Un recente articolo pubblicato dal Financial Times
presenta alcuni aspetti per molti versi illuminanti. Un lettore
distratto e casuale, aprendo quella che viene considerata una sorta di
bibbia dei mercati finanziari potrebbe avere la ragionevole aspettativa
di trovarvi l’usuale solfa pro-austerity. Invece,
sorprendentemente (ma, come vedremo, non troppo), l’articolo propone una
serie di messaggi che verosimilmente in Italia sarebbero tacciati di
provenienza da ambienti estremisti e facinorosi.
Ciò che Matthew Klein (autore del pezzo)
ci dà come descrizione iniziale della situazione europea è un monito dai
toni quasi allarmistici: i Governi dell’Eurozona si stanno indebitando troppo poco. Per chi fosse poco avvezzo ad analisi del ruolo del debito pubblico e della spesa governativa non conformi al consenso generale dei media italiani, precisiamo che il ‘troppo poco’ non
nasce da un refuso. Quali sono le considerazioni che spiccano nel pezzo
su menzionato a proposito di questa tematica? Segnaliamone alcune:
- normalmente, in periodi di crisi e/o disoccupazione elevata i governi spendono più di quanto incassino mediante tassazione. Oltre a stimolare l’economia, questa operazione crea degli asset aggiuntivi per il settore privato;
- non vi è alcuna regola precisa per stabilire quale livello di deficit una economia dovrebbe avere, tuttavia a giudicare dalle prestazioni economiche dell’Eurozona, i Governi stanno in tutta probabilità praticando politiche economiche troppo restrittive;
- sicuramente la Germania è in una posizione di eccessivo rigore fiscale, ma anche i Governi delle periferie europee sono troppo restrittivi nelle loro decisioni di politica economica.
È difficile non restare allibiti di
fronte a tali ragionamenti se si è imbevuti della narrazione dominante
che quotidianamente, da anni, ci viene propinata in tutte le salse. In
un sol colpo ci viene detto, dal lato di pura analisi economica, che una
politica fiscale condotta in deficit non solo non deve essere vincolata
da parametri precisi e sistematici (sì, stiamo pensando proprio al
vincolo del 3% sul rapporto deficit/PIL),
ma anche che è un normale strumento (in teoria) a disposizione dei
Governi. Tale strumento ha anche come ulteriore effetto quello di
aumentare la ricchezza finanziaria di famiglie e imprese che
sottoscrivono i titoli emessi dal Tesoro, altro che i paradossi
di cui ci parlava il Sole24Ore!
Sotto il profilo comparativo, invece, la narrazione che vede le periferie europee (Grecia, Spagna, Italia, ecc.) come cicale goduriose da scudisciare al cospetto dell’operosa formica tedesca viene ribaltata in maniera duplice: non solo la Germania crea danni all’Eurozona nel suo complesso con l’eccessivo rigore dei suoi conti pubblici, ma sono addirittura le stesse cicale a non essere abbastanza prodighe! Immaginiamo già Alesina & Giavazzi aver avuto un colpo al momento della proposta, per la Germania, di passare da un surplus del +1.5% del PIL a un deficit della stessa grandezza (con allegato commento disilluso nel quale si dice che comunque sarebbe una misura del tutto insufficiente).
Sotto il profilo comparativo, invece, la narrazione che vede le periferie europee (Grecia, Spagna, Italia, ecc.) come cicale goduriose da scudisciare al cospetto dell’operosa formica tedesca viene ribaltata in maniera duplice: non solo la Germania crea danni all’Eurozona nel suo complesso con l’eccessivo rigore dei suoi conti pubblici, ma sono addirittura le stesse cicale a non essere abbastanza prodighe! Immaginiamo già Alesina & Giavazzi aver avuto un colpo al momento della proposta, per la Germania, di passare da un surplus del +1.5% del PIL a un deficit della stessa grandezza (con allegato commento disilluso nel quale si dice che comunque sarebbe una misura del tutto insufficiente).
L’articolo prosegue elencando poi le
possibili contromisure da adottare a livello di organizzazione
istituzionale per far fronte alla drammatica situazione che sperimentano
i cittadini europei. Esse sono:
- l’implementazione di politiche fiscali molto espansive nei Paesi nordici (in particolare Germania e Olanda), in misura sufficiente a stimolare tutta l’Eurozona. Ma ciò è insostenibile a livello politico, secondo l’autore (e secondo chi scrive, visti anche i limiti imposti dal Trattato di Maastricht e dal Fiscal Compact);
- lasciare che la BCE finanzi direttamente i deficit fatti dai Paesi aderenti all’area Euro. A livello istituzionale però tale politica non è praticabile visti i vincoli posti all’operare dell’apparato guidato da Mario Draghi (come lo stesso Klein ricorda; di nuovo, quindi, un vincolo istituzionale);
- creare una istituzione federale europea che faccia le veci dei Ministeri del Tesoro nazionali e gestisca in comune accordo la politica fiscale degli Stati.
Klein si schiera con quest’ultima
proposta, e vede nella continuazione dello stato di cose attuali o nella
rottura della zona Euro altri due possibili scenari.
Si potrebbe commentare la proposta fatta
come viziata da una ingenuità che stride molto con la lucidità della
impostazione del discorso. Se una volontà da parte teutonica di operare
in maniera solidale con i Paesi periferici è giudicata dallo stesso
autore irrealistica, quale mai sarebbe la folgorazione sulla via di
Damasco che farebbe accettare alle élite tedesche politiche espansive
coordinate? L’alternativa piuttosto parrebbe essere tra una Germania che
accetta tali istituzioni a condizione di poter essere egemone al loro
interno (è bastata la lezione vista sul profilo della costruzione di una
politica monetaria, o no?), o che invece si oppone strenuamente alla
loro realizzazione (e qui basta la cronaca quotidiana).
Tuttavia non è l’aspetto della proposta
quello sul quale vogliamo porre l’attenzione ora. Le diverse soluzioni
infatti sarebbero tutte miranti a risolvere una situazione
disfunzionale, ognuna in maniera differente. La questione però da
fissare bene è figlia della risposta a questa domanda: qual è la situazione disfunzionale? Ed è qui che diventa particolarmente difficile dissentire dal Financial Times. L’Eurozona ha bisogno di politiche fiscali fortemente espansive e deliberatamente indirizzate a un aumento del debito pubblico, nelle periferie e soprattutto nei Paesi in surplus di bilancio. Il come è materia che lasciamo al dibattito politico. Il cosa però ha bisogno di voci forti e chiare che ne permettano la comprensione e che contribuiscano alla riflessione.
Post scriptum. Può apparire
sorprendente la somiglianza di visione sul ruolo del debito pubblico e
della politica fiscale tra un grande quotidiano, voce dell’establishment
transnazionale finanziario, e quegli intellettuali, partiti e movimenti
che in Italia, per le loro posizioni sull’argomento, vengono
considerati intrisi di un pericoloso e irresponsabile estremismo. In ciò
non vi è nulla di sorprendente a ben vedere: i padroni storicamente
conoscono i principi del funzionamento delle economie di mercato molto
meglio di qualsiasi economista. Non si cada, però, nell’inganno (timeo Britannos ac dona ferentis): le motivazioni che stanno dietro l’invettiva del Financial Times
non hanno nulla a che vedere con le preoccupazioni di chi, genuinamente
e da sinistra, vede il processo di integrazione europea e l’austerità
come grimaldelli che sono serviti pian piano a scassinare la cassaforte
che custodiva i più inviolabili diritti dei lavoratori.
Il quotidiano britannico rappresenta un blocco industriale e finanziario in aperta concorrenza con la Germania e con tutta l’Europa continentale. Per questa ragione, principalmente, ha buon gioco ad auspicare un rinsavimento delle politiche economiche europee, e ciò per ragioni sia economiche (maggiore crescita economica significherebbe, in primo luogo, maggiori esportazioni per l’apparato industriale d’Oltremanica), sia geopolitiche (in quanto un simile cambiamento provocherebbe l’indebolimento dell’egemonia tedesca negli equilibri di potere del Vecchio Continente). Inoltre, il prezzo da pagare per questa crescita – ovvero maggiore occupazione, maggiori salari, maggiore potere contrattuale dei lavoratori – lo dovrebbero pagare i capitalisti tedeschi ed europei, a tutto vantaggio della concorrenza anglosassone.
Il quotidiano britannico rappresenta un blocco industriale e finanziario in aperta concorrenza con la Germania e con tutta l’Europa continentale. Per questa ragione, principalmente, ha buon gioco ad auspicare un rinsavimento delle politiche economiche europee, e ciò per ragioni sia economiche (maggiore crescita economica significherebbe, in primo luogo, maggiori esportazioni per l’apparato industriale d’Oltremanica), sia geopolitiche (in quanto un simile cambiamento provocherebbe l’indebolimento dell’egemonia tedesca negli equilibri di potere del Vecchio Continente). Inoltre, il prezzo da pagare per questa crescita – ovvero maggiore occupazione, maggiori salari, maggiore potere contrattuale dei lavoratori – lo dovrebbero pagare i capitalisti tedeschi ed europei, a tutto vantaggio della concorrenza anglosassone.
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