale. Lo dico in premessa, non voglio sconsigliare a nessuno di fare questa specifica laurea magistrale, questo è frutto del modello 3+2 e dell’impoverimento generale delle nostre Università: insomma, non c’è scampo, ma certo si possono trovare altre soluzioni.

La magistrale in Sociologia e Servizio Sociale altro non è che la triennale di Scienze Politiche dello stesso dipartimento in forma concentrata: esami con gli stessi programmi (giustificati come livellamento per la composizione eterogenea della classe), a volte anche le stesse slide, pochissima libertà di studio, esperimenti di applicazioni concrete alquanto goffe (se non a volte ridicole oltre l’inverosimile). Non sono mai stato un fan dei lavori di gruppo, ma c’è un limite alle cose che mi puoi far fare spacciandole per innovazione.

La differenza con la triennale stava però soprattutto nella mia capacità di sopportazione, non più in grado di reggere cose che non mi interessavano, che non mi sarebbero servite, senza parlare del peggio della formazione di destra, neoclassica, neoliberale delle scienze sociali. E non parlo solo di quella tipa che difendeva la riforma Fornero, ma proprio dell’espulsione dai programmi di tutto ciò che vagamente poteva sembrare non mainstream e prodotto dopo gli anni 2000, tra cui il mio libro di testo di metodologia delle scienze sociali, scritto nel 1984, con le matrici in ASCII e “i nastri magnetici”. Se dovessi parlare poi del fatto che in questa Università sembra che l’unica cosa che fanno i sociologi siano survey e analisi quantitativa, non ne uscirebbe bene nessuno.

Ho provato in tutti i modi a trovare alternative, era troppo tardi per cambiare corso e non potevo darmi materie che non fossero nel mio programma didattico (quindi eventualmente per prepararmi ad un trasferimento di corso l’anno successivo), ho anche provato a presentare un programma di studio individualizzato. Niente, non c’è stato niente da fare, non era previsto nel regolamento didattico del corso perché l’Ateneo aveva dato indicazione di non farlo inserire nei corsi umanistici e sociali, così almeno mi è stato detto (è presente invece in alcuni corsi scientifici e previsto dal regolamento didattico di Ateneo).

Primo semestre, zero lezioni, zero esami, in compenso una vertenza vinta sulle tasse universitarie, a testimonianza del fatto che non è che non ho fatto niente, anzi è stato uno degli anni più intensi di sempre, solo che era come stare dentro l’università ma contemporaneamente fuori. Ed è qui che arriva il secondo semestre, in cui non solo si ripete il copione, ma non riesco proprio a fare a meno di litigare con tutti i professori e di passare ben presto davanti agli occhi della mia classe per un alienato sociopatico-pienodisé che chissà cosa voleva dall’Università.

Ecco, chissà cosa voleva. Io non ne avevo la più pallida idea di cosa volessi, avrei voluto certamente un posto per discutere, un posto per fare dei ragionamenti, un posto dove poter in qualche modo dire la mia. Avrei voluto da questa Università strumenti critici di conoscenza ma soprattutto strumenti di democrazia e partecipazione: volevo decidere dei miei studi, del mio futuro, del futuro dell’istituzione a cui appartenevo.

Così non è stato, e un giorno, un mercoledì di febbraio, dopo aver litigato con l’ennesimo professore, decido che avrei smesso di frequentare. Avevo bisogno di una laurea magistrale, ma era stanco di tanta insoddisfazione quotidiana, di quel sentimento continuo di frustrazione, per cui decisi che mi sarei astenuto dalle lezioni universitarie in attesa di trovare qualcosa di interessante, che mi sorprendesse.

Quello stesso giorno, mentre stavo andando a Padova sbaglio treno. Scendo a Borgo Panigale (vittoria del nulla cosmico sulla pienezza metropolitana), torno indietro a Bologna e, una volta sceso, sento dagli altoparlanti “Treno InterCity 610”.

Sei uno zero, seiunozero.

Col morale sotto i piedi, finisco di scrivere questa riflessione.

Questa è una delle tante sconfitte del sistema universitario, certo non una delle più eclatanti, sicuramente una di quelle che comunemente affligge più studenti in assoluto. L’istituzione università fa poco e nulla per provare a capire realmente che cosa vogliono i suoi studenti, cosa si aspettano, cosa può davvero cambiare le loro vite. Le procedure introdotte per cercare di avere un feedback da noi si sono risolte in qualche formalità, un sondaggio obbligatorio di ANVUR che non restituisce né i problemi né la complessità della nostra condizione. Nessuno ci ascolta, e quando proviamo a farci sentire il risultato è una chiusura totale, eppure se fino a qualche anno fa si poteva dire di star facendo due viaggi diversi adesso la nave si sta per schiantare contro un iceberg fatto di tagli, burocrazia all’inverosimile, classifiche un po’ strane che segnano la vita e la morte della ricerca. In sintesi, molto lontano dall’idea che abbiamo del valore della ricerca e della didattica, della sua centralità nell’affrontare le sfide dei prossimi anni.

Credo che questa immagine, e il processo che ci ha portato a questo, sia sintetizzato da Gaber:
Qualcuno faceva l’università perché aveva bisogno di una spinta verso qualcosa di nuovo, perché era disposto a cambiare ogni giorno, perché sentiva la necessità di una morale diversa, perché forse era solo una forza, un volo, un sogno, era solo uno slancio, un desiderio di cambiare le cose, di cambiare la vita.
Qualcuno faceva l’università perché con accanto questo slancio ognuno era come più di se stesso, era come due persone in una. Da una parte la personale fatica quotidiana e dall’altra il senso di appartenenza a una razza che voleva spiccare il volo per cambiare veramente la vita.
No, niente rimpianti. Forse anche allora molti avevano aperto le ali senza essere capaci di volare, come dei gabbiani ipotetici.
E ora? Anche ora ci si sente come in due: da una parte l’uomo inserito che attraversa ossequiosamente lo squallore della propria sopravvivenza quotidiana e dall’altra il gabbiano, senza più neanche l’intenzione del volo, perché ormai il sogno si è rattrappito.

Due miserie in un corpo solo.

(G. Gaberščik detto Gaber, 1992, Qualcuno era comunista)
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Caso Skripal, un atto di guerra contro la Russia?

144 diplomatici russi sono stati costretti a lasciare i paesi occidentali nella guerra scoppiata sull’avvelenamento dell’ex agente Skripal e di sua figlia in Gran Bretagna. E’ successo negli Stati Uniti, in Francia e in Germania. Si sono poi aggiunti l’Italia(!), l’Albania, l’Ucraina, il Giappone, l’Australia, la Moldavia ed altri. La Russia continua a confermare che presto risponderà «con adeguate contromisure». Il ministro degli Esteri Lavrov ha poi accusato tutti questi paesi di agire sotto «pressioni e ricatti colossali di Washington».

Che Putin abbia o meno fatto avvelenare la sua ex spia credo non abbia nessuna rilevanza nella decisione presa da USA e figuranti al seguito di espellere tutti quei diplomatici russi e se anche fossero vere le accuse di Theresa May nei confronti di Putin, non credo proprio che si tratterebbe di una novità dal momento che le spie che tradiscono vengono automaticamente condannate a morte da tutti gli stati della terra. E’ un regola terribile, ma tant’è. In ogni caso prima si fanno le indagini e se poi si trovano le prove, si emette la sentenza. Qui è successo esattamente il contrario. Alle accuse sono seguite le massicce immediate espulsioni dei diplomatici russi. Nessuna indagine, nessuna prova, nulla di nulla. D’altronde né la Gran Bretagna né alcuna delle altre potenze occidentali, nemmeno le Nazioni Unite, sono in grado, non vogliono o non possono, condurre un’indagine onesta e indipendente.

E poi mi pare che gli USA che guidano il fronte antirusso non temano concorrenza in fatto di costruzione di false prove ed avversione d'indagini indipendenti. Proprio gli USA, ad esempio, non riconoscono la Corte Penale Internazionale che però va benissimo quando giudica gli africani, o qualche nemico dell’Occidente, tipo Milošević. Un’impunità che gli Stati Uniti, si sono procurati da sé: quando nel 1946 aderirono alla Corte internazionale di giustizia lo fecero con la riserva di non essere giudicati in base ai trattati internazionali, ossia la Carta delle Nazioni Unite, lo Statuto dell’Organizzazione degli Stati americani e le Convenzioni di Ginevra. In questo modo si garantivano l’immunità dai processi di competenza di quegli organismi. Così ad esempio, quando il Nicaragua denunciò gli Stati Uniti presso la Corte internazionale di giustizia per le loro attività terroristiche nel suo territorio, la maggior parte delle accuse furono fatte decadere perché gli Stati Uniti non erano soggetti – secondo quanto approvato dalla Corte medesima – allo Statuto dell’Organizzazione degli Stati americani, al quale i nicaraguensi si erano appellati e che vieta espressamente qualsiasi tipo di intervento. Stesso copione quando la Jugoslavia denunciò la NATO dinanzi alla Corte internazionale di giustizia per i bombardamenti. Gli Stati Uniti si chiamarono fuori, con il consenso della Corte, perché nella denuncia figurava anche l’accusa di genocidio: quando gli Stati Uniti aderirono alla Convenzione sul genocidio – quarant’anni dopo la sua istituzione – fu inclusa una clausola per cui quella convenzione era “inapplicabile agli Stati Uniti” [1]

E allora perché tutto questo accanimento antirusso?

Da troppo tempo, ormai si sta soffiando sempre più insistentemente, sul fuoco di una pericolosa “russofobia”, un fenomeno che il giornalista Fulvio Scaglione, a proposito della vicenda Skipral descrive in questi termini: “Quella che spinge la russofobia imperante è ormai una vera mitologia. Prendiamo le ultime rivelazioni. Per esempio il “caso Skripal”. Si parla di un vecchio arnese dello spionaggio, un doppiogiochista fuori dai giochi da vent’anni che si arrabattava con un po’ di consulenze. Già è curioso che di colpo Vladimir Putin (perché gli inglesi hanno detto che l’ordine veniva dal Cremlino) si ricordi di Skripal. Ancor più curioso che gli venga di colpo voglia di ucciderlo. Straordinariamente curioso, poi, è che si pensi di ammazzarlo con gas nervino. Il buon vecchio colpo alla testa non è più di moda? Oppure si vuole lasciare un’impronta così grossa da far gridare a tutti “aiuto, arrivano i russi!”? E poi si parla di gas nella valigia, ma forse non è più vero. E poi si scopre che Skripal padre e figlia avevano spento per quattro ore i rilevatori satellitari dei cellulari, e chissà che avevano fatto in quelle ore. E chissà come stanno i due Skripal, che non sono morti ma nemmeno riapparsi: non una foto, una notizia, un bollettino medico. Tutto questo, per dirlo con la filosofia di Theresa May, è “highly likely”, altamente probabile? Se ve lo raccontasse un collega di un suo amico ci credereste?” [2]

Vladimir Putin è stato appena rieletto a presidente della Federazione Russa con oltre il 70% dei consensi. Molti commentatori autorevoli e super partes segnalano che questo risultato così schiacciante non è solo la conseguenza della sovrapposizione tra il partito nazionalista “Russia Unita”, lo stato russo e le grandi oligarchie ma è anche il risultato della pochezza di un’opposizione che non ha né grandi idee sull’alternativa possibile al neonazionalismo confessionale di Putin né possiede un radicamento di massa. Tuttavia c’è un dato che contrasta con la narrazione che vede Putin come un dittatore assoluto: il candidato del Partito Comunista della Federazione Russa, Grudinin ha preso più del 12% e non si tratta affatto di un ascaro di Putin. Insomma, che la Russia Attuale non sia un faro di democrazia è fuor di dubbio ma che questa accusa venga mossa dagli USA in cui appena 1/3 della popolazione vota dei ricchi sfondati o dei politici a libro paga delle grandi lobbies oppure da quell’Unione Europea che non ha votato nessuno ma che sostiene e finanzia i nazisti ucraini, regala miliardi al dittatorie turco Erdogan e fa affari con il regime egiziano di Al Sisi, ecco, appare, quanto meno, paradossale.

Evo Morales, Presidente della Bolivia ha commentato così il risultato di Putin: “Salutiamo la contundente vittoria del fratello Presidente della Russia, Vladimir Putin, rieletto con più del 70% di appoggio del suo popolo nelle urne. La Russia rispetta la dignità dei popoli e garantisce l’equilibrio geopolitico e la pace mondiale di fronte all’attacco dell’imperialismo”. Insomma, appare evidente che si sia voluto costruire da parte delle cancellerie e dai media occidentali una narrazione filo-atlantista e filo-NATO che tende a descrivere il presidente russo Vladimir Putin come un pericolo per la pace mondiale. Tutto ciò che, con la rappresaglia contro i diplomatici russi, Washington e i suoi alleati sembra vogliano fare è aumentare ed espandere le sanzioni economiche e finanziarie contro la Russia usando una vicenda tutta da chiarire come quella Skripal come scusa. Gli USA impongono da anni sanzioni contro la Russia ai paesi europei e quest’ultimi si sono adeguati obtorto collo e contro i propri stessi interessi per evitare rappresaglie. D’altronde l’Ucraina è stata destabilizzata nel 2014 dagli USA per mezzo di una “rivoluzione colorata” proprio per creare una spaccatura tra Unione Europea e Russia.

Alla Russia non si perdonano, di certo, i successi in Siria contro l’ISIS (sostenuto dalle petromonarchie) e contro i “ribelli jhadisti” siriani pagati e supportati dagli USA. Alla Russia non si perdonano i buoni rapporti con l’Iran con il movimento di resistenza libanese Hezbollah. Alla Russia non si perdonano anche gli ottimi rapporti con Venezuela e con Cuba. Last but not least, alla Russia non si perdonano soprattutto i buoni rapporti con l’India e con la Cina. A proposito, qualche mese fa Xi Jinping e Putin hanno firmato una dichiarazione congiunta della Federazione Russa e della Repubblica Popolare Cinese sulla comune intenzione di approfondire ulteriormente il partenariato strategico globale di cooperazione e una dichiarazione congiunta della Federazione Russa e della Repubblica Popolare Cinese sulla situazione attuale nel mondo e sulle principali questioni internazionali. Inoltre, è stato approvato un piano d’azione per attuare le disposizioni del trattato di buon vicinato, amicizia e cooperazione per il triennio 2017-2020.

In conclusione, la vicenda Skripal ha tutta l’aria di essere una colossale montatura ai danni della Russia cui non si perdona l’indubbio protagonismo internazionale degli ultimi anni che contrasta apertamente sia con i piani di dominio assoluto sul mondo dei paesi che aderiscono alla NATO guidata dagli USA, sia con i nuovi poli imperialisti emergenti, Europa ed Emirati Arabi in testa.

Note
[1] Intervista sul Terrorismo Occidentale con Noam Chomsky ed Andrè Vltchek , da Internazionale.it dell’ 8.10.2015

[2] Fulvio Scaglione: “Il caso Skripal è una grande fake news. La guerra contro la Russia è terribilmente vera”, da Linkiesta de 29.03.2018

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Macron riceve i curdi siriani. Turchia furibonda. Alleati Nato in contrasto sulla Siria

Ieri all’Eliseo, Macron ha ricevuto una delegazione siriana, tra cui ufficiali militari curdi ma anche personalità legate alla coalizione arabo-curda delle Forze Democratiche Siriane (SDF). Con questo incontro – che ha mandato su tutte le furie la Turchia – la Francia ha inviato a questi alleati “dell’occidente” un messaggio di sostegno politico di portata senza precedenti. Poiché le minacce turche contro le forze curde e i loro alleati nella Siria nordorientale non vacillano, l’incontro potrebbe segnare un punto di svolta nell’impegno di Parigi verso questa componente.

In una dichiarazione rilasciata alla fine della riunione, il governo francese ha riferito che Macron aveva “assicurato il sostegno della Francia, in particolare per la stabilizzazione della zona di sicurezza a nord-est della Siria, nel quadro di una governance inclusiva ed equilibrata, per prevenire il risorgere di Daesh in attesa di una soluzione politica al conflitto siriano” scrive oggi Le Monde.

L’SDF ha cacciato i jihadisti dell’IIS in una lunga campagna militare con il sostegno dei bombardamenti statunitensi e dell’intelligence occidentale. L’offensiva è culminata nell’ottobre 2017 con la cattura di Racca, l’ex “capitale” siriana dell’ISIS a maggioranza araba ed in cui però non vivono i curdi.

Il sostegno espresso da Parigi arriva in un momento in cui la postazioni delle SDF sembra più minacciate che mai dall’offensiva militare della Turchia scatenata a fine di gennaio.

Il 18 marzo, le truppe turche e i loro ausiliari dell’Esercito Libero Siriano (i cd “ribelli” anti Assad) hanno conquistato la maggior parte di Afrin, l’enclave kurda nel nord-ovest della Siria
Anche sul teatro del nord-est siriano il punto di vista di Ankara, è che le SDF siano solo un’estensione del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK).

“L’incontro è stato molto positivo. Il presidente Macron ha confermato il sostegno politico e militare della Francia in un momento critico “, ha detto Redur Khalil World, l’ufficio delle relazioni esterne delle SDF, che faceva parte della delegazione ricevuta all’Eliseo.

Dalla caduta di Afrin, il presidente turco Erdogan ha ripetutamente ribadito l’intenzione di Ankara di continuare la sua offensiva militare verso le aree nel nord-est del paese, dove però sono presenti anche i soldati statunitensi e di alcuni paesi europei. Le forze americane sono presenti nelle vicinanze della città, il cui controllo è stato oggetto di inutili negoziati tra turchi e americani.

I membri della delegazione guidata dai curdi della Siria e ricevuti giovedì al palazzo dell’Eliseo hanno assicurato che la Francia si è impegnata a garantire anche una presenza militare.

Questo sviluppo, di cui però il comunicato ufficiale dell’Eliseo non fa menzione, avrebbe dovuto indicare la determinazione di Parigi a stoppare l’espansione delle forze turche nel nord del paese.

“La Francia rafforzerà la sua presenza militare a Manbij per assicurare tutte le aree protette dalla coalizione”, ha detto Khaled Issa, il rappresentante a Parigi della “Siria del Nord”, termine usato per designare il gruppo politico formato in aree controllate dalla SDF.

La Turchia ha respinto però ogni mediazione francese in vista di un dialogo tra Ankara e la coalizione arabo-curda siriana, i cui rappresentanti sono stati ricevuti ieri all’Eliseo. “Respingiamo ogni sforzo che punta a promuovere un dialogo, contatti o una mediazione tra la Turchia e questi gruppi terroristici”, ha dichiarato il portavoce della presidenza turca Ibrahim Kalin, dopo che Parigi ha lanciato un appello al dialogo tra la Turchia e le SDF.

Un dettaglio rilevante di tutta questa girandola diplomatica e delle tensioni tra Francia, Turchia, SDF, è che nessuno sembra voler tenere conto di un fattore decisivo per ogni assetto futuro della Siria: il governo siriano. Un dettaglio di cui sarà difficile non tenere conto.

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I curdi mi sembrano instradati su un percorso che li porterà sempre più ad essere parte integrante del problema e non la soluzione 

Brasile: Il PSOL di Marielle, storia di un partito di sinistra

Per quindici giorni i giornali e le televisioni europee hanno acceso i riflettori sul Brasile, per commentare l’assassinio di Marielle Franco, una militante del PSOL, che a di Rio de Janeiro era diventata il simbolo della lotta per il rispetto dei diritti della comunità afro-brasiliana e il difensore esemplare della popolazione del “Complexo da Maré” (1).

Infatti, le sue continue denunce sulle attività paramilitari delle “Milicias” (2), sulle violenze della polizia e sugli abusi delle unità speciali della Polizia Federale, ponevano in causa i legami occulti, esistenti nello stato di Rio de Janeiro tra il potere, gli impresari e i gruppi paramilitari. Per essere donna, ed anche molto bella, i giornalisti hanno preferito gli aspetti personali, il più delle volte immortalati con splendide fotografie. In questo modo i grandi media sono riusciti a creare un personaggio, senza però dire che si tratta di una militante storica del PSOL (3).

Così facendo, la “grande stampa” non ha spiegato perché Marielle Franco aveva scelto di militare nel PSOL e non nel PT dell’ex-presidente Lula, o nel PDT di Brizola o nel PSB.

Per rispondere a questa domanda, è necessario spiegare perché in Brasile c’è un partito di opposizione chiamato PSOL, che nelle parole di uno dei suoi fondatori, Milton Temer: «...Cominciò a essere disegnato in termini politici nell’ottobre del 2003 come un movimento di resistenza, che si opponeva alla sbandata ideologica operata dal primo governo del PT e dal presidente Lula, subito dopo essersi insediato nel Palazzo del Planalto» (4).

Infatti, i militanti della sinistra del PT rimasero sconcertati dalla “Carta aos Brasileiros” (Lettera ai Brasiliani), che Lula divulgò negli ultimi giorni della campagna elettorale, proponendo un accordo con gli impresari, i banchieri, le multinazionali, la borghesia e i latifondisti, per raggiungere la “governabilità possibile”. In cambio, il PT avrebbe garantito il tacito controllo del proletariato urbano e rurale, del movimento sindacale e di quello studentesco attraverso la CUT e l’UNE. Organismi di massa, che all’epoca, erano controllati da direzioni legate al gruppo dirigente del PT lulista (5), di cui il lider indiscusso era appunto Lula.

Dal 1998 fino al 2003 l’attività-politica del PT fu caratterizzata da una profonda e continua “lotta interna”, che poi nel 2003 determinò le espulsioni dal PT dei quattro parlamentari (6) che non avevano votato la proposta di legge del governo Lula sulle pensioni dei funzionari pubblici, poiché la nuova legge, oltre a seguire una logica liberista, era un pericoloso precedente che poteva essere usato per riformare le leggi che difendevano gli interessi dei lavoratori.

Infatti, in quegli anni l’idea di un nuovo partito, di fatto socialista, cominciò ad agitare la vita interna del PT, poiché le relazioni tra le correnti della sinistra del PT, chiamate “Tendências” (7) e quelle di stampo socialdemocratico che Lula e Dirceu avevano unificato (8), a partire del 1998 divennero esplosive. Anche perché in quell’anno si registrò l’intervento della Direzione del PT a Rio de Janeiro. Infatti, la Convenzione del PT dello Stato di Rio de Janeiro aveva votato in maniera maggioritaria Vladimir Palmeira (9) come candidato del PT nelle elezioni per il governo dello stato di Rio de Janeiro.

Purtroppo Lula e José Dirceu avevano fatto un accordo segreto con il PDT di Brizola per lanciare Anthony Garotinho del PDT come candidato a governatore insieme all’evangelica Benedita da Silva come suo vice. Un’operazione politica doppiamente disastrosa, poiché dopo l’intervento autoritario di Lula e di Dirceu si registrò il fallimento dell’alleanza tra il PT e il PDT.

Questo fatto divenne un elemento decisivo per l’affermazione del processo di rottura all’interno del PT. Infatti, nel 1999, nacque a Rio de Janeiro il movimento “Refazendo o PT” (Rifacendo il PT), di cui alcuni membri, poi ebbero un ruolo importantissimo nella creazione del PSOL, in particolare Milton Temer, Chico Alencar, Eliomar Coelho e Leo Lince.

La formazione del nuovo partito

Il rapidissimo trasformismo ideologico del governo del PT e dello stesso presidente Lula, evidenziarono il passaggio da una logica socialdemocratica a quella del cosiddetto social-liberismo, dove l’assistenzialismo, destinato ai settori più poveri, imponeva come contropartita una serie di riforme apertamente neo-liberali, di cui gli unici beneficiari erano i banchieri, gli impresari e i latifondisti.

Nello stesso tempo il PT lulista si adattava perfettamente agli oscuri schemi del potere di Brasilia, favorendo anche la nomina di José Sarney come Presidente del Senato e quella del banchiere Henrique Mereilles alla guida della Banca Centrale del Brasile. Decisioni che moltiplicarono i dubbi tra i militanti del PT, soprattutto i più giovani. Infatti, tutti capirono che l’espulsione dei quattro parlamentari era una decisione voluta dalla direzione del PT lulista per terminare un ciclo politico e aprirne un altro, con il PT nelle vesti di partito del potere.

Per questo Milton Temer ricorda: «...Il PSOL è nato quando nel Brasile era in atto un arretramento ideologico e politico, che implicava la rottura con tutto quello che – durante venti anni – aveva rappresentato le aspettative di una sinistra socialista, combattiva presente nel PT di quei tempi» per poi ricordare che «...Il trasformismo ideologico operò nel PT e nel suo governo una grande sterzata a destra, che determinò tra le altre cose il “patto conservatore di alta intensità”, controbilanciato da un riformismo debole, alimentato con i progetti di autentico assistenzialismo».

E’ evidente che il PT lulista e la stampa, in particolare i giornali “O Globo” e l’“Estado de SP” e, logicamente la “TV Globo”, la “TV Record” e la “TV SBS”, fecero di tutto per squalificare l’ufficializzazione del PSOL. Questa fu realizzata con una campagna politica straordinaria, per la quale i militanti raccolsero nelle strade e nelle piazze 500.000 firme per il “partito di Heloisa”. Infatti, l’attitudine e il comportamento della senatrice Heloisa Helena galvanizzarono i militanti della sinistra, delusi dal PT, facendo nascere una nuova speranza e la certezza che con il PSOL era nato il nuovo partito della sinistra socialista e democratica.

Così, il 5 e il 6 giugno 2004, il PSOL realizzava in Brasilia il Primo Incontro Nazionale per la fondazione del partito. Poi, nel 2006, il PSOL realizzava la Conferenza Nazionale indicando la senatrice Heloisa Helena come candidata del Fronte delle Sinistra nelle elezioni presidenziali. Un fronte, che per la prima volta riunì tre partiti (PSOL, PSTU e PCB) che rappresentavano tutte le correnti del marxismo, del leninismo e del trozkismo.

La campagna elettorale del 2006 fu molto importante per l’affermazione del PSOL a livello nazionale. Il nuovo partito pubblicamente proponeva un’opposizione classista di sinistra, nel momento in cui il governo del PT di Lula viveva il momento più alto del connubio con la borghesia e gli impresari. La chiave vincente di questo inaspettato successo politico, più che elettorale, fu il dirompente impegno di Heloisa Helena nella campagna elettorale, che in pochissimo tempo divenne l’Anti-Lula per eccellenza. Infatti, il PSOL, avendo a disposizione solo i suoi militanti e pochissimi mezzi finanziari, riuscì a controbattere gli attacchi della destra e del governo del PT, a smascherare l’ostruzionismo della stampa, ricevendo 6.575.393 di voti (6,85%), con cui occupava un onorevole terzo posto.

In realtà, il PSOL utilizzò le elezioni del 2006 per fare politica in tutto il Brasile, facendo conoscere il suo programma politico in tutti i ventisei stati dove presentò candidati a governatore, per la Camera dei Deputati e il Senato Federale e per i Parlamenti statali. Questo successo e l’espansione del trasformismo ideologico nel PT provocarono numerosi abbandoni d’intellettuali famosi, come: Francisco de Oliveira, Leandro Konder, Leda Paulani, Paulo Arantes, Ricardo Antunes e Carlos Nelson Coutinho e Giralo, cui fece seguito la scissione della tendenza Forza Socialista, che nel frattempo aveva assunto il nome di “Ação Popular Socialista- APS” (Azione Popolare Socialista).

Nel 2007, dal 1 al 4 giugno il PSOL realizzò a Rio de Janeiro il 1° Congresso Nazionale, in cui i 745 delegati dei nuclei del partito aprirono il dibattito sulle sedici mozioni che mettevano in luce le caratteristiche movimentiste di una parte del PSOL e i differenti presupposti ideologici delle correnti – chiamate anche tendenze. Un contesto che sviluppandosi sempre più negli anni seguenti ha, più volte condizionato la crescita del partito e il suo ruolo politico nello scontro di classe, soprattutto durante i controversi governi di Dilma Rousseff.

Heloisa e le “Tendenze”

Le elezioni municipali del 2008 dimostrarono chiaramente che il PSOL era in crescita a tutti i livelli. Nei grandi centri metropolitani, nelle provincie rurali, nelle università, nei licei e nelle scuole professionali, il PSOL registrava una notevole presenza, anche perché fu in questo periodo che il partito sviluppò una rapida penetrazione nella classe operaia e nel movimento afro-brasiliano. Comunque il motivo di questo successo si deve alla difesa incondizionata del proletariato, urbano e rurale, delle donne e dei LGTB, alla denuncia dello sfruttamento capitalista, della corruzione, della violenza poliziesca e della dipendenza dall’imperialismo. Argomenti che facevano ricordare l’attività politica di quel PT, che negli anni ottanta affermava «...una volta al potere costruiremo il socialismo nel Brasile!».

Una sensazione che fu alimentata dal forte impegno politico della senatrice Heloisa Helena, che la rivista usamericana “Forbes” e poi anche quella brasiliana “Isto È” definirono «...la donna più influente nella politica brasiliana...». Infatti, senza diminuire i meriti degli altri dirigenti, bisogna riconoscere che l’affermazione politica del PSOL, a livello nazionale, si deve, soprattutto, all’infaticabile attività politica di Heloisa Helena.

Per questo Milton Temer ricorda: «...Nel 2009, in funzione dell’eccellente performance ottenuta nel 2006, Heloisa risultava in fase ascendente in tutti gli istituti di ricerca, variando tra il 12 e il 14%. Ciò significava che, nelle elezioni presidenziali del 2010, certamente sarebbe andata al secondo turno, battendo José Serra, che era divenuto il rappresentante della destra. Purtroppo, le divergenze interne – principalmente la discussione sull’aborto – favorirono la sua decisione di abbandonare la campagna presidenziale per tentare di farsi eleggere al Senato. In questo modo, Heloisa Helena commise un autentico suicidio politico!».

Purtroppo le divergenze interne nel PSOL divennero determinanti quando le correnti politiche, dette anche “Tendências”, cominciarono a comportarsi come piccoli partiti in cerca di affermazione, facendo credere ai propri militanti che il PSOL era una specie di confederazione dove tutti convergevano, mantenendo, però, la propria identità ideologica e i propri legami politici internazionali. In realtà, le “Tendências” erano – e continuano a essere – una specie di filtro con cui i differenti settori del partito interpretano e definiscono la politica del partito.

Comunque, questo contesto non deve essere considerato una deviazione, poiché negli incisi 1, 2 e 3 dell’articolo 88 dello Statuto del PSOL, le “Tendências” sono riconosciute e incentivate. Nell’inciso 3, addirittura fu stabilito che «...Le “Tendências” potranno organizzarsi liberamente senza nessun controllo o ingerenza da parte degli organismi del Partito, a patto che non si pongano contro i forum e le riunioni delle organizzazioni di partito».

Nel 2016, non erano in pochi nel PSOL, a ritenere che la clausola che regolava l’attività delle “Tendências” doveva essere rivista. E su questo punto Milton Temer puntualizzò l’argomento affermando: «...Non si tratta, in maniera assoluta, di voler imporre un nuovo centralismo democratico, però penso che non dobbiamo confondere e quindi sovrapporre il ruolo tematico e analitico delle “Tendências” con quello organico del partito. Ricordiamoci, sempre, della traiettoria di Heloisa!» Di fatto, nel marzo del 2013 Heloisa abbandonò il PSOL per unirsi a Marina Silva nella creazione del nuovo partito “Rede Sustentabilidade” (la Rete di Sostenibilità) e di una nuova chiesa evangelica chiamata “Sagrada Árvore de Deus” (L’albero sacro di Dio).

La nuova congiuntura

Il PSOL, pur avendo sempre criticato lo sbandamento ideologico del PT, ha però condannato il bluff dell’impeachment, con cui la borghesia e le multinazionali hanno interrotto il legittimo governo di Dilma Roussef. Infatti, il “colpo di stato giuridico” non ha ferito solo il PT e i suoi dirigenti. La principale vittima dell’impeachment è stato il movimento popolare, a cui, in questo modo, sono state precluse tutte le forme di espressione. Tanto è vero che l’intervento militare a Rio de Janeiro e la morte di Mirelle Franco sono i primi segnali della nuova congiuntura politica, in cui la destra, la borghesia, le multinazionali e i latifondisti, ricorrono all’uso della “violenza dello Stato” per garantire la continuazione dello status quo.

Per questo motivo, nel PSOL è prevalsa la posizione “movimentista”, che si affermò nel 7° Congresso, realizzato nel 2017. Per l’appunto, questo Congresso decise di dare priorità agli interventi politici nel movimento popolare, appoggiando e sviluppando le lotte popolari, di cui Marielle Franco è stata l’espressione massima nella città di Rio de Janeiro. Inoltre la catastrofe del PT lulista ha spinto il PSOL a creare nuovi strumenti per riunificare la sinistra.

Così, il 4marzo, il PSOL ha presentato Guillerme Boulos, presidente del MTST (Movimento dei Lavoratori Senza Tetto) come candidato alle prossime elezioni presidenziali di ottobre. È importante ricordare che Guillerme Boulos è un importante quadro politico del movimento popolare brasiliano, che subito dopo l’impeachment contro Dilma Rousseff, nel 2015, ha saputo costruire un fronte unitario denominato “Povo Sem Medo” (Popolo senza Paura) mobilitando i movimenti sociali del Brasile contro il governo golpista di Michel Temer.

Per concessione di Tlaxcala Data dell’articolo originale: 28/03/2018
URL dell’articolo: http://www.tlaxcala-int.org/

Note

1-Il “Complexo da Maré” è un grandissimo quartiere povero, situato nella Zona Nord di Rio de Janeiro. È formato dalle tradizionali “favelas”, da quartieri di case popolari senza alcun servizio pubblico e da immense baraccopoli, dove il degrado si mischia alla vita di un proletariato urbano sempre alla ricerca di un lavoro.

2-Le “Milicias” sono la versione moderna degli antichi “Esquadrões da Morte” (Squadroni della Morte), formati da poliziotti dello Stato di Rio de Janeiro. Questi, prima della dittatura erano specializzati nell’eliminazione fisica dei delinquenti più pericolosi. Poi, con il golpe dei militari, si dedicarono alla cattura, alla tortura e all’ eliminazione dei “terroristi comunisti”. Negli anni novanta operarono un salto di qualità occupando alcune “favelas” dove agivano come un autentico contro-potere. Per esempio i trafficanti di cocaina dovevano pagare una tassa per smerciare la droga. Ma anche i commercianti e gli abitanti della “favela”, dovevano pagare una tassa per la cosiddetta “protezione”, che la “Milicia”, garantiva con le sue unità paramilitari. In pratica le “Milicias” erano una specie di AUC colombiana “Made in Brasil”.

3- PSOL. “Partido Socialismo e Liberdade” – (Il Partito del Socialismo e della Libertà).

4- Milton Temer, ex-parlamentare del PT, nel 2003 è uno dei fondatori del PSOL, di cui in seguito fu anche senatore. Il 05/02/2016 pubblicò il testo “Parece que foi ontem – PSOL: um balanço” (PSOL, Sembra che sia stato ieri-PSOL: un bliancio) nel blog della Boitempo, la principale casa editrice della sinistra brasiliana.

5- Il termine “lulista”, cioè sostenitore di Lula, è molto usato nella letteratura politica brasiliana.

6- I quattro parlamentari espulsi dal PT nel 2003 erano: la senatrice Heloisa Helena e i deputati, Babá, Luciana Genro e João Fontes.

7- Negli anni 1996/2003 la sinistra del PT era rappresentata da cinque grandi gruppi, denominati “Tendências” (correnti politiche), rispettivamente: “Democracia Socialista” (Democrazia Socialista), in cui convergevano molti gruppi trotzkisti, “Força Socialista” (Forza Socialista), di formazione marxista, originaria dal gruppo MCR che riuniva alcune organizzazioni della guerriglia sopravvissute alla repressione, “Democracia Radical” (Democrazia Radicale) di formazione marxista, “Articulação de Esquerda” ( Articolazione di Sinistra), formata da marxisti cattolici , “O Trabalho”, (Il Lavoro), tradizionale gruppo trozkista, legato alla 4° Internazionale.

8 Inácio Lula da Silva e José Dirceu crearono la potente tendenza “Articulação- Unidade na Luta” (Articolazione- Unità nella lotta).

9- Vladimir Palmeira fu il lider studentesco del 1968 che, poi fu liberato insieme ad altri 25 prigionieri politici dai guerriglieri di ALN e MR8 con il sequestro dell’ambasciatore usamericano. É sempre stato il grande lider della sinistra del PT e il simbolo della ribellione della gioventù di Rio de Janeiro.

Achille Lollo, (Roma, 1951) è un giornalista e videomaker italiano. Militante della sinistra rivoluzionaria italiana, ha vissuto in esilio dal 1975 al 2010.

Prima in Angola, dove ha svolto l’incarico di capo del servizio esteri del “Jornal de Angola”, di corrispondente di guerra e Inviato speciale. In seguito, è stato capo redattore della rivista bilingue “SADCC Energy Bulletim/SADCC Energia Rivista”. Usando vari pseudonimi ha collaborato con “Afrique Asie”, “Le Matin de Paris”, “Liberation-Belgique”, “Direkt Line”,”Il Manifesto”, “L’Avanti” e la “Commissione dell’ONU contro l’Apartheid”.

In Brasile, dopo aver fondato “ADIA” (Associazione per lo sviluppo della Stampa Alternativa) ha diretto, durante dieci anni, le riviste “Nação Brasil”, “Conjuntura Internacional”, “ Crítica Social” e il sito “Portal Popular”. Nel 2006 cominciò l’attività di video-maker realizzando 8 video.

In Italia è corrispondente del giornale brasiliano “Brasil de Fato”, legato al MST. Dopo una serie di operazioni chirurgiche ha creato “ADIATV”, cominciando a realizzare con il professor Luciano Vasapollo dei documentari tematici su Cuba, Venezuela, Argentina e Bolivia. Attualmente sta preparando la trilogia “Tupamaros-Montoneros-PRT/ERP” e il lungo metraggio “Operazione Condor, in nome del dio Denaro”. Collabora con il giornale on line “Contropiano”. Ha tradotto il libro su Ernesto Che Guevara “Vámonos, nada más…”

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