di Pino Dragoni
Da ieri 60 milioni di
egiziani sono chiamati alle urne per la prima tornata delle elezioni
presidenziali. In realtà, non ci sarà il secondo turno previsto dalla
legge elettorale: l’avversario è uno solo e Abdel Fattah al Sisi ha già
in tasca la vittoria con una maggioranza schiacciante.
«Avrei voluto più sfidanti», ha detto il presidente in carica in
un’intervista che ha fatto il giro delle tv pubbliche e private egiziane
parlando della mancanza di candidati credibili, «ma non è colpa mia.
Non siamo ancora pronti». Tutte le forze di opposizione si sono ritirate
a causa delle ritorsioni e delle minacce subite e ora in molti invitano
la popolazione al boicottaggio.
Ma la di là degli appelli di partiti e attivisti a disertare
le urne, il presidente eletto nel 2014 con il 97% dei voti teme
un’astensione dettata più dalla disillusione e i fallimenti di questi
quattro anni al potere. Nel 2014 erano andati a votare quasi la
metà degli aventi diritto, 25 milioni e mezzo di elettori, un dato
leggermente inferiore rispetto alle elezioni post-rivoluzione del 2012,
ma pur sempre molto più alto dell’era Mubarak, quando a votare era in
media poco più del 20% dell’elettorato.
Nel 2014 però al-Sisi navigava sull’onda dell’enorme consenso guadagnato con il colpo di stato del luglio 2013,
che aveva messo fine al disastroso governo dei Fratelli Musulmani, e
della grande popolarità di cui gode da sempre l’esercito in Egitto.
Da allora però, anche se non ci sono sondaggi disponibili, le
cose sono cambiate e il gradimento del presidente-generale è andato
sensibilmente calando, di pari passo con il peggioramento delle
condizioni di vita della popolazione e l’inasprirsi della repressione.
La vera sfida, osservano molti esperti, non sarà ottenere una vittoria
ampiamente scontata, ma ottenere un’affluenza non scandalosamente bassa.
Per agevolare il voto le urne resteranno aperte per tre giorni, fino a mercoledì (all’estero le operazioni si sono già concluse). Come ha spiegato l’analista politico Amro Ali sul portale Madamasr,
le elezioni in un contesto autoritario come l’Egitto rappresentano
sempre un momento importante. Anche quando è evidente che si tratta di
una farsa, l’obiettivo è mettere in scena uno spettacolo di
legittimazione.
Non a caso al-Sisi e i suoi sostenitori stanno spendendo milioni di
lire egiziane in una campagna elettorale che non contempla la
possibilità di sconfitta, mentre televisioni e giornali sono impegnati
in una campagna mediatica martellante per il voto.
«Le elezioni – osserva Ali – sono un messaggio al pubblico
nazionale e internazionale per dire che il ‘mandato popolare’ si è
rinnovato e che l’establishment è unito nell’appoggio al capo di stato».
Un’elezione innaffiata da un’abbondante affluenza, osserva Marina
Ottaway in un dossier dell’Ispi, di fatto aiuterebbe al-Sisi a
riaffermare la sua legittimità popolare e allo stesso tempo lo
metterebbe al sicuro da eventuali colpi di mano interni da parte degli
stessi apparati di Stato, esercito e servizi.
Il presidente in carica, scelto dall’esercito e passato rapidamente
da ministro della Difesa a capo di stato, sconta la mancanza di un
partito, un apparato organizzativo paragonabile al Partito Nazionale
Democratico di Mubarak, che veniva usato per distribuire benefici
economici e politici alle clientele e mobilitare voti nei momenti
elettorali.
Finora il consenso di al-Sisi si è basato soprattutto sui timori di instabilità e il desiderio di un ritorno alla «normalità», contro quelle che lui stesso definisce le «forze del male».
«O me o il caos» è stato in questi anni il succo del suo discorso. Sul
piano della stabilità e della sicurezza però i fallimenti superano di
gran lunga i successi.
Lo dimostra l’attentato di sabato ad Alessandria: un’autobomba ha
colpito il convoglio che trasportava il direttore della sicurezza della
città costiera uccidendo un agente della scorta. Ma ne è la prova anche
lo stillicidio continuo di soldati e poliziotti nel Sinai settentrionale
dove ormai è guerra aperta con i gruppi jihadisti e lo Stato fatica
persino a mantenere il controllo del territorio.
Di fatto, nonostante il pugno di ferro del regime (o forse
per questo) negli ultimi anni si sono moltiplicate le sigle del
terrorismo islamista e dell’opposizione armata, con le carceri
che hanno giocato un ruolo fondamentale nella radicalizzazione di molti
prigionieri politici. Tra stragi di civili e attentati mirati contro
uomini delle istituzioni, l’insicurezza è molto più reale oggi di quanto
non lo fosse nel 2013.
Nessuna illusione che dalle urne possa uscire un
Egitto più vivibile. In molti aspettano solo che le elezioni passino in
fretta, per lasciarsi alle spalle il clima teso di questo periodo.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento