Per un intellettuale europeo di sinistra è difficile parlare obiettivamente delle rivoluzioni latinoamericane, laddove tale avverbio non va inteso nel senso di esprimere giudizi liberi da pregiudizi (impresa impossibile), ma come sforzo di evitare, sia di scivolare nell’agiografia, che di scadere in una critica pedante e macchiata dall’applicazione di filtri “eurocentrici”. Chi scrive ha sperimentato questa difficoltà quando, dopo un viaggio in Ecuador, ha provato ad analizzare la Revolucion Ciudadana di Rafael Correa: avendo cercato di descriverne meriti e limiti (cfr. “Magia Bianca magia nera”, Ed. Jaca Book), sono stato accusato di ingenerosità dai fan di Correa e di indulgenza nei confronti del suo governo dalle sinistre radicali.
Sarò quindi comprensivo nei confronti del nuovo lavoro (“Dopo Chavez”, ed. Jaca Book; un primo libro sulla rivoluzione bolivariana, “Talpe a Caracas”, uscì qualche anno fa dallo stesso editore) con cui Geraldina Colotti analizza la crisi che ha trascinato la repubblica bolivariana e il governo Maduro sull’orlo del baratro e il difficile processo con cui si sta tentando di risolverla. Perché comprensivo? Perché, benché ritenga che in questo caso la bilancia penda sensibilmente dalla parte dell’agiografia, penso che i pregi del libro prevalgano sui difetti.
Geraldina Colotti fa un meritorio lavoro di controinformazione sulle fake news profuse a piene mani dai media occidentali (italiani inclusi) in merito alle “feroci repressioni” che il “dittatore” Maduro avrebbe messo in atto contro una pacifica e democratica opposizione. Dati alla mano (e con dovizia di esempi concreti) dimostra che la “pacifica opposizione”, appoggiata da formazioni armate di estrema destra e crimine organizzato, ha commesso centinaia di delitti (alcuni militanti di sinistra sono stati bruciati vivi). I media occidentali non solo non ne hanno mai parlato, ma continuano a esaltare i leader democratici “perseguitati” (vedi la cerimonia – officiante Antonio Tajani – con cui la Conferenza dei Presidenti del Parlamento Europeo ha attribuito il Premio Sakharov 2017 all’opposizione golpista lo scorso 13 dicembre). Quanto a Maduro, non si capisce come si possa definire dittatoriale un governo che ha costantemente garantito diritto di voto, libertà di stampa e diritto di manifestazione.
Il libro offre poi importanti precisazioni sulle cause della crisi. Dati per scontati lo scarso appeal carismatico di Maduro e gli effetti del crollo del prezzo del petrolio sull’economia di un Paese che dipende in larga misura da tale risorsa, la Colotti spiega:
1) che la carenza di beni di prima necessità è in larga misura dovuta alle manovre speculative delle grandi imprese nazionali e internazionali che sostengono l’opposizione;
2) che a quelle stesse imprese, il governo ha regalato montagne di soldi nel vano tentativo di ottenerne la neutralità politica;
3) che malgrado esse siano soggette a un regime fiscale che sarebbe eufemistico definire blando (imposizione al 13%!) evadono sistematicamente le tasse;
4) che il governo ha continuato a onorare il debito estero;
5) infine che, malgrado la crisi, Maduro non ha cessato di destinare il 70% del bilancio ai sussidi per i poveri.
Come si vede, più che un eccesso di velleità socialiste, a Maduro si può rimproverare la debolezza nell’attaccare gli interessi del grande capitale nazionale e internazionale. Per questo una parte dell’estrema sinistra venezuelana (in sintonia con molte sinistre radicali europee) ha deciso di schierarsi con l’opposizione di destra rivendicando un “chavismo critico” che imputa a Maduro il tradimento del programma bolivariano. Le accuse sono soprattutto due: autoritarismo ed estrattivismo.
Partiamo dal primo. Colotti ammette che alla crisi e alle violenze dell’opposizione si è risposto con un accentramento del potere nelle mani dello Stato e del partito (il PSUV fondato da Chavez, che raccoglie varie anime delle sinistre e dei nuovi movimenti). Tuttavia fa notare come qui sia in gioco un antico dilemma della sinistra: è possibile conquistare – e mantenere – il potere per via puramente elettorale? Negli ultimi decenni l’America Latina ha sperimentato questa strada: si è andati al potere e lo si è consolidato per via elettorale, rispettando poi tutti i crismi della democrazia borghese. Di fronte alle violente reazioni delle destre, si è tentato di imboccare una via “mista”: pur mantenendo la cornice della democrazia formale classica, si è schiacciato l’acceleratore sulla costruzione di forme di potere popolare parallelo che, nel caso venezuelano, sono, dall’alto, la nuova Assemblea Nazionale Costituente, dal basso, le Comunas (istituzioni territoriali composte da diversi consigli comunali). Come tutti i dualismi di potere questa situazione non potrà durare all’infinito; ciò detto, è curioso che una sinistra radicale che ha sempre esaltato la tradizione dei consigli operi si erga a baluardo di una democrazia rappresentativa in avanzata fase di decomposizione.
Passiamo all’estrattivismo. Questa è un’accusa che riguarda tutte le rivoluzioni bolivariane: pur avendo integrato nelle proprie costituzioni la cosmovisione ecologista di ispirazione indo afro latinoamericana, si dice, questi regimi la rinnegano nei fatti, perché le ragioni dell’ambiente vengono ignorate per sfruttare i proventi del petrolio e altre materie prime al fine di finanziare politiche assistenziali per le plebi urbane. Così Maduro dà via libera allo sfruttamento del bacino minerario dell’Orinoco per differenziare le entrate dello stato e renderlo meno dipendente dal petrolio (Correa fece lo stesso qualche anno fa con il parco amazzonico Yasuni). Colotti replica dicendo che la decrescita in salsa europea è un lusso che quei Paesi non possono permettersi, mentre il loro “estrattivismo progressista” è la via obbligata per costruire alternative future.
Penso che le contraddizioni appena evidenziate siano più radicali di quanto Colotti non ammetta, ma penso anche che non giustifichino la scelta di schierarsi con le opposizioni di destra. Penso infine che il dibattito andrebbe liberato dalle pastoie delle categorie classiche della tradizione socialista. Bisognerebbe ammettere che le rivoluzioni latinoamericane (a partire da quella cubana) non hanno generato regimi socialisti ma regimi populisti di sinistra in cui confluiscono tre grandi correnti culturali: la tradizione religiosa (vedi l’accostamento fra Chavez e Cristo e il ruolo della teologia della liberazione); la tradizione popolare (lotte antimperialiste dell’Ottocento, culture indigene, pensiero umanista di maestri come Marti, ecc.); e solo in ultima istanza la tradizione marxista (con il pensiero nazional popolare di Gramsci al primo posto). Si aggiunga che queste rivoluzioni non le hanno fatte gli operai, bensì le masse bracciantili contadine (Cuba), le plebi urbane (Venezuela) e le comunità indie (Bolivia), guidate da ceti medi colti e, in alcuni casi, da militari progressisti. Populismo appunto. Ma ciò nulla toglie all’eroico tentativo di trasformare il cortile di casa degli Stati Uniti in una comunità di stati sovrani, indipendenti e liberati dal pensiero unico liberista.
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