Del sequestro di Aldo Moro conosciamo nel dettaglio la sceneggiatura,
ma mai come in questo anniversario non ne riconosciamo più la verità.
E’ scomparsa, obliterata da spirito di vendetta o forse, più
semplicemente, da ignoranza politica, la storia. Venuto meno il
contesto, non rimane che la fiction: targhe e auto, svolte e
toponomastica, ricordi di nipotini precocemente orfani e complottismi
d’ogni ordine. All’incanto catto-comunista è subentrato il disincanto
cossighiano, per tornare all’incomprensione post-moderna, ma la prima
vittima rimane la comprensione degli eventi. C’è un filo rosso che
collega la memorialistica di questi giorni: la forzata
de-contestualizzazione di un episodio trasformato in evento e slegato da
qualsivoglia processo. Aldo Moro non è l’apice – glorioso o tragico, a
seconda delle opinioni – di un decennio di scontro di classe. E’ una
fiction Rai innestata nella politica italiana. E’ una forma traslata di romanzo criminale applicata
ai rapporti della politica. C’è la banda di assassini e la vittima
innocente. Eventi privati dunque: cosa c’entrano “gli italiani” (brava
gente...)? L’importante è disinnescare la relazione tra il ’68 e il ’78 e,
all’interno del lungo decennio di scontro sociale, separare la
minoranza estremista dalla stragrande maggioranza del “paese reale”. La
storia letta attraverso le lenti della psicologia di gruppo. Il
controcanto è rappresentato dagli ultimi cossighiani impenitenti: Giuliano Ferrara, ad esempio.
Al contrario, è possibile capire Aldo Moro solo inserendolo nel suo
processo storico. Il 1968 libera, disgregandole per riconnetterle,
energie sociali che da tempo covavano nella sopraggiunta società del
benessere. Una società rapidamente arricchita e al tempo venata di
contraddizioni sociali dilanianti: nuovo benessere e tragica povertà,
fantasmagorie metropolitane e sradicamenti culturali. Un mondo in
trasformazione che si esprimeva attraverso paradigmi politici di una
stagione invecchiata precocemente. Una nuova generazione fa saltare il
tappo che costringeva numerose contraddizioni entro schemi non più
attuabili: l’incontro tra comunismo e cattolicesimo procedeva parallelo
alla crisi del comunismo e del cattolicesimo, lasciando alle sole élite
politiche o culturali un discorso che non trovava più radicamenti nella
società. Una volta fuoriuscito, come noto, il dentifricio non torna nel
suo tubetto. Allo stesso modo, una volta liberate, quelle energie
generazionali prendono velocemente la forma della politica: impossibile
ricondurle al folclore giovanile.
I gruppi si innestano in una lotta di
classe reale che trova sponda nel corpaccione operaio del Pci. Non c’è
doppiezza nei dirigenti comunisti, ma ce ne è parecchia nel ventre della
balena: le avanguardie sono criticate ma sono riconosciute.
Nuovo proletariato e sponda operaia moltiplicano gli effetti su un piano
della politica generale in decomposizione, irrigidito da un Cln
riproposto fuori tempo massimo.
Questo è il contesto entro cui si
sviluppano le lotte di classe, i gruppi della sinistra
extra-parlamentare, la loro rapidissima crisi organizzativa e politica,
l’area vasta dell’autonomia operaia e la sua negazione destituente come
programma minimo e massimo al contempo, che amplifica, invece di
risolvere, quella crisi della politica di cui è vittima e artefice la
stessa Autonomia.
Energie politiche e crisi della politica non potevano
non portare anche alla lotta armata, presente in tutti i paesi
attraversati dalla brusca frenata del “trentennio glorioso”.
L’anomalia
italiana non sta dunque nella lotta armata, ma nella sua durata, nella
sua capillarità, nei suoi numeri, nella sua composizione di classe. Aldo
Moro sta dentro questo quadro, che prevede anche Carrero Blanco, Hanns-Martin Schleyer, Alexander Meigs Haig, René Audran e i molti
altri vertici umani del sistema capitalista colpiti dalle lotte armate
in Europa.
Aldo Moro è il frutto dunque di questa sinergia tra forti lotte di
classe e Stato debole nel ricomprenderle. L’Italia non è la Francia.
Allo stesso tempo, la morte di Aldo Moro è il risultato dell’incrocio di
due ragion di Stato. Quella atlantica democristiana, attenta a non
finire nel girone infernale dei paesi a sovranità limitata; e quella
comunista, ancor più spaventata dal perdere il controllo delle
fabbriche. Perché la contesa, dentro il campo comunista, era quella.
Giocata male dalla sinistra rivoluzionaria, ma giocata fino in fondo. Il
tentativo brigatista si scontrava con tutto il peso di una tradizione
più che secolare di estremo realismo comunista. L’Italia era uno Stato
debole, ma il Pci un’istituzione forte, molto più forte dell’impazienza
rivoluzionaria. Aldo Moro non rappresentava nessun ganglio soggettivo
di chissà quale valore, come scopriranno ben presto le Br:
sacrificabile, dunque, persino per Berlinguer, che già non era più
Togliatti e il suo tempo.
Il 1978 conclude lo scontro di classe in Italia. Raggiunto il
culmine, senza più sponde né simpatie, senza una Politica rivoluzionaria
capace di trasformarsi per attestarsi ad un punto alto dello scontro,
la rovina è inevitabilmente veloce e senza misericordia. Siamo ancora
dentro questa rovina. Questi anni balordi non c’entrano nulla con quel
decennio. E proprio per questo c’entrano.
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