Premesso che al momento attuale appare del tutto azzardato pronunciare vaticini circa la formazione del nuovo Governo (e ricordato anche, un po’ per celia e un po’ per non morire che: “il governo qualunque esso sia è sempre il comitato d’affari della borghesia”) vale la pena sottolineare almeno tre punti che sembrano caratterizzare la situazione politica nel dopo-voto del 4 marzo 2108:
1) Le forze politiche si trovano nell’impasse dell’aver costruito una campagna elettorale come se si fosse votato con una formula maggioritaria e non con un proporzionale per i 2/3. L’assenza di alcuna proposta sul piano degli schieramenti politici nel dopo voto adesso pesa, in un quadro di promesse elettoralistiche che (come si era ben rilevato alla vigilia) risultano non solo incompatibili fra loro ma impossibili da soddisfare anche solo parzialmente. Una “logica del maggioritario” che emerge dalla richiesta del partito di maggioranza relativa che con il solo 32% pretenderebbe di esercitare una funzione egemonica nella formazione dell’esecutivo;
2) Non esiste più lo schema centrodestra/centrosinistra. Chi si è richiamato al centrosinistra alla fine si è trovato del tutto marginalizzato: il PD se n’è guardato bene reclamando per sé il “voto utile” ma senza indicare alcuna prospettiva di schieramento futuro. Ed era evidente anche lo spostamento d’asse che si stava verificando in quello che per mera convenzione è stato definito centrodestra (dal punto di vista dei contenuti espressi la definizione “centro” appare ormai del tutto superflua), ma che aveva mutato completamente pelle rispetto alla tradizione accumulata nei venticinque anni correnti dal’94 a oggi (difatti il richiamo a quella data, pure tentato dallo stesso Berlusconi, non ha funzionato e hanno fatto una brutta fine anche gli epigoni del centrismo e dell’appoggio ai governi Renzi – Gentiloni). Il fatto è che (lo ribadiamo) non c’è più il bipolarismo solo assetto del sistema, utile per definire due schieramenti nell’alternanza. Alternanza che dunque non è più verificabile come opzione possibile. Nella sparizione del bipolarismo si avverte anche un certo declino del meccanismo della personalizzazione;
3) Sarà comunque difficile uscire, nella prospettiva della costruzione di una maggioranza di governo, dallo schema impostato per l’elezione dei Presidenti delle Camere, tanto più che c’è chi rivendica il ritorno a una presunta “centralità del Parlamento”. Nello smarrimento generale della memoria è il caso di ricordare che la “centralità del Parlamento” (formula togliattiana: “Parlamento come specchio del paese”) può essere attuata soltanto attraverso l’adozione di una formula elettorale proporzionale, tale da consentire l’espressione istituzionale delle più importanti espressioni politico-culturali presenti nel Paese e senza l’invenzione di coalizioni posticce utili soltanto a conseguire il primato in collegi uninominali “first-past-the-post”.
L’esistenza dei collegi uninominali a fianco delle liste plurinominali (pasticcio attuato per poter disporre ancora una volta di un parlamento di “nominati”), in quest’occasione, ha rappresentato un vero e proprio monumento all’incultura politica di chi ha redatto il dispositivo. Al più, tornando al tema del governo futuribile, lo schema usato per eleggere i presidenti d’Aula potrà essere variato nel senso di qualche reciprocità d’astensione (il richiamo al 1976 è d’obbligo, anche se le proporzioni del tripolarismo in quel frangente erano molto diverse tra le forze più consistenti e vigeva ancora la “conventio ad excludendum”).
Ma quello dell’estate di quarantadue anni fa (si votò il 20 giugno) e del governo Andreotti, monocolore della “non sfiducia” potrebbe rappresentare un richiamo storico in una qualche misura plausibile. Infine, tornando all’attualità, non sono da escludere scissioni o riallineamenti, sempre all’ordine del giorno in tutto l’arco dello schieramento politico quando il tema è quello del governo e gli equilibri precari e delicati.
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