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25/03/2018

L’unica colonna sonora possibile: in difesa della Trap

La seconda metà degli anni dieci è il tempo della lenta agonia del principale social media, Facebook, popolato ormai da ex giovani e nuovi vecchi ormai rinchiusi nella propria bolla e costretti(si) a reiterare schemi comunicativi che si autoalimentano (meme, polemica sui vaccini, gente falZaaa, gattini su Salvini). Chi è veramente giovane tende a accogliere i cambiamenti e le novità in maniera più veloce ed elastica: instagram, snapchat, le stories. Se il modello di comunicazione di internet “old school”, nonostante tutto, prevedeva un livello di attenzione maggiore con contenuti condivisi anche complessi (quanto inutili ed autoreferenziali) i nuovi schemi prevedono vera velocità e pochi attimi significativi.

La musica liquida e diffusa va di pari passo: condividere il nuovo pezzo di Nicholas Jaar presuppone, oltre alla soddisfazione del proprio ego, la sufficiente certezza che qualcuno perderà venti minuti per ascoltarla, apprezzarne la complessità, ricordarla. Le instagram stories vivono di altra musica: la colonna sonora dei nuovi nuovi social media è la Trap. Per la maggior parte degli utenti non c’è tempo per l’ascolto impegnativo: serve tutto e subito e la musica Trap è tutto e subito, non è stratificata. Quello che serve è tutto li.

Nella mia bolla di internet la trap è la musica più odiata, salvo poche eccezioni.

Nel mio acquario di Facebook esistono solo macchiette che parlano di quanta droga sono in grado di ingerire, quante tipe sono in grado di possedere sulle proprie macchine costose e quanti soldi sono in grado di accumulare. Nel pubblico disprezzo di chi sostiene che quando si hanno milioni di visualizzazioni è un imperativo prendere posizione e catechizzare su argomenti importanti e/o di rilevanza politica e/o sociale. Nel disprezzo di chi sostiene che il rap “old school” era un’altra cosa e che come Danno nessuno mai. Gli unici trapper consentiti sono Ghali, senza probabilmente averne letto i testi, e Carl Brave per una vicinanza geografica e immaginaria al nuovo pop italiano (è questa la definizione corretta di quello che solo pochi anni fa era indicato come indie).

Basta approfondire poco per riconoscere che la trap è l’unica colonna sonora adatta a questi tempi. E’ ovviamente per chi è più giovane di me e non si rivolge a me o a chi è come me. Si rivolge a chi è nato con il niente intorno. Non occorre andare a ripescarne le origini nelle traphouse dei sobborghi di Atlanta, basta ascoltare un pezzo (pochi minuti) a caso di Sfera Ebbasta o di Rkomi.

La trap è musica che nasce nel disagio e nella provincia brutale. Ma non è la provincia lirica che ha nutrito negli anni zero il nostro immaginario, quella di fabbriche abbandonate e spazi semi-infiniti che assumono, se cantati da hipster con la chitarra, valenza poetica. Non è provincia filtrata da un grado di istruzione e fantasia che oscilla tra il medio e l’altro. E’ la provincia terribile di Baggio e Calvairate appena usciti dalla terza media o dal biennio del professionale, quando non va troppo male. Non c’è niente di poetico e non c’è niente di bello da inventare.

“Chiedono “Come va?”, “Come va?”, “Come va?” Ma noi non cambiamo mai no, mai no, mai
Qua è sempre il solito tran tran”

E’ pacifico che l’immaginario non esista. Per immaginare occorre un orizzonte che non può essere (solo) quello delle case popolari. L’unico immaginario, anche se virtuale, è quello del successo e quando non hai nulla o quasi la prospettiva è avere tutto. Tutto, alla fine degli anni dieci significa soldi, donne e potere. Il mezzo non importa.

La musica trap è il mezzo più facile per esprimere ed esprimersi. Non occorrono grandi mezzi e grande fantasia. Le basi non sono quelle fantasiose e dense di A Tribe Called Quest, sono i preset di un Roland-808 messi in un sequencer. La forza musicale della trap è l’immediatezza. E’ è per tutti perchè non occorre niente per essere decodificata. Tutto quello che serve è li e finisce subito. Ma è facile da riprodurre ed e sempre nuova e sempre uguale a se stessa. Non c’è crescita possibile. E’ un uovo oggi, costantemente.

Non occorre poi essere Danno o Neffa, si prova a rappare solo perchè il rap è ormai un linguaggio comune, facile e condiviso (anche le zie ormai (ri)conoscono Fabri Fibra). Si rappa (o ci si prova con risultati mediamente scarsi) perchè non si è in grado di fare altro. Qui finiscono i legami con l’hip-hop. E’ pacifico che i giovani trapper non conoscano, non capiscano o non siano interessati a conoscere Sangue Misto: hanno origini diverse e vanno in direzioni diverse. Nessuno proverebbe a giudicare Jean-Claude Izzo nello stesso modo in cui giudica Dan Brown per il solo motivo che entrambi usano l’alfabeto.

“Non c’entro col rap, no / Con quello e con l’altro
No scusa, no hablo tù lingua / Ma sicuro piace a tua figlia
Sicuro, è da un po’ che sta in fissa col trap”

E’ più che legittimo giudicare male la trap ma è meglio farlo per i motivi giusti. Ho quasi 40 anni e la trap non mi piace, per nulla. La trovo povera musicalmente e povera come contenuto. Ma è più giusto assumersene la colpa. Cosa si può pretendere da una generazione a cui non è stato lasciato niente? Rancore e nessuna prospettiva che preveda difficoltà. Chi ha venti anni oggi ha espulso le tossine del martirio, vuole tutto, lo vuole facilmente senza dare niente in cambio. Vuole la strada più breve. Perché dovrebbe dare qualcosa quando non ha ricevuto nulla?

Vogliamo tutto non ha nessuna lettura politica. E’ un tutto enorme e molto piccolo. Sono i 15 minuti di Wharol sotto anfetamina. E l’unico tutto possibile all’interno del nulla intorno.

“La sera è scesa senza me sto senza un euro
Un minuto dopo sono sotto e corro, ubriaco perso
Avessi un piano farei piano prima[...]
Fossi al tuo posto: un colpo in testa e la farei finita
E ogni traguardo è un passo verso la via lattea”

Nei miei luoghi e nei miei spazi la lente sulla trap si limita solitamente a due nomi: Dark Polo Gang e Ghali. Si cerca, per semplificare, la macchietta e il fenomeno.

DPG è un fenomeno abbastanza atipico all’interno della scena trap. Romani di estrazione medio borghese (DarkSide è figlio di Francesco Bruni, lui sì vero corresponsabile del vuoto immaginario che ci circonda), negli ambienti di cultura, la Gang viene presa come esempio del vuoto della trap. DPG è l’immaginario delirante che fa il giro e diventa critica. Ogni pezzo del quartetto romano è un inno nonsense al bello con una fascinazione peculiare per i vestiti femminili. Nella semi-follia di rime sbagliate e parole inventate DPG compone solo inni di amore universale per cervelli piccolissimi e distrugge l’immaginario machista dell’hip-hop, solo col fatto di esistere, più di ogni pezzo militante. Non consiglio a nessuno di ascoltarla, è solo un bene che esista.

“Ho più scarpe di una troia / Quando ho freddo una pelliccia rosa
Baby siamo delle rockstar / Oh mio dio sembro una donna“

Ghali, di contro, è generalmente considerato l’esempio positivo della musica trap. Un po’ più bravo degli altri, un po’ più consapevole degli altri, lievemente più colto degli altri. In realtà è non è apprezzabile per una presunta superiorità rispetto al resto della scena trap.

Ghali è, al pari di Bello Figo, il miglior esempio della positività dei movimenti delle persone nel mondo. Tenendo labilmente ferme le origini dei propri genitori Ghali è un perfetto adolescente della periferia milanese. I testi di Ghali non solo portano riferimenti alt(r)i: sono pieni di citazioni pop dal mondo dei fumetti, dei film e dei videogiochi. Al pari della DPG metà delle rime non è chiusa e non è scritta meglio di quelle di altri (Rkomi, per esempio, vive su un altro pianeta). E’ la semplice e rivoluzionaria rivendicazione di essere un coglione come tutti gli altri.

“Io sono fuori: Brexit / Fluttuo come un backflip
Non sono un politico, io non cerco consensi
Fuck ciò che pensi / Terzo occhio: Tensing”

Non consiglio di ascoltare nessuno: la musica trap è terribile. I miei unici guilty pleasure (al 90% per motivi di immagine) sono Priestess e l’islandese Alvia Islandia. E’ solo necessario difendere l’esistenza di chi fa trap: è l’unico storytelling possibile di questa generazione, l’unica colonna sonora possibile a snapchat, uno dei nonluoghi dove si svolge la vita ora.

La narrazione è destinata a cambiare, solo se ci sarà qualcosa di altro da raccontare.

Per Senza Soste, Luiz Vega

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