di Chiara Cruciati – il Manifesto
A due mesi dal lancio di
«Ramo d’Ulivo» e a tre giorni dalla caduta di Afrin, la comunità
internazionale si sveglia. Dopo la condanna Ue dell’occupazione turca
del cantone curdo-siriano, ieri la cancelliera tedesca Merkel l’ha
definita "inaccettabile". Gli Usa invece parlano di Manbij, prossimo
target del presidente Erdogan: negano di aver raggiunto intese per
l’evacuazione delle unità di difesa curde Ypg/Ypj.
Ma Erdogan prosegue con il suo piano: una zona cuscinetto,
coincidente con la regione di Rojava, al confine turco, minaccia
concreta al progetto curdo di confederalismo democratico. Ne abbiamo
parlato con la giornalista curdo-turca Aylina Kilic, anche lei detenuta
da Ankara nel 2017 con l’accusa di «propaganda terroristica», per essere
poi rilasciata.
Qual è la situazione ad Afrin?
Pessima. Non ci sono informazioni chiare su quanti civili ci siano
ancora, la maggior parte ha cercato riparo nelle zone curde, a Shahba, o
controllate dal governo. Sembra che l’Esercito libero siriano stia
costringendo i locali ad arruolarsi. Chi è fuggito non vuole altro che
ritornare. Ma la casa in cui vogliono rientrare non è quella controllata
dai proxy turchi. Lì rischiano persecuzioni e punizioni collettive a
causa della loro affiliazione politica, un pericolo soprattutto per gli
yazidi di Afrin: le milizie che hanno occupato un villaggio yazida li
hanno aggrediti chiamandoli «infedeli e maiali».
Il confederalismo di Rojava sarà in grado di resistere?
Continuerà a esistere perché gode di una base sociale. Ovviamente
l’aggressione da parte del secondo esercito Nato potrebbe forzare il
progetto militarmente, ma resta un modello per una Siria democratica.
Avrà un impatto sulla sua esistenza anche l’approccio dei poteri
regionali e internazionali. Da parte sua Damasco ha insistito che la
partizione della Siria non sarebbe stata permessa, ma potrebbe accettare
quel progetto proprio per preservare l’integrità nazionale.
Dall’altra parte abbiamo visto l’Els saccheggiare le proprietà dei
locali fuggiti da Afrin e mettersi in pose vittoriose che ricordano
quelle dei gruppi jihadisti, come l’Isis. Se comparate alla pacifica
Afrin governata dal progetto di Rojava, quelle immagini fanno suonare un
allarme, sono una chiamata all’Occidente rimasto in silenzio di fronte
all’attacco turco dietro la scusa della sicurezza territoriale. È
evidente che le dichiarazioni di pace sono parole vuote e, anzi,
riaffermano come la Afrin di prima fosse fondata sulla diversità.
Sui piani di Erdogan girano voci diverse: «magazzino» di
rifugiati siriani, isola felice per le opposizioni, oggetto di scambio
con Damasco.
La Turchia non intende cedere Afrin al governo siriano. Vuole
trasferire arabi sunniti e turkmeni dalle aree di Aleppo, Idlib, Ghouta
in zone da dove ha espulso la popolazione curda, creando una Afrin
artificiale sua alleata. Vuole dissolvere i risultati curdi nella lotta
all’Isis nel nord della Siria e Afrin è cruciale nel piano di divisione
dei curdi siriani dal resto del popolo curdo, politicamente e
ideologicamente. Ankara dice che ora si dirigerà su Manbij, ma non sarà
facile lanciare un assalto contro una città che ha sacrificato tanto
nella lotta allo Stato Islamico.
Eppure il popolo curdo ha reagito all’attacco.
I curdi in Turchia, Iraq e Iran si sono mossi in solidarietà con
Afrin. Nonostante l’enorme pressione da Ankara, in Turchia hanno reso
chiara la loro contrarietà all’invasione turca, rischiando di essere
arrestati. Ci sono voci anche nel Kurdistan iracheno contro l’aggressione
e soprattutto appelli all’unità curda. Anche in Iran i curdi sono scesi
in strada per dire ad Afrin che non è sola.
I curdi sono uniti su Afrin, anche se distanti su altre questioni
perché la vedono come una continuazione di Kirkuk. E sebbene i curdi
siriani si siano aperti a collaborazioni con attori internazionali,
sanno bene che non possono contare che su stessi. E' quanto successo a
Kobane nel 2014. Per loro Afrin è il prosieguo di Kobane.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento